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Che ne è degli enti e degli eventi, dopo?

francesco lamendola Sep 03, 2022

di Francesco Lamendola

Il mondo è pieno di enti: enti reali, quelli che hanno esistenza concreta e oggettiva (le cose, le piante, gli animali); enti logici, quelli che hanno esistenza mentale e soggettiva (i numeri e le figure geometriche); enti necessari, i quali devono esistere per forza di cose (le parole in un discorso, il calore del fuoco) ed enti accidentali (la neve in un certo giorno di marzo, il sale sulla pietanza); enti visibili ed enti invisibili (il corpo e l’anima); enti in atto (un certo uomo) ed enti possibili (il fratello o la sorella di costui); enti allo stato di materia e allo stato di forma (la pietra che poi diventa statua); eccetera.

Personalmente, ci ha sempre stupito la scarsa attenzione rivolta da quasi tutte le filosofie ad una questione che per noi, invece, rivesta una notevole importanza: il destino finale degli enti e, più ancora, delle situazioni che li hanno visti in atto, sia come soggetti agenti, sia come osservatori o, se si preferisce, come testimoni della loro attualità, dopo che quest’ultima è trascorsa. Per esempio, noi ora vediamo una bimba in un prato che sta cogliendo un fiore: è una bella immagine, e ci rimane impressa nella memoria: tuttavia, a parte la memoria, che è un’operazione mentale generalmente volontaria e quanto mai soggettiva, e della quale siamo padroni solo parzialmente (perché di molte cose perdiamo alla fine il ricordo, anche se non lo vorremmo: ed è naturale che sia così, altrimenti la nostra mente sarebbe ingombra d’una quantità innumerevole di oggetti passati, al punto da non potersi concentrare sul presente), che ne è di quella scena, di quell’evento, e di quegli enti che ne sono stati i protagonisti? Che ne è di quella bambina, di quel fiore, di quel prato, di quel paesaggio, di quel cielo azzurro, di quel particolare giorno di primavera, a distanza di tempo, poco o tanto che sia trascorso? Che ne è un minuto dopo, quando già il quadro è del tutto mutato, e magari lo abbiano “fermato” per mezzo di una fotografia, oppure un pittore lo ha sottratto allo scorrere del tempo, per sempre; che ne è dieci, cinquanta, cento, mille anni dopo, quando non ci sono più né gli enti dell’evento, né qualcuno in grado di ricordarlo? Sparisce tutto nel nulla, come in una grande voragine oscura che ingoia ogni cosa e non la restituisce mai più? Eppure, in un momento come quello, vi è come una promessa sottintesa: tutto ciò che è bellezza, armonia, calore, luce, felicità, reca implicitamente la promessa che non è destinato a scomparire, bensì a sottrarsi al destino delle cose mutevoli e transitorie.

Non si sa chi ce l’abbia fatta, ma è così. Noi sentiamo, con tutto il nostro essere, che sarebbe ingiusto il contrario; che sarebbe una beffa e un’ironia; che non ci siano ingannati allorché abbiamo pensato: Questo momento è così bello che dovrebbe durare per sempre! Chi non ha mai provato una simile emozione, né percepito una simile certezza, non può capire quel che stiamo dicendo; eppure ci sembra impossibile che anche un solo essere umano non l’abbia mai provata. Tutti, crediamo, hanno provato almeno una volta nella vita, ma probabilmente più di una, la sensazione di vivere o essere testimoni d’un evento così raro e prezioso, così toccante e sublime, da portarlo poi nel cuore per sempre, sino all’ultimo giorno. Una volta chiesero a Napoleone Bonaparte quale fosse stato il giorno più bello della sua vita: e quell’audace statista, quel geniale condottiero, non indicò il giorno della sua più grande vittoria, per esempio la battaglia di Austerlitz, né quello in cui si pose sul capo, da se stesso, la corona d’imperatore dei Francesi, ma ripose: il giorno della mia prima comunione. Crediamo che questa risposta possa valere anche per molti di noi: l’incanto di quell’evento è legato ad un’intensa esperienza spirituale, accompagnata, se non andiamo errati, da un profondo, irripetibile (e infatti non si è più presentato alla coscienza) senso d’innocenza e di pulizia, come se il mondo fosse appena uscito da un bagno rigenerante, che lo aveva trasfigurato facendolo apparire più bello, più nuovo, più fresco e tutto vibrante d’aspettazione. Come, appunto, una grande promessa. Una promessa di cosa? Una promessa di felicità; non solo: una promessa d’eternità, di una felicità destinata a essere per sempre.

Ora, la promessa è tale quando c’è qualcuno che promette, ma anche quando c’è qualcuno che riceve la promessa: desiderare, quindi, è importante non meno che mettere a disposizione qualcosa. E il desiderio ha a che fare con la conoscenza: per san Tommaso d’Aquino, è una condizione necessaria per il passaggio dall’intelletto agente all’intelletto possibile, ossia dalla potenza all’atto del conoscere. Ora, se questo è vero per la conoscenza dell’intelligibile, che parte dal dato sensibile e lo rielabora secondo categorie universali e necessarie, perché universale e necessario è l’intelligibile, e in questo appunto si differenzia la conoscenza razionale dalla semplice percezione del dato sensibile, perché non dovrebbe esserlo per la struttura stessa degli enti e per la realtà stessa degli eventi? Potremmo dire con altro linguaggio, più moderno se si vuole, per esempio prendendo a prestito un’immagine di Pascal: non si conosce solo per via strettamente razionale (l’esprit de géometrie) ma anche col desiderio (esprit de finesse), perché il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non arriva a conoscere e a spiegare sino in fondo. Dunque se il fatto di desiderare è così importante per il conoscere, perché non dovrebbe essere altrettanto importante per l’essere? Dopotutto, conoscere è conoscere l’ente (l’albero, la casa), sia l’ente in atto, sia l’ente mentale (il triangolo, il cavallo alato: ente logico il primo, ente fantastico il secondo, ma entrambi costruiti dalla mente partendo dai dati sensibili conosciuti, perché nisi est in intellectu quod prius non fuerit in sensu).

Ma allora, se noi conosciamo il reale grazie all’intelletto e alla volontà, che è la forma del desiderio, come escludere che le cose conosciute sopravvivano alla situazione contingente che le ha prodotte? Ci sembra, al contrario, che ciò sia molto probabile. La conoscenza è conoscenza del reale, sempre: e l’evento passato è reale, anche se appartiene al passato, perché nel momento in cui accadeva, era attuale. Ma l’ente in atto, con le situazioni che esso determina, scivola nel nulla non appena si è compiuto? Ipotizzare ciò significa abbracciare una visione nichilista del reale, nella quale il presente esiste in funzione della distruzione del passato, e le cose che sono state vengono gettate via, nel nulla, dopo che sono state qualcosa, dopo che sono esistite, come se non fossero mai esistite. Così facciamo noi, con gli oggetti materiali della nostra vita: anche i più cari, come il corpo delle persone amate, che viene consegnato alla terra (o al fuoco, da qualche tempo a questa parte) come se non significasse più nulla, perché votato al nulla. Ma colui che ha sostato per l’ultima volta davanti al corpo senza vita di sua madre, la ricorda come quando egli era bambino, e lei giovane e bella, piena di salute e di entusiasmo, di grazia e di dolcezza: la promessa gli dice che l’ultima parola non sarà il nulla della morte, ma che niente di ciò ch’è stato buono, bello e vero cessa di esistere per dissolversi nel nulla del non-essere. Il non-essere non è compatibile con lo statuto ontologico degli enti: i quali, una volta che una forza possente li ha tratti all’esistenza (non dal nulla, ma da una causa seconda: nel caso dell’uomo, dall’atto generativo dei suoi genitori) non possono ritornare ad essere nulla, poiché sarebbe come se la Causa Prima, che ne ha reso possibile l’esistenza, avesse mutato opinione, sia riguardo al loro esistere che alla promessa di cui è destinataria la creatura umana; e avesse deciso che, dopotutto, non vale la pena di lasciarli sussistere, una volta che abbiano esaurito il loro ciclo d’esistenza

Guglielmo di Ockham sosteneva che non bisogna moltiplicare senza necessità il numero degli enti: ma che significa senza necessità? Anche gli enti accidentali, una volta che siano stati chiamati dalla possibilità all’esistenza, diventano, in un certo senso, necessari: neanche Dio potrebbe far sì che  non sia stato ciò che è stato, spiega san Tommaso nella Summa Theologiae; e noi aggiungiamo: ciò che è esistito, in quanto direttamente o indirettamente voluto o permesso da Dio, causa incausata di tutti gli enti, nonché causa efficiente e causa finale di ciascuno, può poi cessare di esistere? Dio può disfarsi così degli enti divenuti inutili? Pensare una cosa simile significa pensare il reale con l’ottica di un ragioniere, che tiene sempre d’occhio la contabilità e l’aspetto commerciale di qualunque operazione. Noi pensiamo che sia ben diversa la logica del mondo reale, il quale è frutto di una creazione libera e generosa, in cui vi è sovrabbondanza e magnificenza (si pensi alla elaborata e sontuosa bellezza di un fiocco di neve) e non già penuria di tutto ciò che serve a dargli quanto è necessario per mantenerlo all’esistenza. Nel caso dell’uomo, gli sono state date tutte le facoltà necessarie a realizzare la propria perfezione, che è di tipo intellettuale: il raggiungimento e la contemplazione del vero (che è anche il bene e il bello).

Ne consegue che se le cose esistono in virtù di una sovrabbondanza di essere, non si vede in base a quale principio di economia gli enti dovrebbero affrettarsi a sparire nel nulla, trascinando con sé gli eventi nei quali hanno dispiegato il loro esistere, impregnando la realtà con la pienezza della loro esistenza. Pertanto, se è assurdo e contraddittorio pensare che Dio chiami gli enti all’esistenza per poi sospingerli nel nulla del non-essere, bisogna ammettere che tutti gli enti intelligibili dalla Mente divina (i quali sono infiniti, mentre quelli intelligibili da parte dell’uomo sono finiti) esistano sempre: ante rem, allo stato potenziale, cioè nel divino Intelletto; in re, sia nell’Intelletto divino che nella dimensione terrena dell’esistenza, caratterizzata dallo spazio e dal tempo; e post rem, sempre nel divino Intelletto, perché Dio è al di fuori (o meglio al di sopra) dello spazio e del tempo e quindi per Lui le cose non sono, come per noi, simili a delle meteore che appaiono alla vista, scorrono nel cielo per qualche tempo e poi scompaiono nella notte buia, ma delle realtà permanenti. Infatti Dio è eterno: e dunque ciò che egli ha tratto all’esistenza, lo ha pensato dall’eternità; e dopo che l’ente cessa di esistere visibilmente, seguita a esistere nella sua Mente, che non è soggetta alle limitazioni delle menti finite, immerse nello spazio e nel tempo e quindi incapaci di vedere dove vanno a finire le cose, così come di vedere dov’erano prima di esistere, quand’erano puramente in potenza: e tuttavia esistevano, ma nella Mente divina, ove nessuna mente umana può spingere lo sguardo (se non per una sua speciale concessione). Ed è così che noi rivedremo gli enti e rivivremo gli eventi: di nuovo la bimba coglierà il fiore nel prato e di nuovo la mamma ci sorriderà, giovane e bella, come al tempo della nostra infanzia e non col viso stanco e affaticato dagli anni e con l’ombra fredda della morte, come quando le abbiamo dato l’estremo saluto, composta nella bara in attesa dell’ultimo viaggio.

Qualcuno potrebbe obiettare che le cose e la percezione di esse sono due realtà distinte e talora opposte. Il marito può sentirsi felice accanto alla moglie, senza sapere che lei lo tradisce; il bambino è felice accanto al suo papà, ignorando che un tumore lo sta portando via. E dunque il conoscere, che è sempre almeno in parte soggettivo, e ‘essere, che è assolutamente oggettivo, non coincidono. Che cosa rimane per sempre, il conoscere o l’essere? Rispondiamo: entrambi. Il conoscere, perché il mondo è, per noi, quello che possiamo conoscere di esso; l’essere perché sussiste nell’Intelletto divino, nel quale non vi è alcuna distanza fra le due realtà, in quanto Dio vede tutto così come realmente è.

Un’altra possibile obiezione è che, se gli enti non spariscono nel nulla, ma persistono nella Mente divina, le menti finite, il cui premio è la vita eterna, non avrebbero alcun desiderio di rivedere eternamente gli enti che hanno provocato loro sofferenza, e sia pure una sofferenza passata, né gli eventi legati a esperienze brutte, dolorose, umilianti. Si consideri però che Dio è somma verità, e la verità è al tempo stesso bontà e bellezza: dunque in essa non possono esserci né male, né ignoranza, né disarmonia, perché tali cose sono, sì, presenti negli enti finiti, ma non esistono in senso assoluto, nella Mente divina, perché altro non sono che (terrena) carenza di verità, di bene e di bellezza. E dunque nulla di ciò che è male, falso e brutto sussiste oltre la dimensione contingente dello spazio e del tempo: nell’eternità si dissolvono come la fredda nebbia d’inverno si dissolve al sopraggiungere dei raggi caldi del sole.

Ciò che è vero, buono e bello, che accresce la nostra umanità, la nostra dignità e la nostra consapevolezza, persiste oltre l’orizzonte delle cose visibili. Noi siamo, fin da ora, cittadini dell’eterno: ma finché abbiamo un corpo, finché siamo in un luogo e nel tempo, tendiamo a scordarcene. Infatti, propriamente parlando, possediamo una doppia cittadinanza: di quaggiù e di lassù. Continuamente le cose e le situazioni di quaggiù tendono a offuscare in noi la coscienza che il nostro destino non si gioca nell’effimero ma nell’eterno. E tuttavia ci sono dei momenti privilegiati, come quando la bimba coglie il fiore nel prato, o come quando il bambino riceve il sorriso e la carezza di sua madre, nei quali balena, per un istante, la visione di ciò che è bellezza pura, gioia pura, verità pura. Sono altrettanti richiami al nostro destino eterno, nel quale nulla di bello, buono e  vero andrà perduto. Perché Dio è amore, e l’amore è così ricco da non disprezzare né gettar via nulla

 

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