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Vi è corrispondenza fra pensiero, linguaggio e realtà?

francesco lamendola Aug 27, 2022

di Francesco Lamendola

La disputa sugli universali, la famosa quaestio de universalibus, è stata, come si sa, la più accesa e prolungata discussione filosofica e teologica che ha travagliato la Scolastica, occupando gran parte del XII e del XIII secolo e creando una irrimediabile spaccatura fra “realisti” e “nominalisti”, cioè fra coloro i quali sostenevano l’esistenza autonoma dei concetti di genere e specie (ad esempio il genere animale e la specie uomo), anche al di fuori degli individui (i singoli uomini) e coloro che la negavano e riducevano i concetti a puri nomi e nel caso estremo, quello di Roscellino, a suoni o emissioni della voce.

Non staremo qui a ripercorrerla, perché troppo nota, né ad esporre le soluzioni “mediatrici” e in particolare quella di san Tommaso d’Aquino, ispirata al suo realismo moderato, secondo il quale gli universali esistono sia prima delle cose stesse, nella mente di Dio, sia nelle cose, come loro essenza, sia dopo le cose, come idee della mente. Ci soffermeremo invece a valutare quale fosse la reale posta in gioco e perché i padri della scolastica si affannarono tanto su una tale questione, che a noi moderni, di primo acchito, potrebbe apparire astrusa e perfino un po’ oziosa, tanto che alcuni storici della filosofia, scrollando le spalle, l’hanno giudicata qualcosa d’incomprensibile, se non addirittura il risultato d’un malinteso linguistico.

E invece si è trattato di tutt’altro che una disputa astratta e oziosa, buona per gente che non aveva di meglio per occupare il proprio tempo: i padri della scolastica hanno visto benissimo che si trattava di un nodo assolutamente decisivo, non solo per la fede, ma per la ragione stessa; e quindi una questione che andava chiarita sia per le sue conseguenze a livello teologico, sia per stabilire l’indirizzo futuro del pensiero filosofico. Il fatto che la disputa si sia placata praticamente insieme al tramonto della scolastica, e la sostanziale vittoria – non tanto nella questione degli universali, ma nel complesso della filosofia scolastica – delle nuove tendenze che si esprimono in Guglielmo di Ockham, fautore di un empirismo e un sensismo radicali e d’un nominalismo estremo, conferma che si trattò di tutt’altra cosa che un dibattuto ozioso o, peggio, un malinteso linguistico; che erano veramente in gioco questioni essenziali.

Ci piace a questo punto riportare  una pagina del noto manuale di Abbagno e Fornero Il “nuovo” Protagonisti e testi della Filosofia a cura di Giovanni Fornero (Paravia, 2006, vol. 1 B, Dall’Ellenismo alla Scolastica, pp. 598-599):

Di fronte a queste soluzioni di compromesso [cioè quella di s. Tommaso d’Aquino e più ancora quella di Duns Scoto], nelle quali l’apparente opposizione sembra risolversi in una sostanziale conciliazione, ottenuta tramite una graduazione armonica delle diverse posizioni, alcuni storici (si pensi ad esempio a Guido De Ruggiero) sono giunti a considerare la “lotta” tra realisti e nominalisti come un semplice “equivoco” di cui sarebbero responsabili gli stessi dottori medievali. Questi, infatti, avrebbero unilateralmente accentuato, secondo il loro gusto platonico o aristotelico, questa o quella tesi, trascurando di porla in relazione con le altre. In realtà, un’ipotesi interpretativa di questo tipo tradisce una grave incomprensione della strutturale inconciliabilità tra la via realistica e quella nominalistica, le quali, al di là dei tentativi di giustapposizione, partono non solo da DIFFERENTI PRESUPPOSTI TEORICI (platonico-aristotelici da un lato e cinico-stoici dall’altro), ma conducono anche a RISULTATI PROFONDAMENTE DIVERSI. (…)

Quella che all’inizio può sembrare un’’innocua questione linguistico-grammaticale relativa ai termini generali [cioè la disputa scolastica sugli universali], si rivelò ben presto un problema di notevole portata gnoseologica, logica e metafisica, tanto da investire (…) il valore e il fondamento della conoscenza stessa. Esso, inoltre, portò a una serie di conseguenze inaspettate anche nel campo più strettamente teologico.

Come sappiamo, sul piano gnoseologico e logico la soluzione dominante della FILOSOFIA GRECA era stata quella di tipo realistico, basata sul presupposto secondo cui il pensiero È LA RIPRODUZIONE DELL’ESSERE, O DELLA REALTÀ. Solo la linea sofistico-scettica aveva radicalmente messo in discussione tale postulato, ma nel mondo antico non aveva avuto molta fortuna. Tant’è vero che la nuova filosofia cristiana aveva continuato per secoli a pensare in un ORIZZONTE TOTALMENTE REALISTICO.

Il problema degli universali tornava dunque ad agitare la vecchia questione sollevata per la prima volta dai sofisti: IL PENSIERO E IL LINGUAGGIO HANNO DAVVERO LA PREROGATIVA DI RISPECCHIARE L’ESSERE E LE SUE STRUTTURE REALI? I nostri concetti e i nostri termini sono davvero la controparte logico-linguistica delle essenze metafisiche delle cose?

Ovviamente, un problema di questo genere aveva un’inevitabile ripercussione anche in campo ontologico-metafisico, poiché il realismo, sottintendendo un sostanziale parallelismo tra “voces” e “res”, ovvero una stretta corrispondenza tra pensiero, linguaggio e realtà, implicava la possibilità, da parte del pensiero, di porsi come “fotografia” della realtà, ovvero di coglierne le forme o strutture, e quindi di far metafisica. Al contrario, il nominalismo, rifiutando la sostanzialità delle forme e assimilando i concetti generali a simboli astratti di realtà puramente individuali, sottintendeva un potenziale divorzio fra il pensiero e la realtà, destinato a mettere in forse la validità dello stesso discorso metafisico.

Analogamente, mentre il realismo, grazie ai concetti di sostanza, specie, atto ecc., si prestava a giustificare filosoficamente sia il dogma trinitario sia il discorso teologico nella sua globalità, il nominalismo sembrava minare entrambe le cose. La portata antimetafisica e antiteologica del nominalismo diventerà esplicita soprattutto nella tarda Scolastica, allorquando Ockham, riducendo il pensiero astratto a pura catalogazione dell’esperienza e anteponendo alla ragione la conoscenza sensibile (empirismo), finirà per minare la possibilità di qualsiasi discorso meta-empirico, cioè condotto oltre i limiti dell’esperienza immediatamente accessibile.

Tutto ciò portò l’antagonismo tra realismo e nominalismo, o tra la “via antica” e la “via moderna”, a tradursi ben presto, al di là della sottigliezza delle dispute e della consapevolezza degli stessi autori, in un ANTAGONISMO DI FONDO capace di far “saltare” qualsiasi tentativo di composizione. Infatti, mentre le componenti realistiche della scolastica continuarono a difendere la tradizionale concezione metafisica e teologica del mondo, quelle nominalistiche finirono per schierarsi contro la metafisica e contro la teologia, pervenendo in alcuni casi anche a concezioni ardite, che costituirono l’annuncio, o la preparazione, delle concezioni rinascimentali e moderne. In conclusione, la posta in gioco nella disputa sugli universali si rivelò, a lungo andare, la sopravvivenza della scolastica stessa.

E dunque, la vera posta in gioco - e forse qualcuno lo vide e lo compreso subito, qualcun altro più tardi, e infine ci fu senza dubbio anche chi non lo vide, né lo comprese affatto - è niente di meno che il valore della conoscenza, e prima ancora del linguaggio, quale fedele riproduzione del mondo oggettivo. In altre parole, quando noi vediamo un animale a quattro zampe, dal lungo collo ornato da una criniera, che corre su un prato, e diciamo: Questo è un cavallo, facendo astrazione dal colore del suo mantello, dalla sua razza e da tutto ciò che gli appartiene solo in via accidentale, stiamo effettivamente descrivendo qualche cosa di reale, o stiamo solo dando forma intelligibile ad una nostra idea ricavata dall’esperienza sensibile? Stiamo concettualizzando qualcosa di reale o qualcosa di astratto? Sì, abbiamo fatto astrazione dalle caratteristiche specifiche e individuali di quel cavallo, cioè da quel che lo fa essere se stesso e non un altro, ad esempio in mezzo ad un branco di cavalli: ma ciò che rimane dopo tale operazione mentale è ancora un ente reale, o è solo un ente logico, da noi creato per ragioni di comodità pratica, e in particolare per esprimere percezioni e pensieri, cioè per comunicare? Perché, se così fosse, dovremmo necessariamente trarre la conclusione che noi poco o nulla sappiamo del mondo esterno, che – si suppone - è fatto di cose esistenti indipendentemente da noi; e tutto ciò che crediamo di vedere, di sapere, di capire e di comunicare, altro non è che qualcosa di mentale e di convenzionale, qualcosa che si trova nella nostra mente e non fuori di essa.

Su questa linea di pensiero, che in un certo senso comincia con Guglielmo di Ockham e il suo empirismo radicale, fatalmente si arriva al soggettivismo e al dualismo di Cartesio, alla rinuncia alla cosa in sé di Kant, e all’inversione di ruoli fra essere e pensiero di Hegel. In altre parole, una volta abbracciata la tesi nominalista, la storia del pensiero è decisa: non si arriva per caso a Cartesio, Kant ed Hegel: la filosofia europea non avrebbe potuto essere diversa da come è stata, perché da quelle premesse non possono che discendere tali conseguenze. E dunque anche il nichilismo, figlio dello scetticismo radicale, doveva per forza di cose rappresentare la reazione e l’esito finale di una simile linea di pensiero: da Berkeley a Hume, da Nietzsche a Heidegger, si tratta di un percorso pressoché obbligato, poiché i binari sono quelli e non è pensabile una differente stazione d’arrivo, né una diversa direzione di marcia.

Di più. Se il pensiero è impotente a cogliere la realtà vera delle cose, la loro essenza (un vocabolo che, peraltro, è stato letteralmente espunto dalla filosofia moderna, e si capisce bene perché), e se il linguaggio non serve più a definire, esprimere e comunicare cose, ma solamente idee di cose e, in ultima analisi, i loro nomi (il nome della rosa!), che a questo punto sono semplicemente nomi di idee e non di oggetti concreti e reali, allora tutto quel che credevamo di sapere del mondo è illusorio e ci troviamo nella stessa condizione di Sigismondo ne La vita è sogno, il figlio del re di Polonia, cresciuto lontano dagli uomini e divenuto perciò incapace di distinguere realtà e immaginazione, veglia e sogno (una condizione significativamente analoga a quella di Cartesio immerso nel dubbio radicale, contemporaneo di Pedro Calderón de la Barca). In tal caso noi saremmo delle creature crepuscolari, sospese in una zona incerta e indefinita fra la realtà oggettiva (del tutto ipotetica) e il nostro universo mentale (solipsistico); e si dissolve come nebbia al sole ogni nostra ambizione di agire da soggetti razionali e capaci di esercitare liberamente la nostra azione nel mondo. A rigore, non sappiamo neppure se c’è un mondo, là fuori; non solo: non siamo del tutto sicuri nemmeno che esista un io. E perché dovrebbe esistere, dopotutto? Guglielmo di Ockham ci ha insegnato a non moltiplicare “inutilmente” gli enti, e l’io sembra proprio uno di quegli enti di cui si può fare a meno. Al suo posto, possiamo ipotizzare un complesso mutevole di stati di coscienza e operazioni mentali; la psicologia del profondo, da parte sua, insiste sul fatto che in noi, qualunque cosa si possa intendere con l’espressione “noi”, vi è una pluralità di voci, di forze, di tendenze, insomma tutta un orchestra, talvolta armoniosa e intonata, più spesso discorde e caotica, e non già un esecutore solista. Infatti, a ben guardare, che cosa ci autorizza ad asserire che in “noi” esiste un io, quando constatiamo così spesso che la nostra coscienza è il campo di battaglia fra istinti e volontà diversi e non di rado contrapposti, così come la nostra mente è il campo di battaglia fra idee, concezioni e valori diversi e conflittuali, fra i quali fatichiamo assai ad orientarci e a risolverci per una scelta univoca e coerente?

E questo, invero, è forse il male più grande cui ci ha condotti l’affermazione del principio nominalistico (si noti che il materialismo, o realismo grossolano, non è realmente l’opposto di esso, ma l’altra faccia della stessa cosa: infatti, nella storia del pensiero, materialismo e immaterialismo s’incontrano a mezza strada, impegnati nella comune battaglia contro il senso comune, che si è una forma moderata di realismo e non nega che vi sia dell’altro nelle cose, oltre ciò che si rivela in modo evidente e le caratterizza. Andando contro l’evidenza del senso comune, che altro non è se non la sana ragione naturale nella sua espressione immediata, il pensiero moderno è sceso in guerra contro il principio di realtà, impegnandosi nella folle impresa, perseguita con tenacia degna di una miglior causa, di modificare la realtà per non dover ammettere il proprio errore. E quanto più il pensiero, che recentemente è divenuto la linea ideologica delle classi dirigenti di gran parte del mondo, entra in conflitto con la realtà e vi trova resistenza, tanto più si accanisce e incattivisce, e raddoppia i suoi sforzi per “normalizzare” la realtà secondo i propri schemi astratti. Eterogenesi dei fini: tutto proteso a cambiare la realtà per rendere il mondo un luogo più comodo e più sicuro, il pensiero moderno produce politiche e strategie economiche, tecnologiche, culturali, le quali vanno a colpire al cuore l’umanità dell’uomo e lo rendono schiavo d’una progettualità velleitaria e delirante.

 

 

 

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