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Che dire del Don Chisciotte di Michel Foucault?

francesco lamendola Aug 10, 2022

di Francesco Lamendola

Le parole possono dire le cose? Il linguaggio umano può rappresentare la realtà in maniera oggettiva? Ed esiste, poi, una realtà oggettiva fuori del linguaggio? Oppure la realtà esiste solo nella nostra mente, come voleva George Bekeley; o solo nell’Idea, come voleva Platone; o solo nello Spirito universale, come per Hegel, o appunto nel linguaggio, come per Wittgenstein, e quindi non c’è linguaggio che la possa cogliere ed esprimere adeguatamente? Siamo prigionieri dei nostri codici semantici e consegnati alla soggettività irrimediabile della nostra condizione di significanti che sono al tempo stesso significati, ma non si sa per chi, visto che non lo sono per se stessi?

Proviamo ad affrontare l’ardua questione partendo da un testo ormai classico, che sembra prendere il toro per le corna; e vediamo dove la cosa ci condurrà.

Scrive Michel Foucault in Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane (titolo originale: Les mots et les choses, Editions Gallimard, Paris, 1966; traduzione dal francese di Emilio Panaitescu, Milano, Rizzoli, 1978, 1988, pp. 62-63):

Con i loro giri e rigiri le avventure di Don Chisciotte tracciano il limite: in esse hanno termine i giochi antichi della somiglianza e dei segni; in esse già nuovi rapporti si stringono. Don Chisciotte non è l’uomo della stravaganza ma piuttosto il pellegrino meticoloso che fa tappa davanti a tutti i segni della similitudine. È l’eroe del Medesimo. Non riesce ad allontanarsi dalla familiare pianura che si stende attorno all’Analogo, proprio come non riesce ad allontanarsi dalla sua angusta provincia. Incessantemente la percorre, senza mai varcare le frontiere nette della differenza né raggiungere il cuore dell’identità. Egli stesso è fatto a somiglianza dei segni. Lungo grafismo magro come una lettera, eccolo emerso direttamente dallo sbadiglio dei libri. L’intero suo essere non è che linguaggio, testo, fogli stampati, storia già trascritta. È fatto di parole intersecate; è scrittura errante nel mondo in mezzo alla somiglianza delle cose. Non del tutto però: nella sua realtà di povero hidalgo può infatti divenire il cavaliere soltanto ascoltando da lontano l’epopea secolare che formula la Legge. Il libro è più il suo dovere che la sua esistenza. Senza posa deve consultarlo per sapere che fare e che dire e quali segni dare a se stesso e agli altri per mostrare che la sua natura è la stessa del testo dal quale è uscito. I romanzi di cavalleria hanno scritto una volta per tutte la prescrizione della sua avventura. E ogni episodio, ogni decisione, ogni impresa saranno segni del fatto che Don Chisciotte è realmente somigliante a tutti i segni da lui ricalcati.

Ma se vuole essere loro somigliante è perché deve dimostrarli, è perché ormai i segni (leggibili) non somigliano più agli esseri (visibili) Tutti quei testi scritti, tutti quei romanzi stravaganti sono appunto senza uguali: nessuno al mondo è mai stato ad essi somigliante; il loro linguaggio resta in sospeso senza che alcuna similitudine arrivi mai a riempirlo; possono bruciare tutti e per intero, la figura del mondo non ne resterà cambiata. Somigliando ai testi di cui è il testimone, il rappresentante, l’analogo reale, Don Chisciotte deve fornire la dimostrazione e farsi portatore del segno indubitabile che dicono il vero, che sono il linguaggio del mondo. Gli tocca adempiere la promessa dei libri. È suo compito rifare l’epopea, ma in senso inverso: questa narrava (pretendeva narrare) gesta reali, promesse alla memoria; Don Chisciotte invece deve colmare con la realtà i segni, senza contenuto, della narrazione. La sua avventura sarà una decifrazione del mondo: un percorso minuzioso per rilevare sull’intera superficie della terra le figure che mostrano che i libri dicono il vero. La prodezza deve diventare prova: consiste non già nel trionfare realmente – è per questo che la vittoria è in fondo irrilevante – ma nel trasformare la realtà in segno. In segno attestante l’esatta conformità dei segni del linguaggio alle cose stesse. Don Chisciotte legge il mondo per dimostrare i libri. E non fornisce a sé prove diverse dal luccichio delle somiglianze.

Tutto il suo cammino è una ricerca delle similitudini: le più tenui analogie vengono sollecitate come segni assopiti che occorre risvegliare perché riprendano a parlare. Le greggi, le fantesche, le locande ridiventano il linguaggio dei libri nella misura impercettibile in cui somigliano ai castelli, alle dame, agli eserciti. Somiglianza ogni volta delusa che trasforma la prova cercata in derisione e lascia per sempre vuota la parola dei libri. Ma la non-similitudine stessa ha il proprio modello da essa servilmente imitato: lo trova nella metamorfosi dei maghi. Per cui tutti gli indici della non-somiglianza, tutti i segni che mostrano che i testi scritti non dicono il vero, somigliano al gioco dell’incantesimo che introduce con l’astuzia la differenza nell’indubitabile della similitudine. E poiché questa magia è stata prevista e descritta nei libri, la differenza illusoria da essa introdotta non sarà mai altro che una somiglianza stregata. Un segno supplementare quindi del fatto che i segni somigliano alla verità.

“Don Chisciotte” traccia il negativo del mondo del Rinascimento; la scrittura ha cessato di essere la prosa del mondo; le somigliane e i segni hanno sciolto la loro antica intesa; le similitudini deludono, inclinano alla visione e al delirio; le cose restano ostinatamente nella loro ironica identità: sono soltanto quello che sono; le parole vagano all’avventura, prive di contenuto, prive di somiglianza che le riempia; non contrassegnano più le cose; dormono tra le pagine dei libri in mezzo alla polvere. La magia, che consentiva la decifrazione del mondo scoprendo le somiglianze segrete sotto i segni, non serve più che a spiegare in termini di delirio perché le analogie sono sempre deluse. L’erudizione che leggeva come un testo unico la natura e i libri è rimandata alle sue chimere: deposti sulle ingiallite pagine dei volumi, i segni del linguaggio non hanno più come valore che la tenue finzione di ciò che rappresentano. La scrittura e le cose non si somigliano. Tra esse, Don Chisciotte vaga all’avventura.

Eppure il linguaggio non è divenuto del tutto impotente. Detiene ormai nuovo poteri, che gli sono propri. Nella seconda parte del romanzo Don Chisciotte incontra personaggi che hanno letto la prima arte del testo e che riconoscono in lui, uomo reale, l’eroe del libro. Il testo di Cervantes ripiega su se medesimo, sprofonda nel proprio spessore, diventa per sé oggetto della propria narrazione. La prima parte delle avventure svolge nella seconda la funzione assunta all’inizio dai romanzi di cavalleria. Don Chisciotte deve essere fedele al libro che egli è realmente divenuto; ha il dovere di proteggerlo dagli errori, dalle contraffazioni, dalle contaminazioni apocrife; deve aggiungere i dettagli omessi; deve serbare la sua verità. (…)

Che dire di questa pagina di prosa, di questi concetti?

Foucault scrive bene: è una caratteristica di quasi tutti i saggisti francesi, compresi i pensatori. Le parole sono scelte con cura; le frasi hanno la scorrevolezza levigata e luccicante d’un fiume argenteo che brilla nella campagna ubertosa, fra due sponde piacevolmente ombrose; il lettore è preso dalla malia del ritmo, vorremmo quasi dire del verso. Inoltre c’è una grande presenza di spirito, una specie di brio, al di là del quale s’intravvede il sorriso di La Fontaine, di Voltaire, di La Mettrie e persino di Talleyrand: il sorriso dell’uomo di mondo, brillante, scanzonato, raffinatissimo: abituato a non stupirsi di nulla, ma in compenso ben deciso a stupire il suo pubblico, beninteso senza averne l’aria, anzi, affettando la massima naturalezza e nonchalance. Per questo tipo di scrittore l’arguzia è un dote indispensabile, come il vestito da sera a un ballo in società: per questo le parole e le frasi sono costruite come un gioco sapiente di fuochi d’artificio, come uno spettacolo pirotecnico in una bella notte estiva, il solo sfondo possibile perché tutti possano ammirarne il fascino spettacolare e  l’incomparabile suggestione.

Ma dietro tanto scintillio di luci e tanta varietà d’immagini, che cosa c’è, esattamente? La sostanza non è gran cosa: lo stesso concetto viene ripetuto, con parole diverse, più e più volte, con prodigiosa munificenza. Il discorso su Don Chisciotte, che siamo stati costretti a “tagliare”, e nondimeno ha richiesto uno spazio considerevole, poteva essere esposto usando meno di metà delle parole, senza che la chiarezza o la precisione ne risentissero. Questa è una caratteristica di Foucault, che lo accomuna al nostro Galimberti, e più ancora a Umberto Eco (il quale più di tutti gli somiglia, in ogni senso): l’incapacità di scrivere libri di meno di 400 o 500 pagine; la prolissità, che passa quasi inosservata grazie appunto all’inesausta vivacità stilistica.

Che cosa ha detto, in fin dei conti? Primo, che ogni epoca, o meglio ogni paradigma culturale, ogni episteme, ha un proprio universo di segni, un proprio codice linguistico e semantico (Foucault ne distingue tre: rinascimentale, classico e moderno; prima del Rinascimento la cosa non lo interessa). Secondo, che all’inizio del paradigma che lui chiama classico, e che in effetti va da Cartesio fino a Kant, il rapporto fra le prole e le cose non è più basato su una legge di somiglianza, perché la parola non sa più esprimere la realtà in maniera adeguata, e perciò si spezza l’unità di uomo e natura (anche se l’uomo, inteso come oggetto e soggetto di scienza, deve ancora nascere: nascerà solo a partire da Kant). Terzo, don Chisciotte vive il dramma di tale divaricazione, di tale perdita di relazioni significanti fra le parole e le cose, ed è costretto a rincorrere le parole (del vecchio codice semantico, ossia di quello rinascimentale, ormai sorpassato) per cercare in esso le ragioni della realtà, sino a far di sé e della sua vita il tentativo d’inverare la corrispondenza perduta, annullandosi in una parola scritta che non ha più senso (i vecchi romanzi cavallereschi) e votandosi al folle compito di provare ch’essi avevano ragione, perché in lui, se non altro, vivono nel loro significato originale. E se i mulini a vento non sono giganti, ebbene ciò non dipende da un errore della parola o da un inganno dei sensi, ma dalle male arti di qualche cattivo mago, invidioso della gloria del valoroso hidalgo.

È una tesi condivisibile e, soprattutto, Foucault si sforza di dimostrarla, il che dovrebbe esser l’ABC del lavoro filosofico? Non si sforza di dimostrare nulla, dà tutto per provato e per evidente: lo ha descritto con tanta verve letteraria! Quanto alla ragionevolezza, e premesso che gli stessi concetti erano già stati esposti, ma in forma assai più persuasiva, sia da Kierkegaard (punto primo: noi non possiamo “uscire” dal nostro tempo, e osservarci dall’esterno in modo oggettivo), sia da Pirandello (punto terzo: solo il personaggio è coerente sino in fondo con la propria storia, per la buona ragione che ha l’essenza – san Tommaso avrebbe detto la quidditas – mentre la persona, che ha “solo” l’esistenza, al suo confronto fa sempre la figura dell’intruso capitato lì per caso) ci sembra che le obiezioni possano essere molte e di gran peso.

L’obiezione fondamentale è che le parole non hanno avuto mai lo scopo, né la pretesa, di descrivere le cose con fedeltà assoluta. Questo è pacifico. Gli uomini hanno sempre saputo, o quantomeno intuito, che esiste una distanza incolmabile fra il sensibile, l’esperibile e lo stesso intellegibile, da un lato e dall’altro le possibilità del linguaggio. Quest’ultimo è sempre stato un’approssimazione alla narrazione del reale: ora poggiando più sulla somiglianza, ora sulla differenza. È vero che, da Kant in poi, la relazione fra uomo e natura viene rifondata a partire dal soggetto che trova nel conoscere trascendentale un nuovo aggancio significativo con le cose. Ma al prezzo della metafisica, cioè al prezzo di rinunciare alla cosa in sé e contentarsi del fenomeno. È stato un guadagno o una perdita? Dipende, ovviamente, dal punto di vista. Se si adotta il punto di vista della verità oggettiva (adaequatio rei et intellectus, diceva Tommaso) è stata senza dubbio una perdita secca, un danno irreparabile. Ma è in quel solco che si pongono Foucault e tutti gli strutturalisti, gli esistenzialisti, gli empiristi, i criticisti, e insomma quasi tutta la cosiddetta filosofia moderna. Che in realtà, “liberatasi” della cosa in sé, non merita più il nome di filosofia.

È un libro di filosofia, Le parole e le cose? È un’analisi filosofica quella che vi si fa del personaggio di Don Chisciotte e della relazione fra le sue avventure e il suo codice semantico? A nostro giudizio, no; e in fondo ne era conscio lui stesso (vedi l’intervista rilasciata a Rai Teche il 27/11767, in occasione della traduzione italiana: non è né un libro di storia, né propriamente di filosofia: https://www.youtube.com/watch?v=I_WQzNGbG9U). Quanto a Don Chisciotte, a tratti si ha quasi l’impressione che Foucault non abbia ben presente il romanzo di Cervantes, del quale gli sfuggono, tutto preso dal gioco delle corrispondenze e delle incompatibilità semiologiche fra il personaggio e il codice espressivo del suo tempo, aspetti fondamentali e se vogliamo meno astratti, più concreti, che non sfuggono alla magistrale analisi di Miguel De Unamuno nella Vita di Don Chisciotte e di Sancio. Ad esempio che don Chisciotte rappresenta l’eterna anima spagnola: cosa che il cosmopolita, storicista e strutturalista Foucault, per il quale nulla è assoluto e perenne, mai arriverà a comprendere.

 

 

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