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A qual fine deve tendere il volere?

francesco lamendola Oct 11, 2022

di Francesco Lamendola

Aristotele ha mostrato che ciascuna cosa esistente o muove, o è mossa. Ora, muovere è lo stesso che agire: pertanto si può anche dire che ciascuna cosa agisce, o è agita. Le creature viventi agiscono, con un grado crescente di libertà, dalla pianta, all’animale, all’uomo; le cose inerti sono agite da qualcosa di diverso da sé, ad esempio la pietra è levigata dall’acqua, e il legno è modellato dallo scultore. Proseguendo in quest’ordine di ragionamento, possiamo anche dire che se esistere è agire e se gli esseri viventi si distinguono per il fatto di poter agire da se stessi, come la pianta che estrae l’acqua e i sali minerali dalla terra, l’anidride carbonica dall’aria e il calore e la luce dal Sole, per sintetizzarli e produrre sostanza vivente, allora tutto ciò che esiste tende ad un fine, perché l’agire è movimento e il movimento è dirigersi verso un fine; e che il fine dell’uomo, in quanto creatura vivente e razionale, dunque creatura razionale, deve esser per forza quello di dirigersi verso il fine che gli è proprio e che non può essere il medesimo della pianta, dell’animale o, a maggior ragione, delle cose non viventi.

Ora, nell’uomo, di caratteristico, non è solo la ragione, ma anche la volontà, che è lo strumento grazie al quale egli dirige l’azione in un senso specificamente razionale, come è proprio della sua natura di uomo. Si potrebbe obiettare che anche gli animali superiori sono dotati di volontà, ma a ben guardare si tratta piuttosto di un istinto: la volontà, infatti, indica non solo la facoltà che consente di tradurre in azione ciò che si brama, ma anche, e soprattutto, la facoltà di discernere fra gli oggetti desiderabili quelli che si addicono all’uomo, secondo ragione. Ecco perché si dice, di un uomo che si lascia trascinare dagli istinti più bassi, che si è abbrutito: infatti si è reso simile ai bruti, disprezzando ciò che è specificamente umano, la signoria della ragione sopra gli appetiti e la capacità di discernere quelli che gli competono, in quanto essere ragionevole, e quelli che invece si addicono alla sola sfera istintiva, come negli animali.

Pertanto l’uomo è quell’essere razionale, dotato di volontà, che non appetisce indistintamente qualunque bene, ma che desidera sopra tutto il bene che è proprio della sua natura, vale a dire il bene della felicità ragionevole. Ogni essere è felice quando consegue il bene che appetisce, ed è sommamente felice quando consegue stabilmente quel bene che è al di sopra di ogni altro quanto alla sua specifica natura. E poiché non c’è nulla che stia al di sopra del riconoscere il vero, poiché la ragione è lo strumento atto a tale scopo, se ne deve concludere che la massima felicità e il sommo bene, per l’uomo, è quello di trovare la verità, separandola da tante altre cose che hanno bensì una certa quale apparenza di vero, ma che non sono, in realtà, il vero, o non lo sono interamente, ma sono una mescolanza di vero e di falso, e perciò di bene e di male. Tale è il fine dell’uomo: agire, cioè muoversi liberamente e autonomamente, cioè non costretto da altri, né piegato alla volontà altrui, nella sfera della ragione, cercando e trovando la verità, il cui godimento lo rende  propriamente  felice.

Certo un uomo può essere felice in altra maniera, ad esempio diguazzando nel fango e nutrendosi di ghiande, come un maiale: ma in tal caso non si tratta d’un godimento realmente umano, bensì della degradazione a uno statuto ontologico inferiore. Per essere veramente e perfettamente felice, ogni essere deve godere, nel massimo grado, di quel bene che è specifico della sua natura e non di un bene qualunque, o di un qualcosa che abbia una certa apparenza di bene. Per il diabetico, assumere una quantità di cibi ipercalorici potrà essere un piacere, ma non è il bene, anzi è il male. Viceversa, per il malato che vuol guarire, assumere la medicina amara è senza dubbio un atto sgradevole, ma egli lo compie volentieri, sapendo, grazie alla sua razionalità, che gli fa bene e lo avvicina al bene della salute. La capacità di rifiutare un falso bene in vista del vero bene, così come quella di sottomettersi a un male apparente e transitorio in vista di uno reale e definitivo, è propria dell’essere umano e non dell’animale irragionevole, che si fa guidare unicamente dall’istinto.

A questo proposito scriveva un grande filosofo tomista, il gesuita Luigi Taparelli D’Azeglio (Torino, 1793-Roma, 1862), nel suo Saggio teoretico di diritto naturale, Napoli, La Civiltà Cattolica, 1850, vol. 1, pp. 4-12; ci siamo permessi qualche lieve modifica ortografica su parole decisamente obsolete):

Or il bene che cosa è? Già osservammo che dicesi volgarmente BENE ciò che forma il naturale appagamento di una facoltà, di una tendenza qualunque: e perciò quante sono le tendenze, le inclinazioni di un essere, tanti sono i beni dei quali egli è capace. Sotto questo generalissimo aspetto si comprendere in che senso si debba intendere la distinzione dei beni VERI dai FALSI di cui nel linguaggio familiare occorre menzione sì frequente; siccome possono le varie inclinazioni di un essere venir a contrasto, e indurlo ad oggetti diversi e contrari, è chiaro che se uno di essi sarà VERO bene, l’opposto sarà bene FALSO; giacché falso diciamo l’opposto del vero.

Ma qual è il principio per cui il vero dal falso bene si distingue? Se ogni essere fosse semplicissimo e perciò dalla natura dotato soltanto di una tendenza, è chiaro che non potrebbe non correre al bene propostogli dalla natura, e però tenderebbe sempre al vero suo bene; ma nella molteplicità di tendenze varie, di cui molti esseri sono naturalmente dotati, quale di queste tendenze deve dirsi buona? Cioè inclinata al vero BENE? (…)

Natura è dunque quel principio di tendenza che porta un essere allo scopo pel quale è fatto dal suo Creatore. Ma a questo scopo debbono tutti gli altri subordinarsi; dunque tutte le tendenze a questa prima radicale tendenza di ogni essere. (…)

Un agente che opera in conformità di questo fine acquista la propria naturale perfezione, perché la perfezione essendo il compimento di un essere, allora un essere sarà NATURALMENTE PERFETTO quando si condurrà al termine prefissogli dalla natura medesima; perfetto nell’ESSERE, quando potrà muovere verso quel termine; perfetto nel TENDERE; quando verso esso  senza svario si muove; perfetto nel TERMINE, ossia compiutamente perfetto, quando finalmente vi sarà giunto.

Ma si noti che nell’ordinamento dell’universo se vari sono i fini delle particolari creature, uno è per altro il fine di tutto l’immenso lavoro; e per questo appunto l’universo apparisce sì ordinato, perché dispone l’immensa varietà delle create cose secondo un principio di unità a cui tutto subordina Altra è dunque la perfezione della creatura considerata in sé, altra se si consideri nel tutto dell’universo, giacché ogni creatura forma un tutto da sé, e forma parte di altri tutti secondari subordinati in varie gradazioni al tutto primario, a quell’Essere infinito che è l’essere di ogni essere, e a cui tutte le creature si riferiscono. (…)

Queste nozioni ci danno qualche idea del vero bene. Esse dimostrano che il vero bene di ogni essere è non già qualunque oggetto a cui tenda una qualche sua facoltà isolata, ma quello a cui tende la sua natura; e che dal giungere a tale oggetto dipende la perfezione di lui soggettiva. Che per conseguenza nella idea di bene è essenzialmente inclusa la idea di fine o termine di una qualche tendenza. Ma siccome vari possono essere i termini a cui si tende, così varie possono essere le specie di bene. (…)

In ogni facoltà dunque altro è il termine medio, altro il termine finale, altro il termine di riposo che ne consegue. Tutti sono termini di essa facoltà in qualche modo, e perciò tutti in qualche modo sono BENI; ma il termine intermedio non è bene se non perché conduce al finale, e dicesi UTILE; il finale è quel bene che conviene e che fu inteso dal Creatore per l’ordine dell’universo, e dicesi BENE CONVENEVOLE od ONESTO; il riposo che nasce dal possedimento di un obiettivo proporzionato alla facoltà, dicesi DILETTO, PIACERE.

Quindi apparisce che il vero bene, il bene cioè inteso dal Creatore è il bene di ordine, il bene CONVENEVOLE: così il bene individuale della pecorella è la sua conservazione, gli atti che vi contribuiscono sono mezzi, il diletto che vi si accoppia è una conseguenza. (…)

Ogni ESSERE È UNO, e perciò UNA ogni natura; il fine di ogni natura ne forma la perfezione, la perfezione di natura UNA è necessariamente UNA; quando la natura tende a vari oggetti materialmente distinti, li riguarda sotto questo solo aspetto di complemento o perfezione sua; dunque elle tende ad un solo oggetto.

E questo ci fa comprendere come tendendo gli uomini tutti ad un solo fine, pure tanto disputino sulla felicità. Non si disputa già se debba tendersi alla felicità ma ammesso questo come principio, si domanda ove ella si trova: si cerca l’oggetto MATERIALE non il PROPRIO. Questo anzi è per tutti evidente e serve di primo principio ad ogni morale disputazione, che sempre può ridursi a questo primo assioma pratico: «Io bramo esser felice».

Perciò, riassumendo: il vero bene di un essere è quello cui è stato destinato dal Creatore, e che gli viene indicato dalla sua stessa natura; ed esso coincide con il bene conveniente in se stesso, mentre l’utile è il mezzo per raggiungerlo, e il piacere è l’effetto che ne consegue. Chi anteponga l’utile al bene, o il piacere sia all’utile che al bene, inverte l’ordine delle cose e reca un torto alla propria stessa natura.

Ci sia concesso chiarire ulteriormente quest’ultimo concetto traendo un esempio dalle pazze cronache di questa pazza modernità, nella quale ci troviamo a vivere. Qualche tempo fa una famosa, giovane e avvenente attrice americana decise di farsi asportare le mammelle per prevenire il rischio di sviluppare un tumore al seno, male di cui aveva sofferto sua madre; i mezzi d’informazione ne diedero l’annuncio; nessuna voce autorevole di medico si levò contro una decisione così irragionevole, per la sproporzione evidente fra il supposto beneficio e il danno certissimo. Risultato: molte giovani ragazze vogliono imitare la loro eroina, e molti genitori danarosi e scriteriati, incredibile ma vero, ritengono di dare prova alle loro figlie di amore paterno e materno offrendo loro il ricovero in clinica per sottoporsi a quel tipo d’intervento. Questo è un buon esempio di come l’essere umano, se non sa fare un retto uso della ragione e della volontà, scambia un male sicuro per un bene ipotetico (a dir poco), in altre parole antepone ciò che gli sembra utile a ciò che è bene. È bene, per l’essere umano, rispettare il proprio corpo e conservare intatti i propri organi, muscoli e tessuti: dunque, per una donna, custodire i seni che la natura le ha dato e non sacrificarli per una paura cieca e irragionevole; così come è bene per un medico, in questo caso un chirurgo, consigliare il paziente secondo scienza e coscienza e non prestarsi a fare qualunque tipo d’intervento, come farebbe un qualsiasi macellaio prezzolato, poiché ciò si addice a un mercenario senza scienza né coscienza e non a un medico.

Per la stessa ragione, un essere umano non deve porre il piacere come fine supremo della sua vita. Il piacere è la conseguenza, o l’effetto, del vero bene, ma non lo sostituisce. L’uomo cerca il vero per essere felice, e lo è quando giunge alla disinteressata contemplazione di esso, come è mirabilmente descritto da Dante nell’ultimo canto della Divina Commedia. Se l’uomo cercasse il piacere come oggetto della felicità, invertirebbe il giusto rapporto gerarchico che deve esistere fra il vero, che è il fine, e il piacere che ne deriva; o, peggio ancora, lo disprezzerebbe del tutto. Abbandonarsi in maniera animalesca alla ricerca dei piaceri carnali significa smarrire completamente l’orientamento verso il bene, facendo consistere quest’ultimo in un piacere che è degradante per la natura dell’uomo e che non lo può rendere felice, perché non gli permette di portare alla perfezione, cioè al grado più alto, le qualità proprie della sua natura. Fatti non foste a viver come bruti, dice ancora Dante, ma per seguir virtute e conoscenza. E il suo Ulisse non esita a farsi legare all’albero maestro della nave, sapendo che è praticamente impossibile resistere al richiamo del piacere con la sola forza della ragione e della volontà.

E qui si apre un capitolo nuovo, che la filosofia di Aristotele, date le sue premesse immanentiste, non sospetta neppure che esista, ma che è stato trattato meravigliosamente dal genio di san Paolo, di sant’Agostino e sopra ogni altro da san Tommaso d’Aquino. L’uomo può forse arrivare a vedere quasi perfettamente il bene, ma non è capace di tradurlo in azione. Non basta la verità per essere virtuosi: questo è stato il grande abbaglio di Socrate. Ci vuole qualcos’altro, qualcosa che la natura umana non possiede: la grazia. Ma l’uomo, che è dotato di ragione e volontà, può arrivare a capirlo e quindi a chiederla fiduciosamente a Colui che gliela può dare. Senza la grazia, la ragione umana è simile a una macchina meravigliosa, ma inerte; solo con la grazia si vivifica, si umanizza, e sa conseguire quel bene che ha visto ma che rimane lontano. Come dice san Paolo (Romani 7,15): Non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non faccio quello che voglio, ma quello che detesto.

 

 

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