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Il modernista attacca Tommaso perché non lo capisce

francesco lamendola Nov 30, 2022

di Francesco Lamendola

È noto che la bestia nera di tutti i modernisti delle varie correnti e tendenze, e uno dei non molti argomenti che li metteva tutti d’accordo, è san Tommaso d’Aquino, capace di catalizzare con di sé e contro la propria opera tutto il fastidio, l’insofferenza, la viscerale antipatia dei nuovi teologi, tanto più esacerbati dal fatto che Leone XIII con l’enciclica Aeterni Patris del 4 agosto 1879,  aveva proposto il tomismo come massimo modello di filosofia autenticamente cristiana e ne aveva disposto l’insegnamento nelle facoltà teologiche come il perfezionamento e il coronamento della formazione sacerdotale.

Vale la pena di riportare qualche passo di quel documento, che con tanto calore ed entusiasmo si fa banditore della perenne utilità e validità dello studio del Dottore Angelico:

Con ottima decisione dunque non pochi cultori delle scienze filosofiche, avendo recentemente applicato l’animo a restaurare con profitto la filosofia, attesero ed attendono a far rivivere e ritornare nel primitivo splendore la dottrina di San Tommaso d’Aquino. Abbiamo saputo con grande letizia dell’animo Nostro, come molti dell’Ordine Vostro si siano con pari desiderio messi alacremente nella stessa via. E mentre altamente di ciò li lodiamo, li confortiamo altresì a rimanere fermi nella decisione intrapresa; vogliamo poi che tutti gli altri sappiano non esservi per Noi cosa più cara e più desiderabile di questa: che tutti offriate largamente e copiosamente alla gioventù l’acqua di quei rivi purissimi di sapienza, che con perenne abbondantissima vena scorrono dall’Angelico Dottore.

Molte poi sono le ragioni che Ci muovono a volere questo. Innanzi tutto in questi nostri tempi, essendo in uso combattere la fede cristiana con le arti e con le astuzie di una scienza fallace, è necessario che tutti i giovani, e particolarmente quelli che crescono sperando nella Chiesa, siano nutriti di una dottrina sostanziosa e robusta, affinché vigorosi e ben preparati si abituino tempestivamente a trattare valorosamente e sapientemente la causa della religione e siano "sempre pronti, secondo gli ammonimenti apostolici, a soddisfare chiunque domanda ragione di quella speranza che è in noi" (1Pt 3,15), e "ad esortare nella sana dottrina ed a convincere coloro che la contraddicono" (Tt 1,9). Inoltre, molti di quelli che, inimicatisi con la fede, hanno in odio gl’insegnamenti cattolici, dichiarano di avere a maestro e duce la sola ragione. A sanare costoro ed a riportarli in grazia con la fede cattolica, riteniamo che, dopo il soprannaturale aiuto di Dio, non vi sia mezzo più opportuno della solida dottrina dei Padri e degli Scolastici, i quali dimostrano i saldissimi fondamenti della fede, la sua divina origine, l’inconcussa verità, gli argomenti che la sorreggono, i benefici arrecati al genere umano e la sua perfetta armonia con la ragione, apportando tanta evidenza e tanta forza, quanta è sovrabbondantemente sufficiente a piegare gli animi anche più ritrosi ed ostinati. (…)

Noi dunque, mentre dichiariamo che si deve accogliere con aperto e grato animo tutto ciò che sapientemente è stato detto e che è stato inventato ed escogitato utilmente da chicchessia, esortiamo Voi tutti, Venerabili Fratelli, a rimettere in uso la sacra dottrina di San Tommaso e a propagarla il più largamente possibile, a tutela e ad onore della fede cattolica, per il bene della società, e ad incremento di tutte le scienze. Diciamo la dottrina di San Tommaso. Infatti, se qualche cosa fu cercata dagli Scolastici con eccessiva semplicità o insegnata con poca ponderazione; se ve n’è qualche altra che non si accordi pienamente con gl’insegnamenti certi dei tempi più recenti, o infine se ve n’è qualcuna che in qualunque modo non merita di essere accettata, non intendiamo che sia proposta all’età presente, perché la segua.

Per il resto, i maestri scelti da Voi con saggio discernimento cerchino di far penetrare negli animi dei discepoli la dottrina di San Tommaso d’Aquino, e mettano in luce lo spessore e l’eccellenza di essa a preferenza di tutte le altre…

La cosa che dava più fastidio ai modernisti, nel pensiero di san Tommaso d’Aquino, era, oltre a una certa qual patina di “vecchio” (come se i classici potessero invecchiare!), di apodittico e di autoritario, mentre si trattava semplicemente dell’autorevolezza, di per sé evidente, di un grandissimo filosofo, quali pochi altri mai ve ne furono, la sua predilezione per Aristotele piuttosto che per Platone. Perché Platone, sì, specie attraverso la mediazione dei neoplatonici, Plotino, Porfirio, Ammonio, ecc., era (o piuttosto pareva) suscettibile d’integrazione con la spiritualità cristiana: e a ciò essi miravano, avendo del fatto religioso un concetto essenzialmente sentimentale, come rivelazione intima e diretta, come illuminazione personale e soggettiva, che si attua più sul piano dell’emozione che su quello della ragione. Non così san Tommaso, per il quale il motto credo quia absurdum avrebbe avuto poco sen so, e che puntava semmai al credo un intelligam, integrato dall’intelligo ut credam, secondo  la lezione di sant’Agostino. Ma erano giudizi e impressioni estremamente superficiali, che non rendevano affatto giustizia a tutta la complessità della posizione tomista, la cui grande scoperta è la filosofia dell’essere come atto (actus essendi) e che non sacrifica né la ragione naturale, né tanto meno la fede, ma le conduce al massimo livello di autonomia e di cooperazione possibile.

Era comune la lamentela, dopo la pubblicazione della Pascendi di Pio X, fra i modernisti, di essere cristiani e non tomisti, come se le due cose fossero incompatibili; di non aver ma prestato giuramento di fedeltà al pensiero di san Tommaso; di più - e qui il Tyrrel e soprattutto il Laberthonnière toccarono le punte estreme e più ingenerose dell’acrimonia – di non riuscire a vedere cosa c’entri il cristianesimo, tutto pervaso di amore e movimento provvidenziale, con le categorie del pensiero greco, fredde, astratte, immobili e impassibili. Il Laberthonnière ebbe il cattivo gusto, rievocando le parole con le quali san Tommaso aveva descritto all’amico Reginaldo da Piperno la visione celestiale a seguito della quale tutto ciò che aveva scritto gli sembrava adesso come paglia (e infatti posò la penna per sempre e non scrisse più nulla) che quella paglia gli pareva meritevole di essere gettata a bruciare nel fuoco.

Del pari gratuita l’accusa, rivolta a san Tommaso, di esser caduto nell’esterinsecismo, ossia nell’aver concepito l’azione della grazia sull’anima come una sorta di deus ex machina che agisce, inesplicabilmente, dall’esterno, quasi come una qualità soprannaturale che si aggiunge alle altre qualità naturali. Eppure avrebbero dovuto ben considerare la nota affermazione tomista che la grazia perfeziona la natura, non l’abolisce. Per san Tommaso, la grazia non è una qualità, ma una disposizione che agisce sulle facoltà naturali, le illumina, le perfeziona, le innalza fino ad un livello di molto superiore a quello delle loro capacità ordinarie. E dunque essa porta con sé una modificazione della vita interiore che agisce sul dato esistente, rinnovandolo.

A proposito della cieca, testarda incomprensione di san Tommaso da parte dei modernisti, e specialmente di Lucien Laberthonnière, un illustre neo-tomista italiano, Francesco Olgiati (Busto Arsizio, 1886-Milano, 1962), sacerdote, collaboratore di Padre Agostino Gemelli e di Vico Necchi nella Rivista di filosofia neoscolastica e fondatore, con Gemelli, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, così osservava nella sua monografia Laberthonnière, nella collana Maestri del pensiero dell’Editrice La Scuola di Brescia (1948, pp. 111-117):

Già i teologi (…), per diversi anni,  hanno indicato le impressioni, gli errori, le deformazioni del Laberthonnière, a proposito di soprannaturale, di grazia, di dogma, di miracoli e degli altri concetti della dogmatica cattolica (e lo stesso si ripeta a proposito della pedagogia. (…) Preferisco quindi esaminare, sia pur rapidamente,  la crociata indetta dal Laberthonnière contro la filosofia tomista, o, come soleva dire con sprezzo, contro l’idealismo greco. Due rimproveri, connessi essenzialmente tra loro, mi pare che si possano rivolgere al Laberthonnière: la falsa valutazione filosofica della astrazione antica, e l’accusa nel campo teologico di estrinsecismo, di giustapposizione a proposito di naturale e di soprannaturale, di natura e di grazia,  di filosofia e di rivelazione.                                                                                                                                

Forse che S. Tommaso non insegnava che la vera realtà è l’individuo e che l’universale, in quanto universale, non esiste se non nella mente? Tutt’altro! Con Aristotele e contro Platone affermava la prima tesi; e la stessa serietà della sua speculazione ci indica come fosse convinto della seconda. Il suo compito, però, la sua missione non era quella dello STORICO DELLA REALTÀ, né dello scienziato (come potremmo concepirlo ai giorni nostri, bensì del FILOSOFO, ossia del metafisico: ed appunto perciò, nessuno, meglio di S. Tommaso, precisò con maggiore acutezza cosa sia la FEDE e cosa sia la RAGIONE, cosa sia il NATURALE e cosa sia il SOPRANNATURALE, cosa sia l’UOMO e cosa si intenda per DIO e così via. più che il momento dell’unità storica, egli si soffermò su quello della DISTINZIONE filosofica; ed in questa indagine gli servì egregiamente il modello astrattivo, ossia il CONCETTO che ebbe in lui un artista di genio. I concetti di S. Tommaso sono un modello di elaborazione perfetta ed insuperabile. Il Laberthonnière, con un procedimento poco lodevole, qualificò ciò che in S. Tommaso era ASTRAZIONE come ASTRATTISMO, - e ciò che era DISTINZIONE come DIVISIONE, La quale, necessariamente, implica in seguito la saldatura dei pezzi separati. Il concetto astratto per lui – ossia l’intellettualismo – divide ciò che nella realtà è unito, impoverisce quindi il reale e lo lascia sfuggire. La distinzione dei due ordini naturale e soprannaturale diventa SEPARATISMO e, di conseguenza, ESTRINSECISMO, con La successiva giustapposizione di filosofia separata e di rivelazione, di natura e grazia.       

Il Laberthonnière non arrivò mai a capire l’idea centrale della metafisica aristotelica, ossia la scienza dell’essere in quanto essere. Se avesse visto come dire realtà è dire essere, e che anche se si tratta di un fenomeno che appare, d’un atto di volontà, d’una realtà in divenire, sempre ogni e qualsiasi momento del reale, essendo essere, è sottomesso alle leggi dell’essere stesso, non avrebbe pronunciato condanne contro l’astrazione filosofica, condanne che, del resto, egli ha in comune – per un comune malinteso – con le varie correnti antiintellettualistiche dell’epoca nostra. (…)

Quanto, poi, al  nesso tra naturale e soprannaturale, la storia della cultura medioevale protesta contro la denuncia di separatismo e di estrinsecismo, lanciata contro S. Tommaso. Ogni essere, per lui, ha un fine, al quale tende e che è il termine della sua attività. Orbene, qual è il fine ultimo, verso cui è orientato l’uomo, creatura ragionevole? S. Tommaso esclude che siano le ricchezze, gli onori, la gloria, i piaceri; e dimostra che «in solo Deo beatitudo hominis consistit». Conoscere Dio, unirsi a Lui mediante la conoscenza: ecco il fine supremo e la gioia perfetta della creatura ragionevole: «intelligere Deum est ultimus finis omnis intellecrtualis substantiae». Se noi fossimo stati lasciati nell’ordine puramente naturale, avremmo raggiunto, anche nell’altra vita, solo una conoscenza indiretta di Dio, perché il nostro intelletto non assurge  a Dio, se non astraendo e risalendo dagli effetti alla causa. (…)

In breve nella natura umana, secondo S. Tommaso, esiste una CAPACITÀ d’elevazione al soprannaturale ed una TENDENZA verso di essa. L’intervento di Dio determina questa elevazione, attualizzando le potenze obbedienziali della natura. Il soprannaturale, ben lungi dall’essere qualcosa di straniero, e di opprimente per la nostra attività umana, segna la perfezione suprema e lo sviluppo perfetto che essa può raggiungere con l’aiuto della rivelazione che ne illumina i passi, e della grazia che le infonde la forza e la eleva. Pur essendo un dono gratuito il soprannaturale soddisfa ogni desiderio ed ogni aspirazione della natura umana. Nessun’ombra di estrinsecismo noi scorgiamo nell’organica visione tomistica dei rapporti fra natura e soprannatura. (…) La grazia, per S. Tommaso, non importa una vera e propria creazione, in quanto essa non è un’entità esistente in sé, che venga ad aggiungersi all’anima nostra o a sovrapporsi alle nostre facoltà naturali, ma è solo una qualità accidentale, ossia una modificazione qualitativa del nostro essere.

L’Olgiati, che si mostra pieno di premure verso il Laberthonnière, riconoscendogli un ingegno eccezionalmente vigoroso  e un puro, sincero anelito dell’anima verso il divino, e inoltre gli rende merito d’essersi sottomesso docilmente alla condanna del modernismo, non infierisce sulla ragione decisiva dell’astio di costui verso S. Tommaso: la magnifica prova di autonomia di fede e ragione. Ma è evidente che essa falciava l’erba sotto i piedi dei modernisti. Il modernismo, infatti, riesce ad aprirsi una strada solo nel punto di congiunzione (e di eventuale contraddizione) tra fede e ragione: quando la fede non basta più alle menti troppo orgogliose, e quando la ragione non dà spiegazioni capaci di placare interamente il tumulto delle anime troppo emotive. In fondo, il modernista è uno che scambia la propria fede soggettiva, magari del tutto arbitraria, per la fede oggettiva che scaturisce dalla Rivelazione ed è confermata dalla grazia; che insomma “sente” Dio agitarsi entro di sé, e a quel moto vago e confuso impresta i caratteri della fede cattolica, fondata sul riconoscimento, l’amore e la debita adorazione dell’unico Dio vero.

Come scriveva Pio X nella Pascendi:

Ma non è qui tutto il filosofare, o, a meglio dire, il delirare di costoro. Imperocché in siffatto sentimento essi non riscontrano solamente la fede: ma colla fede e nella fede stessa quale da loro è intesa, sostengono che vi si trovi altresì la Rivelazione. E che infatti può pretendersi di vantaggio per una rivelazione? O non è forse rivelazione, o almeno principio di rivelazione, quel sentimento religioso che si manifesta d'un tratto nella coscienza? Non è rivelazione l'apparire, benché in confuso, che Dio fa agli animi in quello stesso sentimento religioso? Aggiungono anzi di più che, essendo Iddio in pari tempo e l'oggetto e la causa della fede, la detta rivelazione è al tempo stesso di Dio e da Dio: ha cioè insieme Iddio e come rivelante e come rivelato. Di qui, Venerabili Fratelli, quell'assurdissimo effato dei modernisti che ogni religione, secondo il vario aspetto sotto cui si riguardi, debba dirsi egualmente naturale e soprannaturale. Di qui lo scambiar che fanno, come di pari significato, coscienza e rivelazione. Di qui la legge, per cui la coscienza religiosa si dà come regola universale, da porsi in tutto a pari della rivelazione, ed alla quale tutti hanno obbligo di sottostare, non esclusa la stessa autorità suprema della Chiesa, sia che ella insegni, sia che legiferi in materia di culto o di disciplina.

Se non che in tutto questo procedimento dal quale, a detta dei modernisti, saltan fuori la fede e la rivelazione, egli è mestieri tener d'occhio un punto, che è di capitale importanza per le conseguenze storico critiche, che essi ne derivano. Quell'inconoscibile, di cui parlano, non si presenta già alla fede come nudo in sé ed isolato; ma si bene congiunto strettamente a un qualche fenomeno, che, quantunque appartenga al campo della scienza e della storia, pure in certa guisa ne trapassa i confini. Tal fenomeno potrà essere un fatto qualsiasi della natura, che in sé racchiude alcun che di misterioso: potrà essere altresì un uomo, il cui carattere, i cui gesti, le cui parole mal si compongano colle leggi ordinarie della storia. Or bene la fede, attirata dall'inconoscibile racchiuso nel fenomeno, s'impadronisce di tutto intero il fenomeno stesso e lo penetra in certo qual modo della sua vita. Da ciò due cose conseguitano. La prima, una tal trasfigurazione del fenomeno, per una, diremmo, quasi elevazione sulle condizioni sue proprie, che lo renda acconcio, come materia, alla forma del divino che la fede v'introdurrà. La seconda, un certo sfiguramento, nato da ciò che avendo la fede tolto il fenomeno ai suoi aggiunti di tempo e di luogo, facilmente gli attribuisce quello che nella realtà delle cose non ha di fatto: il che soprattutto avviene quando si tratti di fenomeni di antica data, e tanto più se sono remoti. Da questi due capi i modernisti traggono per loro due canoni; i quali, uniti a un terzo già dedotto dall'agnosticismo, formano quasi la base della critica storica. Illustriamo il fatto con un esempio, preso dalla persona dl Gesù Cristo. Nella persona di Cristo, dicono, la scienza e la storia non trovan nulla al di là dell'uomo. Dunque, in vigore del primo canone dato dall'agnosticismo, dalla storia dl essa deve cancellarsi tutto quanto sa di divino. Più oltre, in conformità del. secondo canone, la persona di Cristo è stata trasfigurata dalla fede: dunque fa d'uopo spogliarla di tutto ciò che la innalza sopra le condizioni storiche. Per ultimo, la stessa è stata sfigurata dalla fede, secondo insegna il terzo canone: dunque non da rimuoversi da lei i discorsi, i fatti, tutto quello insomma che non risponde al suo carattere, alla sua condizione ed educazione, al luogo ed al tempo in cui visse. Strano per fermo parrà a noi questo modo di ragionare; ma qui sta la critica dei modernisti.

Anche se i neomodernisti digrignano i denti, mai un’analisi più esatta e precisa è stata fatta su di loro.

 

 

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