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Solo con la grazia l’uomo realizza il suo fine ultimo

francesco lamendola grazia religione Jul 04, 2022

Abbiamo visto e detto molte volte, sulla scia di Aristotele e di san Tommaso d’Aquino, che l’uomo tende alla felicità; dunque, è fatto per la felicità o beatitudine (eudaimonia o beatitudo); che un essere è felice quando raggiunge la perfezione della propria natura; che la natura propria dell’uomo è quella razionale, e che pertanto l’uomo è felice quando porta alla perfezione la ragione naturale della quale è dotato.

Ora, egli è un grado di fare ciò quando indirizza la ragione verso il suo fine più perfetto: e va da sé che tale fine non può essere nelle cose sensibili, perché alle cose sensibili corrisponde l’anima sensitiva e non già l’anima razionale. L’oggetto dell’anima razionale è dunque qualcosa di superiore alla natura sensibile. Tuttavia nell’uomo vi è anche la natura sensitiva, come del resto quella vegetativa, entrambe però nell’ordine inferiore della sua natura specifica, poiché nell’ordine superiore di essa c’è l’anima razionale. Pertanto se l’uomo tendesse, come fine ultimo della propria vita, a realizzare perfettamente la propria natura sensitiva, tenderebbe, sì, a qualcosa di conforme alla propria natura, e dunque a qualcosa di umano, però alla dimensione inferiore di essa: mentre la perfezione d’una cosa si realizza allorché questa porta al grado più alto e più nobile la propria natura superiore.

Un cavallo, per esempio, essendo dotato di anima sensitiva, realizza la propria perfezione non quando conduce un’esistenza vegetativa, nutrendosi e bevendo e riposando, ma quando esplica nel modo migliore le qualità specifiche della sua natura: la velocità, l’ardimento, la generosità, per cui l’uomo dirà di lui: «Ecco un buon cavallo!». Allo stesso modo, un uomo sarà perfetto in quanto uomo non quando si diletta delle cose sensibili, e sia pure nella sfera più alta di esse, come quella della creazione artistica o della ricerca scientifica, ma quando si volge all’indagine e alla contemplazione delle cose razionali e spirituali, che eccedono la sfera sensibile e che sono fatte di realtà invisibili, perché soprannaturali.

Ecco, dunque, che emerge la condizione anfibia dell’uomo: unico, fra tutti gli esseri viventi, dotato di una natura sia materiale che spirituale, sia visibile che invisibile, sia terrena che soprannaturale. Ma ciò lo pone in una posizione particolare riguardo al proprio fine ultimo e dunque anche alla felicità cui aspira, al pari di tutti gli altri esseri: perché mentre gli altri esseri sono stati dotati dalla natura dei mezzi per giungere al proprio fine e alla felicità, nel caso dell’uomo sembrerebbe che la natura gli abbia assegnato un fine che è, almeno in parte, superiore alle forze di cui dispone, secondo la propria natura, per realizzarlo.

Curiosa contraddizione. L’uomo, fatto per la felicità – e fatto per la felicità più alta, essendo egli la creatura più nobile e alta di tutte quelle della sfera terrena – si direbbe che poi sia destinato a fallire, essendo ordinato ad un fine soprannaturale, mentre egli, legato dal corpo alla condizione terrena, e dunque al declino del suo organismo e alle vicissitudini dello spazio e del tempo, possiede bensì la nostalgia dell’assoluto e dell’eterno, ma non possiede i mezzi per appagarla, perché essi eccedono comunque le forze delle quali si trova a disporre, che sono pur sempre – anche nell’individuo più fortunato, o più favorito dalla sorte – limitate e insufficienti, appunto perché condizionate dalla sfera del contingente e del transitorio, alla quale materialmente appartiene. Sarebbe dunque l’uomo, il più nobile e perfetto degli esseri viventi dotati di un corpo, anche il più infelice di tutti, perché il solo sprovvisto dei mezzi per giungere al proprio fine?

Per rispondere a questa domanda, che ha turbato e gettato nello sconforto e nel pessimismo tanti spiriti nobilmente pensosi, ad esempio Leopardi, bisogna tener presente che Dio, infinita Bontà e Sapienza ed inesausta Provvidenza,  ha disposto ogni cosa, ogni ente, in modo che possano aspirare alla felicità, ciascuno secondo la propria natura. Opinare diversamente equivale a pensare Dio come malvagio, ignorante e indifferente verso le creature, cioè a negare la sua natura, il che è impossibile, perché Dio, per definizione, è Amore, Sapienza e Provvidenza. Se fosse il contrario, non sarebbe dio, ma il diavolo: il che sposterebbe semplicemente il problema, perché l’esistenza del diavolo presuppone, secondo logica, l’esistenza di Dio; senza contare che il diavolo non è né creatore, né governatore del mondo, ma si aggira nel mondo come un ladro e un intruso, una scheggia impazzita della creazione.

La questione è stata ampiamente trattata da san Tommaso d’Aquino (cit. da: La somma teologica, trad. e commento a cura dei Domenicani italiani, testo latino dell’ed. Leonina, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 1984, vol. 8, parte I-II, questione 3, artt. 6 e 8, vol. 1, parte I, questione 12, art. 5, pp. 104; 110; 262):

 

SE LA BEATITUDINE CONSISTA NELL’ESERCIZIO DELLE SCIENZE SPECULATIVE

Rispondo: Abbiamo già detto che la felicità dell’uomo è di due specie: perfetta e imperfetta. Per beatitudine perfetta si deve intendere quella che esaurisce la vera nozione di felicità; la beatitudine imperfetta quella che non la esaurisce, ma solo partecipa un aspetto particolare di essa […].

Per tale motivo la felicità non può consistere essenzialmente nell’esercizio delle scienze speculative. E per averne la dimostrazione si deve considerare che l’esercizio di una scienza speculativa non si estende oltre la virtualità dei suoi principi: poiché una scienza è contenuta tutta virtualmente nei suoi principi. Ma i primi principi delle scienze speculative sono appresi mediante i sensi, come Aristotele dimostra. Dunque l’esercizio delle scienze speculative può estendersi solo entro quei limiti che si possono raggiungere con la conoscenza delle cose sensibili.

Ora, l’ultima beatitudine dell’uomo, che è poi la sua perfezione suprema, non può consistere nella conoscenza delle cose sensibili. Niente infatti può essere perfezionamento da una realtà inferiore, se non in quanto quest’ultima partecipa di una realtà superiore. Ora, è evidente che l’idea della pietra, o di qualsiasi altra cosa sensibile, è inferiore all’uomo. Perciò l’intelletto non acquista perfezione alcuna dall’idea della pietra come tale, ma in quanto in essa c’è una partecipazione di qualche cosa che è al di sopra dell’intelletto umano, e cioè la luce intellettuale, o altre cose del genere. E siccome ciò che è per partecipazione si riporta a ciò che è tale per essenza, è necessario che l’ultima perfezione dell’uomo sia attribuita alla conoscenza di qualche cosa che è al di sopra dell’intelletto umano. Perciò rimane stabilito che l’ultima felicità dell’uomo non può consistere nell’esercizio delle scienze speculative. Tuttavia, allo stesso modo che nelle idee di cose sensibili è partecipata una somiglianza delle sostanze superiori, così nell’esercizio delle scienze speculative si trova una certa partecipazione della vera e perfetta felicità.

SE LA BEATITUDINE UMANA CONSISTA NELLA VISIONE DELL’ESSENZA DIVINA

Rispondo: La felicità ultima e perfetta non può consistere che nella visione dell’essenza divina. Per averne la dimostrazione si impongono due considerazioni. La prima, che l’uomo non è perfettamente felice fino a che gli rimane qualche cosa da desiderare e da cercare. La seconda, che la perfezione di ciascuna potenza è determinata dalla natura del proprio oggetto.

Ora, l’intelletto, come insegna Aristotele, ha per oggetto la quiddità, o essenza delle cose. Perciò la perfezione di un intelletto si misura dal suo modo di conoscere l’essenza di una cosa. Cosicché se un intelletto viene a conoscere l’essenza di un effetto, da cui non è in grado di conoscere l’essenza o quiddità della causa, non si dirà che l’intelletto può raggiungere senz’altro la causa, sebbene possa conoscerne l’esistenza mediante gli effetti. Perciò rimane nell’uomo il desiderio naturale di conoscere la quiddità della causa, quando nel conoscere gli effetti arriva a comprendere che essi hanno una causa. Si tratta di un desiderio dovuto a meraviglia, come dice Aristotele, che stimola la ricerca. Chi, p. es., osserva le eclissi del sole, capisce la loro dipendenza da una causa, la cui natura però gli sfugge, allora si meraviglia, e mosso dalla meraviglia si pone alla ricerca. Ma questa non cessa finché non arrivi a conoscere la natura della causa. Ora, dal momento che l’intelletto umano, conoscendo la natura di un effetto creato, arriva a conoscere solo l’esistenza di Dio; la perfezione conseguita non è tale da raggiungere davvero la causa prima, ma gli rimane ancora il desiderio naturale di indagarne la natura. Quindi non è perfettamente felice. Ma alla perfetta felicità si richiede che l’intelletto raggiunga l’essenza stessa della causa prima. E allora, avrà la sua perfezione nel possesso oggettivo di Dio, nel quale soltanto si trova la felicità dell’uomo, come abbiamo detto.

SE L’INTELLETTO CREATO PER VEDERE L’ESSENZA DI DIO NECESSITI DI UN QUALCHE LUME CREATO

Rispondo: Tutto ciò che viene elevato a qualche cosa che supera la sua natura, ha bisogno d’esservi disposto con una disposizione superiore a questa natura […]. Ora, quando un intelletto creato vede Dio per essenza, la stessa essenza di Dio diventa la forma intelligibile dell’intelletto. Quindi bisogna che gli si aggiunga una disposizione soprannaturale perché possa elevarsi a tanta sublimità. Siccome dunque la potenza naturale dell’intelletto creato è insufficiente a vedere l’essenza di Dio, come si è dimostrato, è necessario che per grazia divina gli venga accresciuta la capacità d’intendere. E questo accrescimento di potenza intellettiva la chiamiamo illuminazione dell’intelletto; come lo stesso intelligibile si chiama lume o luce. E questa è la luce, della quale si dice: «la gloria di Dio l’ha illuminata», cioè la società dei beati contemplatori di Dio. In forza di questa luce i beati diventano deiformi, cioè simili a Dio, secondo il detto della sacra Scrittura: «quando [Dio] si manifesterà, saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è».

 

Con la sua abituale chiarezza e con logica impeccabile, san Tommaso mostra come sia impossibile, dopo aver dimostrato che il fine ultimo dell’uomo eccede le sue facoltà naturali, pensare che Dio, nella sua infinita amorevolezza e provvidenza, non offra alla sua creatura prediletta il mezzo per superare tale difficoltà e metterla in grado di realizzarsi perfettamente, raggiungendo al tempo stesso la felicità: e quel mezzo è la grazia. L’uomo, infatti, potrà essere felice solo quando troverà un oggetto di conoscenza razionale tale da appagare ogni suo desiderio e soddisfare ogni sua aspirazione; il che non accade quando si ferma ad un oggetto meno perfetto, dopo aver goduto del quale risorge in lui un bisogno ulteriore.

Fecisti nos ad Te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te, Domine: «ci hai creati per Te e il nostro cuore è inquieto finché non trova la pace in Te, o Signore», dice sant’Agostino in una delle sue frasi memorabili, che restano scolpite per sempre nella mente del lettore, con scultorea evidenza. Da Dio veniamo, la Causa prima di noi e di tutto ciò che esiste, ed a Lui aspiriamo a ritornare, inconsciamente, fin da bambini, e più tardi, da adulti, in maniera più o meno chiara e consapevole. Infatti anche l’uomo più superficiale e grossolano fa l’esperienza di come tutti i beni terreni, una volta raggiunti, ed ogni umano piacere, una volta soddisfatto, lasciano nell’anima un senso di vuoto, quasi di tristezza, ed un’ulteriore nostalgia, una sorta di presentimento: che esiste Qualcuno nel quale tutti i beni si sommano e non si allontanano più da noi, e tutto il piacere possibile di concentra, beninteso il piacere intellettuale che si addice ad un’anima razionale e non il piacere animalesco che è proprio dell’anima sensitiva.

Questo ha compreso sant’Agostino, tardi nella sua vita, dopo aver inseguito per anni i piaceri terreni e l’amore terreno; e a tale lucida consapevolezza ci accompagna per gradi, con progressione irresistibile, il genio speculativo e dialettico di san Tommaso d’Aquino, capace di sciogliere innanzi a noi i problemi filosofici più ardui come se fossero le cosa più semplici di questo mondo, e persuadendoci con la sua calma, esaustiva capacità di dimostrazione, che non è freddezza, ma trasparenza del pensiero, senza che in noi sussistano residui di dubbio o di perplessità. Forse che Dio potrebbe rimanere sordo ad un  bisogno che prorompe dalla nostra stessa natura, ma che la nostra natura non è, di per sé, in grado di soddisfare, e che poi è il bisogno di Lui, di contemplare Lui, di amare Lui, di gioire di Lui, così come la creatura può gioire del suo Creatore, e cioè in maniera pur sempre imperfetta rispetto alla gioia che prova Dio stesso, contemplando ed amando la propria essenza? Perché la felicità perfetta appartiene a Dio e a Dio solo, in quanto Lui, essere perfetto, può amare e contemplare perfettamente Se stesso, ammirando la propria suprema intelligenza e perfezione. La nostra contemplazione e il nostro amore per Lui sono, in confronto, meno ancora di una pallida ombra. Come scrive Dante nel Paradiso, XXXIII, 124-126: O luce etterna che sola in te sidi, / sola t’intendi, e da te intelletta / e intendente te ami e arridi! Eppure quel pallido riflesso della sua gioia è la massima felicità che possiamo desiderare quale premio a una vita spesa in quel desiderio struggente. La più perfetta, oltre la quale non può essercene un’altra.

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