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C’è scienza non amore nel dio matematico di Galilei

francesco lamendola Oct 01, 2022

di Francesco Lamendola

Nel corso del tempo la cultura laicista e anticattolica ha gonfiato la figura storica di Galileo Galilei allo scopo di fare di lui non solo il padre nobile della scienza moderna, ma anche l’archetipo del sapiente perseguitato in maniera irragionevole da una Chiesa cattolica oscurantista, ignorante e sorpassata. Ma è proprio così? Galilei è stato davvero il fondatore della scienza moderna? E le ragioni del suo processo sono state davvero di tipo teologico?

Osserva in proposito, con molto equilibrio, Pietro Emanuele (da: P: Emanuele, Nel meraviglioso mondo della filosofia, Piemme, 1995, pp. 111-114):

È degno di nota che la Chiesa abbia condannato Galilei per la sua astronomia eterodossa, ma non abbia preso posizione di fronte alla sua teoria, indubbiamente insolita, per cui Dio prima ancora di essere amore è anzitutto un supremo calcolatore. Se si accetta la sua posizione Dio finisce con l’essere un Demiurgo che deve la sua potenza soprattutto alla propria eccellenza matematica. A differenza infatti del Demiurgo platonico del “Timeo”, non è suddito di altre potenze ma il suo imperio è di carattere decisamene intellettuale.

Questa posizione, mentre intellettualizza Dio, rischia insieme di divinizzare l’uomo. Per Galilei infatti l’uomo è in grado di calcolare e di giungere a possedere certezze assolute. Esse sono di natura matematica, e chi le possiede, si trova, per lui, ad avere una sicurezza intellettuale non diversa da quella posseduta da Dio. Galilei ne deduce che la mente umana sia opera di Dio.

Ma questa deduzione può scaturire solo da una filosofia di tipo galileiano. Non è che Galilei abbia fissato prima l’idea di un Dio matematico e poi ne abbia ricavato la medesimezza sostanziale tra la mente umana e quella divina, ma succede l’inverso. Galilei privilegia la matematica perché è convinto che la lingua in cui è scritta la natura sia una lingua matematica e che ciò induca a postulare che anche il suo creatore non possa che avere una mene matematica. Il suo punto di partenza non è quindi teologico, ma naturalistico. Come scrive Cassirer, «l’accordo generale tra matematica e natura è per lui una convinzione soggettiva, anteriore a ogni riflessione filosofica».

Per questo Galilei non è un teologo, per quanto teorizzi la struttura della mente divina. È solo dopo aver scoperto che i caratteri della natura sono «triangoli, cerchi e altre figure geometriche» che egli viene a sostenere una corrispondenza necessaria, benché non dimostrabile, fra le strutture della mente umana, quelle matematiche della realtà e quelle della mente divina. Ciò non toglie che egli possa anche parlare non più da filosofo ma da uomo di fede quando afferma che la mente umana è opera di Dio, tuttavia anche le due esternazioni dalla prospettiva del credente sono pervase dallo stupore per il potere scientifico dell’uomo:«Quando io vo considerando quante e quanto meravigliose hanno intese, investigate ed operate gli uomini, pur chiaramente conosco io ed intendo esser la mente umana opera di Dio, e delle più eccellenti» (“Dialogo sopra i due massimi sistemi”, in “Opere”, ed. naz. Firenze, 1890-1909, VII, 130).

Indubbiamente asserzioni del genere sono più tipiche del filosofo che dello scienziato. Manca infatti la cautela scientifica che dovrebbe sempre aver presente la provvisorietà delle conquiste della scienza. Tuttavia i suoi erano tempi di grandi conquiste, ed è comprensibile che Galilei non dubitasse che i caratteri matematici del libro della natura fossero immutabili. Di qui la sua opzione di considerarsi un “filosofo geometra”.

Quanto all’eventuale accusa di irriverenza che poteva rivolgersi a questa divinizzazione del pensiero matematico dell’uomo, Galilei pensava di ovviarvi con la sua dentizione fra “conoscenza intensiva” e “conoscenza estensiva”. È solo da un punto di vista intensivo, cioè della qualità della conoscenza, che l’uomo conosce come Dio, cioè con certezza assoluta. Invece dal punto di vista dell’estensività la conoscenza umana è sempre progressiva e incompleta; a differenza dell’onniscienza divina. Dove originalità di Galilei concerne la conoscenza intensiva, poiché egli non esita qui a sottoscrivere quell’imperialismo del pensiero che giunge a omogeneizzare la mente divina a quella dell’uomo.«di quelle poche cose intese dall’intelletto umano credo che cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprendere la necessità» (cit., p. 129).

L’entusiasmo di Galilei per la ma tematizzazione dell’universo non deriva soltanto dal carattere di certezza della matematica, ma anche dalla soddisfazione che offre allo specialista di possedere formule ignote al profano in grado di svelar importanti segreti della realtà. è come se il matematico possedesse la combinazione della cassaforte della natura. Finché procede matematicamente il filosofo possiede la stessa certezza della divinità. In questo senso Einstein diceva che «Dio non gioca a dadi». In quanto la sua conoscenza non è mai aleatoria. Altrettanto vale per l’uomo, e se può incorrere in errore, si tratta solo di un errore di calcolo.

Avanzare l’idea che i numeri siano la chiave di tutto, la spiegazione di ogni angolo della natura, trasferisce implicitamente la ma tematizzazione sul terreno del gioco. Questo può accrescere il senso di soddisfazione che anima il matematico, può però provocargli le reazioni negative di chi non accetti l’idea che il filosofo possa conoscere praticando un gioco. Galilei è andato incontro a due critiche di questo genere. La prima è di padre Mersenne, il quale pur concedeva che la matematizzazione galileiana fosse un gioco bellissimo di «corrispondenze e di combinazioni atto a deliziare le menti più eccellenti, ma ammoniva che i dogmi della fede dovevano rimanere estranei ad esso.»

Una seconda critica è invece provenuta non da preoccupazioni teologiche ma scientifiche. È quella di Husserl nella “Krisis”: per il tipo di scientificità auspicato da Husserl la matematica ha valore soltanto se è legata alle cose. Averla trasformata in una logica formale simile a un mero gioco ha portato Galilei a una concezione superficiale della funzione della scienza, la quale in lui «procede in un modo che non è sostanzialmente diverso da quello del gioco delle carte o degli scacchi».

Ma come, dirà qualcuno, preoccupazioni scientifiche? Ma se Galilei è il fondatore della scienza moderna! Così, almeno, ci è stato insegnato sui banchi di scuola di ogni ordine e grado, e ripetuto fin nelle aule universitarie. E su che cosa si basa l’asserzione che Galilei è il padre della scienza moderna? Se lo si domanda a qualsiasi studente, questi prontamente risponderà: perché è stato il fondatore del metodo sperimentale! Dunque, prima di Galilei, gli scienziati non facevano esperimenti? Aristotele non faceva esperimenti? Ma lasciando da parte tale questione, siamo proprio sicuri che Galilei fondasse il suo lavoro di scienziato sul metodo sperimentale, da lui stesso teorizzato? Purtroppo le cose non stanno così: la sua straordinaria arroganza e disinvoltura lo esimevano dal fare ciò che affermava essere indispensabile per qualunque serio lavoro scientifico. La venerazione incondizionata dei posteri ha fatto il resto.

Scrive Federico Di Trocchio, Le bugie della scienza. Perché e come gli scienziati imbrogliano, Milano, Mondadori, 1993, pp. 12-20):

Quegli esperimenti fondamentali con i quali Galileo chiuse la bocca agli scienziati aristotelici, e che a scuola ci hanno indicato come le più  perfette esemplificazioni del metodo sperimentale, non sono mai stati fatti. Come se non bastasse, con un'arroganza paragonabile  a quella di chi lo voleva tacitare a suon di processi,  Galileo sosteneva che non era neppure importante farli veramente.  Uno degli esperimenti che lo stesso Galilei ammette esplicitamente di non aver fatto è quello della nave, che sta a fondamento del cosiddetto principio di relatività galileiana secondo il quale i fenomeni fisici avvengono nello stesso modo sia che si svolgano sulla terraferma che su una nave in movimento, a condizione che la nave si muova di moto rettilineo uniforme. [...] Ora Galilei di fatto non aveva mai realizzato  quell'esperimento, ma quel che è peggio ribatte con arroganza  al suo interlocutore [Simplicio, nel "Dialogo sopra i due massimi sistemi"] che non se ne mostrava convinto: "Io senza esperienza son sicuro  che l'effetto seguirà come vi dico perché così è necessario che segua".  Come dire: "È inutile fare l'esperimento, se ve lo dico io dovete credermi". E' evidente che questo modo di procedere non corrisponde affatto all'idea di metodo sperimentale  che ci è stata insegnata fin dal liceo né tanto meno all'ideale di correttezza etica e metodologica dello scienziato. [...]

Ma questo della nave non è né l'unico né il più importante  degli esperimenti che Galilei non fece. Il più noto è quello del lancio delle sfere dall'alto della torre di Pisa e il più importante è quello del piano inclinato. Il primo, quello della torre, doveva confutare la teoria di Aristotele secondo la quale gli oggetti cadono con una velocità che è proporzionale al loro peso: Aristotele pensava insomma che due mattoni legati insieme cadono con una velocità doppia di un solo mattone. Secondo il racconto del suo allievo Vincenzo Viviani, Galileo, volendo dimostrare che non era affatto così, salì sulla torre di Pisa” con l’intervento degli altri lettori e filosofi e di tutta la scolaresca” e “con replicate esperienze” dimostrò  che “la velocità dei mobili dell’istessa materia, disugualmente gravi, movendosi per un istesso mezzo, non conservano altrimenti la proporzione della gravità loro, assegnatagli da Aristotele, anzi che muovon tutti con pari velocità”. I due mattoni  legati insieme insomma arrivano a terra esattamente nello stesso istante in cui ci arriva il mattone solo. Nel 1935 L. Cooper scrisse un libro intitolato “Aristotle, Galileo, and the tower of Pisa” nel quale sosteneva che non esiste alcun’altra traccia o documento che testimoni che quest’esperienza sia stata effettivamente fatta  e gli studiosi di storia della scienza sono inclini a ritenere che in realtà sia solo un’invenzione. [….]. Negli anni Sessanta George Gamow, uno dei padri della fisica contemporanea,  continuava  a sostenere che “per provare  la veridicità delle sue conclusioni, Galileo fece cadere  dalla torre pendente di Pisa due sfere, una di legno e una di ferro, e gli increduli spettatori presenti si poterono  convincere che esse toccavano il suolo nello stesso istante. Le ricerche storiche tendono ad escludere che questa dimostrazione pubblica abbia mai avuto luogo e affermano che essa rappresenta solo una fantasiosa leggenda; e non è nemmeno certo che Galileo abbia scoperto a legge del pendolo  mentre assisteva alla messa nel duomo di Pisa. Ma, in un modo o nell’altro, egli certamente eseguì queste esperienze, o facendo cadere oggetti di peso diverso dal tetto di casa sua o facendo oscillare, magari nel suo cortile, una pietra appesa a una corda.” Gamow insomma sosteneva che prima o dopo, in un modo o nell’altro, Galileo deve aver fatto per forza quell’esperimento. Egli però non tiene minimamente conto del fatto che, anche se così fosse stato, il risultato sarebbe stato diverso  da quello riferito nella leggenda. Nel 1978 infatti due studiosi, C. G. Adler e B. Coulter, si sono presi la briga di rifare l’esperimento e hanno scoperto  che le due palle arrivano a terra con uno scarto di tempo non tanto ampio  da soddisfare la teoria aristotelica ma abbastanza per confutare  l’idea di Galileo della contemporaneità. Essi sostenevano anche che, in quelle condizioni sperimentali,  sarebbe stato possibile per gli aristotelici modificare la teoria  in modo da includere la spiegazione di quel risultato. Ben più compromettente è la vicenda del famoso esperimento con il piano inclinato, sulla base del quale Galileo formulò la legge del moto uniformemente accelerato s = ½ at 2 , la quale afferma che nel moto uniformemente accelerato gli spazi percorsi sono proporzionali ai quadrati dei tempi impiegati a percorrerli. […] Peccato che l’esperimento che Galileo sostiene di aver fatto “ben cento volte” non sia stato fatto nemmeno una volta e che le precise misurazioni  fossero frutto della sua immaginazione. Un contemporaneo e corrispondente di Galilei, il padre Marino Mersenne, tentò infatti di ripetere l’esperimento e scoprì che in quelle condizioni era impossibile ottenere i risultati numerici riferiti da Galileo. I casi erano dunque due: o Galilei non aveva mai compiuto l’esperimento oppure non aveva riferito con esattezza i risultati trovati. Naylor ha concluso che, come già suggeriva Koyré, Galileo nella maggior parte dei casi non seguiva affatto il metodo sperimentale  del quale venne ritenuto il padre e che in particolare usava gli esperimenti non tanto per arrivare a individuare  le leggi fisiche, quanto piuttosto per confermarle a posteriori, al che aggiungeva talora anche una ulteriore trasgressione allo sperimentalismo quando costringeva i dati numerici ottenuti in esperimenti veri o supposti ad adattarsi per forza alla legge che aveva in mente.  Come ha sostenuto William R. Shea: “Questa è un’accusa molto seria perché presuppone che Galileo era non solo poco sincero nel proporre un metodo che poteva non conseguire i risultati aspettati, ma decisamente fraudolento nel sostenere di essere riuscito a produrre delle prove che erano al di fuori della sua portata. Se ci si chiede da che cosa nascessero queste mistificazioni di Galilei si scopre che esse non erano dovute soltanto a quella disinvoltura morale che gli ha rimproverato Paul Feyerabend ma anche alla necessità di sopperire in qualche modo alla mancanza  di strumenti di misurazione e apparati sperimentali affidabili. Strumenti e apparati indispensabili per passare, secondo una felice espressione di Koyré, «dal mondo del pressappoco all’universo della precisione».

Perciò, delle due l’una: o Galilei è il padre della scienza moderna per qualche altra ragione; oppure si può dire, al massimo, che egli ha teorizzato la bontà del metodo sperimentale, astenendosi, quanto a sé, dal metterlo in pratica, perché era talmente sicuro di avere la verità in tasca da non ritenere necessaria sottoporsi allo stesso metodo che prescriveva agli altri. In entrambi i casi, la figura di Galilei esce alquanto ridimensionata dall’alone di leggenda che hanno voluto cucirgli addosso: e resta un uomo dalla mentalità così poco scientifica, da formulare le leggi fisiche senza bisogno di fare gli esperimenti. Salvo dire a tutti, mentendo, che gli esperimenti li aveva fatti, e che  avevano pienamente confermato la sua teoria.

Questo era l’uomo che oltre a voler essere il padre della “scienza nuova” volle anche insegnare ai teologi come si deve pensare Dio; che Dio è un grande matematico, perché la natura è scritta in caratteri matematici; e che siccome l’uomo può comprendere la natura per mezzo di strumenti matematici, allora, per analogia, anche la mente di Dio deve funzionare come quella dell’uomo. Da ciò la sua rocciosa sicurezza che una verità matematica è tale per l’uomo quanto lo è per Dio: e che se pure Dio le conosce tutte, nondimeno l’uomo, entro l’ambito del finito, può conoscere le cose con il suo stesso grado di assoluta certezza. Cioè che non vi è una differenza qualitativa (lui dice intensiva) fra l’uomo e Dio, ma solo quantitativa (o estensiva), perché Dio sa tutto, mentre l’uomo sa solo qualche cosa. Ciò ha tre grosse implicazioni di natura non scientifica, ma teologica: che noi sappiamo come “funziona” la mente di Dio, perché nel grande meccanismo della natura tutto risponde a leggi predeterminate, e perciò risalendo dalle leggi alla loro origine (Aristotele diceva la causa prima) si evince che Dio è il primo a doversi sottomettere ad esse; che Dio e uomo sono della stessa sostanza intellettuale; che Dio si manifesta essenzialmente come ragione, e più precisamente come ragione strumentale e calcolante. Che posto ha in questo quadro l’amore di Dio? Che posto hanno la creazione, l’Incarnazione del Verbo, la Passione, la Morte e Resurrezione di Gesù Cristo? Nessuno, assolutamente. E Maria Vergine, nel cui seno il Figlio si è incarnato? E gli Angeli, e i Santi? Assolutamente nessuno.

A ben guardare, si potrebbe dire che l’Inquisizione, - ragionando, sia chiaro, dal suo punto di vista – fece a Galilei il processo sbagliato. Lo giudicò e lo condannò per la sua teoria scientifica – non sua, in effetti, ma di Copernico – perché egli la volle affermare senza averne le prove. Proprio lui, il preteso padre della scienza sperimentale, voleva che il sistema copernicano fosse creduto per fede: la sola e unica prova da lui addotta, il flusso delle maree, era solennemente sbagliata. Oltretutto, il modello copernicano e galileiano del cosmo era sbagliato anch’esso, sia perché concepiva le orbite dei pianeti come delle circonferenze, e non come delle ellissi, sia soprattutto perché non sospettava minimamente che il Sole non se ne sta immobile al centro dell’universo, ma si muove anch’esso, insieme al suo sistema, intorno al centro della Galassia, alla bella velocità di 220 chilometri al secondo. Tuttavia, che uno scienziato voglia esser creduto allorché propone una teoria radicalmente rivoluzionaria, ma non ha le prove per sostenerla, dovrebbe essere una faccenda che riguarda la comunità scientifica e non la Chiesa cattolica.

Ciò che riguarda la Chiesa cattolica è la teologia. E se qualcuno, magari uno scienziato di gran nome, che “spende” la sua autorevolezza scientifica in un ambito che non è il suo, ma dei teologi (si veda la famosa lettera a don Benedetto Castelli e si tenga presente che queste lettere galileiane non erano una mera corrispondenza privata, ma venivano fatte circolare ampiamente) pretende di sapere come pensa la mente di Dio e definisce la natura divina in base a tale pretesa, decisamente la cosa dovrebbe riguardarla. Non stiamo dicendo, naturalmente che sarebbe stato giusto che la Chiesa processasse Galilei per le sue idee teologiche piuttosto che per quelle scientifiche, ma che sarebbe stato logico. Sbagliando bersaglio, si è attirata la fama (immeritata) di nemica giurata della scienza.

 

 

 

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