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Darya Dugina, il buon seme può solo germogliare

darja dugin elisabetta frezza Aug 25, 2022

di Elisabetta Frezza

Il rogo che di notte, sotto il cielo di Mosca, si è portato via Darya Dugina ha legato, indissolubilmente, una figlia a suo padre. Li ha legati oltre il tempo e oltre lo spazio. Padre e figlia saranno d’ora in avanti, nella memoria collettiva, una cosa sola. In vita e in morte di entrambi. E questo è un fatto.

Gli interpreti per caso, o per mestiere, della cronaca di sangue e di fuoco che ha fatto irruzione nella quotidianità estiva di masse per lo più irrimediabilmente stordite – o, in alternativa, assatanate a comando – hanno prospettato in sequenza tutto il ventaglio di possibili ipotesi sul destino del padre: l’obiettivo (mancato) era lui; l’obiettivo era anche lui; l’obiettivo era lei, ma col fine indiretto di disintegrare lui. Giochi di specchi di vita e di morte, in cui qualche miserabile picchiatore di tasti è riuscito a sfoggiare, davvero, il peggio di sé.

C’è il piano fisico della vicenda, che appare tragica in modo quasi archetipico: dei mostri, programmati per annientare pensieri che è proibito pensare annientando fisicamente chi ne sia portatore, uccidono esseri umani con crudeltà sulfurea. E qui, il conflitto che si sta consumando in terra d’Ucraina, e intorno al quale orbitano sciacalli anglofoni e anglofili attratti dall’odore della morte (altrui), pare avere scatenato, senza confini, l’odio coltivato per decenni dentro vivai nutriti di ideologie antiumane come si nutre la prole col latte materno.

Oggi quell’odio radicato nel passato – conservato sottovuoto, alimentato con cura, infine rilasciato nell’aria – ha attecchito in ogni anfratto sociale alla velocità della luce, non trovando più alcuna diga né morale né, prima ancora, cognitiva. Campo libero alla barbarie planetaria, dunque, e siamo di ciò spettatori impietriti.

Ma c’è un altro piano, in cui agiscono altri tentacoli dello stesso mostro spietato. Nella società telematica, gli assassini democratici, oltre alle bombe più o meno umanitarie, hanno armi nuove nel loro arsenale: se c’è un universo dove si uccidono corpi, c’è un metaverso dove si cancellano idee.

Il chiasmo infernale di cui Dugin oggi è vittima illustre investe ambedue i territori: gli hanno ammazzato la figlia, gli vogliono ammazzare il pensiero. In fondo, il primo crimine è strumentale al secondo, che si consuma in modo incruento, ma punta al medesimo scopo.

Infatti su Amazon l’autore Aleksandr Dugin è diventato irreperibile, pur avendo pubblicato innumerevoli libri. L’impero lo ha obliterato dal cyberspazio e dal cybermercato. La sua damnatio memoriae è, in certo senso, una pistola fumante: è la prova provata della priorità che muove la macchina da guerra neoliberista e vetero-totalitaria in marcia frenetica verso la pulizia etnica e la disinfestazione delle idee non conformi e delle anime vive.

Lo strapotere di questo apparato si manifesta nella cosiddetta “cultura della cancellazione”, nata oltreoceano e da lì irradiata nelle colonie, nel cui nome ossimorico si abbattono monumenti, si eliminano pezzi di letteratura e fette di storia, si inghiottono profili, lavori e carriere nella spirale del silenzio. La promuovono i padroni del discorso globale, la praticano con tracotanza beota branchi di poveri gregari con la bocca piena di filastrocche – tolleranza, uguaglianza, inclusione e diritti – e la testa vuota di pensiero.

Questi due piani, quello reale e quello virtuale, non sono affatto separati. Discendono dalla stessa matrice di nichilismo assassino, e si compenetrano l’uno nell’altro. Chi non ha remore a distruggere i libri, la storia e le idee, non avrà remore a compiere stragi e sacrifici sull’altare del nulla. Si aggirano per il mondo, e sono sempre di più, pupazzi fatti di niente, che inseguono il niente, proclamano il niente, impongono il niente.

Pensano di poter cancellare la realtà delle cose, di adulterarla a proprio capriccio (bambini in provetta, droghe sintetiche, cambi di sesso), di resettarla a mezzo imbrogli spettacolari e incantesimi diabolici, allestiti per violentare la natura, la sua logica intrinseca e il suo ordine sacro.

Oggi, a pochi giorni da quel rogo, nei canali di una informazione avvelenata si affollano dietrologie ossessive e cervellotiche dove non ci si può che smarrire; col risultato che, alla fine, nessuno crede più a nessuno. L’unica cosa vera e comprensibile, alla portata di tutti, resta il dramma di una giovane donna ammazzata, di suo padre, e di una madre che soffre in silenzio e in disparte. Un dramma che, per tempi modi e circostanze, assume sulla scena globale la dimensione religiosa della tragedia antica e chiama tutti coloro che non abbiano perduto l’anima verso qualcosa che somiglia a una catarsi.

In questa come in tante altre immagini spaventose, sia vicine sia lontane, che vediamo scorrere ogni giorno nel nostro tempo di apocalisse si può leggere in filigrana un denominatore comune: è in corso sotto i nostri occhi la battaglia dell’uomo contro il nulla e il suo epicentro è l’Europa. Darya, questo, lo aveva capito fino in fondo.

Per l’uomo che voglia combatterla, la cifra di questa battaglia non può che essere il dolore, da assumere su di sé con la consapevolezza del suo profondo significato vitale. Da figli di un Dio che è stato trafitto sul legno della Croce, per salvarci, siamo chiamati a credere di essere fatti per qualcosa di più grande e di più bello: sotto questa luce, anche il sacrificio può essere fertile e può, per contraddizione solo apparente, celebrare la vita.

FONTE : RICOGNIZIONI

 

 

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