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Che vuol dire essere cristiano per Karl Rahner

francesco lamendola Aug 12, 2022

di Francesco Lamendola

Karl Rahner (Friburgo in Brisgovia, 5 marzo 1904-Innsbruck, 30 marzo 1984) è stato, specie per il ruolo di “perito”, ossia di consultore teologo, al Concilio Vaticano II, su invito di Giovanni XXIII, una delle figure più esiziali di tutti i tempi per la dottrina e per la fede cattolica.

Scriveva, fra le altre cose, nei Nuovi Saggi (traduzione dal tedesco di E. Martinelli, Roma, Edizioni Paoline, 1968, vol. I, p. 760):

Il cristiano ha la convinzione che l’uomo, per conseguire la sua salvezza, deve credere non soltanto un Dio, ma anche in Cristo. È fermamente persuaso che questa fede non è soltanto un precetto positivo da cui per qualsiasi ragione si possa venir dispensati. Crede che l’appartenenza alla vera chiesa non comporta solo una costrizione esteriore, che non si possa imporre a qualcuno semplicemente perché non sa nulla, né di essa né della sua necessità.  Questa fede è  invece necessaria in se stessa, e quindi incondizionatamente richiesta: non solo come condizione, ma come unica via transitabile. Sì, perché la salvezza dell’uomo non è altro che la pienezza, la maturità e lo stadio finale appunto di QUESTO inizio, il quale perciò non può venir sostituito da null’altro.

In questo senso, fuori della Chiesa effettivamente non c’è salvezza, come diceva l’antica formula teologica.

Tuttavia, può forse il cristiano credere, anche solo per un istante, che una innumerevole schiera di suoi fratelli vada perduta? Può forse ammettere che l’immenso stuolo di creature, non solo vissute prima della venuta di Cristo sin dalla più remota antichità (i cui orizzonti vengono sempre più spostati indietro dalla paleontologia), ma anche viventi nel presente e destinate a venir al mondo nel futuro, sia per principio ineluttabilmente escluso dalla pienezza della vita e spietatamente condannato ad una eterna assurdità?

No certo. Egli deve rifiutare un’idea del genere. E la sua stessa fede gli dà ragione. Nella Scrittura si dice infatti esplicitamente: Dio vuole che tutti gli uomini si salvino (1 Tim. 2,4); l’Alleanza di pace stipulata da Dio con Noè dopo il diluvio non è mai stata revocata, anzi il Figlio stesso di Dio l’ha voluta suggellare con l’incontestabile autorità del suo amore offertosi in sacrificio, che tutti abbraccia.

Orbene, dovendo noi tener presenti assieme entrambi i principi: la necessità della fede cristiana e l’universale volontà salvifica dell’amore e dell’onnipotenza divina, ci riesce di farlo unicamente in un modo. Il modo è il seguente: tutti gli uomini devono sotto un certo aspetto poter appartenere alla chiesa; e questa loro facoltà non può venir intesa nel senso d’una possibilità soltanto logica ed astratta, bensì reale e storicamente concreta.

A sua volta, ciò vuol dire che debbono esistere vari gradi di appartenenza alla chiesa. Debbono esistere in senso ASCENDENTE, partendo dall’esser battezzati, passando alla piena professione della fede cristiana e al riconoscimento del governo visibile della chiesa, per giungere poi sino alla comunione di vita nell’Eucarestia, andando infine a sboccare nella santità realizzata.

Non solo. Ma debbono esistere anche in senso DISCENDENTE, partendo ancora dal fatto esplicito di aver ricevuto il battesimo, per arrivare sino ad un Cristianesimo non-ufficiale, per l’appunto anonimo, il quale però nonostante tutto può o dovrebbe persino venir lecitamente designato col nome di Cristianesimo, quand’anche esso non possa o non voglia chiamarsi così.

È un fatto che l’uomo cui si rivolge l’afflato missionario della chiesa è ancora in precedenza, o almeno potrebbe essere, un uomo che già si muove verso la salvezza, e in certi casi l’ha magari già conseguita anche senza venir raggiunto dall’evangelizzazione della chiesa. Ma al contempo, è altrettanto assodato che la salvezza da lui conseguita è la salvezza procurataci da Cristo, perché altra salvezza non esiste. Ora, se tutto ciò è vero, deve poter esistere non solo un “teista” anonimo, ma anche un CRISTIANO anonimo. E deve esistere (dato che la chiesa di Cristo non è una realtà meramente interiore) non solo come fatto unicamente interiore, inafferrabile all’esterno, bensì come fatto che presenta un CERTO INDICE di visibilità e percettibilità di rapporti.

Dunque il Rahner, bontà sua, concede che, per conseguire la salvezza, non basta la fede generica in un dio qualsiasi, e magari nella Pachamama, bensì è necessaria la fede specifica in Gesù Cristo, il quale dice di Sé: Io sono la via, la verità e la vita. Di fatto però quest’affermazione impegnativa e risolutiva viene oltremodo annacquata, e per così dire depotenziata, dalla definizione quanto  mai personale che egli dà del concetto di salvezza: la salvezza dell’uomo non è altro che la pienezza, la maturità e lo stadio finale appunto di QUESTO inizio, vale a dire la fede in Gesù Cristo, anche indipendentemente – lo dice in maniera esplicita - dalla Chiesa da Lui fondata, e dalla quale il singolo “credente” potrebbe anche non sapere alcunché, né della sua esistenza, né della sua necessità. Una strana situazione da immaginare: che qualcuno, pur non avendo mai saputo nulla della Chiesa, possa conoscere Gesù Cristo e capire che la salvezza passa solo attraverso di Lui. Ma ammettiamo per un momento che ciò sia possibile, per quanto sommamente improbabile: per quale intuizione potrà capire una tale cosa? Notiamo, di sfuggita, che già qui c’è l’idea protestante del sacerdozio universale dei fedeli: la Chiesa non è più il tramite necessario fra l‘uomo e Dio, ma è soltanto un fattore di agevolazione, una marcia in più del motore. Ad ogni modo, la salvezza non consiste più, come ha sempre insegnato la Chiesa, nella vita beata presso Dio, dopo la morte; no; la salvezza è una cosa tutta immanente, e consiste nella “pienezza”, nella maturità” e nello “stadio finale” (quest’ultima espressione è particolarmente criptica) della fede stessa. O si tratta di un circuito vizioso, o d’un gioco di parole: un altro significato non riusciamo a scorgervi, per quanto ci sforziamo di trovarlo.

Pertanto, a fronte di una tale “salvezza”, ribadire che non ce n’è un’altra, fuori della Chiesa (della quale ultima ha appena dichiarato la non essenzialità) appare una specie di scherzo, un gioco di prestigio destinato a gettare fumo negli occhi dei cattolici in buona fede, ma ingenui. Tanto più che, subito dopo, Rahner s’ingegna a suscitare nei suoi lettori un fremito d’orrore all’idea che una vasta fetta di umanità possa rimanere esclusa dalla pienezza, cioè, volevamo dire, dalla salvezza: può forse il cristiano credere, anche solo per un istante, che una innumerevole schiera di suoi fratelli vada perduta? Insomma la salvezza è per tutti e tutti hanno il sacrosanto diritto di salvarsi; anche se non credono nella Chiesa (parole sue) e anche se non credono in Gesù Cristo (perché il cristiano non può accettare neppure per un istante l’idea che i non cristiani ne rimangano esclusi: e a quanto pare ciò che credono i fedeli è legge per Nostro Signore, pronto destinatario ed esecutore dei deliberati della maggioranza democratica). Ma allora, come mette d’accordo i due postulati che solo con la fede in Gesù Cristo ci si “salva”, e che tutti gli uomini, nessuno escluso, devono potersi salvare, evidentemente anche se non ne vogliono sapere? Semplice: escogitando il trucco innocente secondo cui ci son varie maniere di appartenere alla Chiesa (necessità che a questo punto rientra in campo, anche se poche righe sopra era stata negata), e ne esiste almeno una che permette di salvare capra e cavoli: cristiani sì, ma anche di fatto senza esserlo, o almeno senza sapere di esserlo: tutti gli uomini devono sotto un certo aspetto poter appartenere alla chiesa. Perché se così non fosse, non tutti si salverebbero: e l’importate non è stabilire cosa è vero e cosa è falso, bensì non deludere le premesse di Karl Rahner e di tutti i modernisti travestiti da cattolici, per i quali è intollerabile che qualcuno resti escluso, il che smentirebbe le loro convinzioni in fatto di ecumenismo e dialogo interreligioso.

Sicché con una logica impeccabile, viste le premesse, egli osserva sentenziosamente: ciò vuol dire che debbono esistere vari gradi di appartenenza alla chiesa. È chiaro? La necessità di una cosa non dipende dalla logica interna di quella tale cosa (non è scritto da nessuna parte che tutti devono salvarsi) ma dalla logica interna dell’ideologia buonista ed ecumenista del teologo Karl Rahner: colui al quale ogni volontà deve piegarsi, quelle dei padri conciliari al Vaticano II come quella stessa del “suo” Dio. Le realtà, docile, si piega ai suoi desideri: e poiché egli desidera che sia così, ne consegue che deve essere così, che devono esistere vari gradi di appartenenza alla Chiesa. E questi differenti gradi (un concetto invero nuovissimo, sul quale mai il Magistero, in quasi duemila anni di storia della Chiesa, aveva proferito verbo, né fatto il più vago accenno) che lui chiama – per confondere un po’ le acque – ascendenti e discendenti, in pratica si possono semplicemente chiamare consapevoli o anonimi. L’elemento nuovo e risolutivo che compare a questo punto è infatti il concetto di cristianesimo anonimo, un “geniale” ossimoro fabbricato allo scopo di far rientrare dalla finestra ciò che si era fatto uscire dalla porta. È curioso, infatti, che sia per i gradi di “ascendenti” che per quelli “discendenti” il nostro gesuita stabilisca un punto fermo apparentemente oggettivo e inequivocabile: il fatto di aver ricevuto il sacramento del Battesimo, contentino dato ai noiosi “tradizionalisti”; salvo poi svuotarlo di significato, affermando che un non cristiano o un ateo, “naturalmente” inclini alla Verità cristiana e dunque senza dogmi né Chiesa, sono anch’essi a loro modo dei cristiani.

Infatti in tutto il suo ragionamento aleggia l’idea, che in altri suoi testi diviene esplicita, che per essere cristiani di tal fatta, cioè “cristiani anonimi”, è sufficiente un’inclinazione naturale verso le verità del Vangelo (come se queste fossero naturali e non soprannaturali), oppure qualcosa di simile al concetto ambrosiano (ampiamente riveduto e corretto, per non dire stravolto) del “battesimo di desiderio”, che a quel punto sostituirebbe degnamente il Battesimo vero e proprio. Tutti gli esseri umani infatti, secondo Rahner, che qui si rifà nientemeno che a Kant, tendono naturalmente verso Dio e vivono una tale esperienza come trascendentale (e qui il nostro fa sua anche la terminologia kantiana). Ed ecco come egli arriva a capovolgere la formula di san Cipriano Extra Ecclesiam nulla salus nel suo esatto contrario, ma senza rompere formalmente con il Magistero e anzi richiamandosi perfino, incredibile dictu, al Concilio di Trento, nel quale la dottrina di sant’Ambrogio del Battesimo di desiderio era stata richiamata. Questo, a suo modo, è un capolavoro – un capolavoro del diavolo, se si vuole: arrivare a dimostrare che chiunque può dirsi o essere considerato cristiano e avere perciò titoli più che sufficienti per aspirare, anzi meglio per pretendere la salvezza, qualunque cosa con ciò s’intenda

E perché non rimanga alcun dubbio a proposito del vero pensiero teologico di Karl Rahner, sarà bene citare un altro passo, tratto dal suo famoso, o piuttosto famigerato, libro-intervista, il cui titolo è già tutto un programma, La fatica di credere (Karl Rahner a colloquio con Meinold Krauss, Edizioni Paoline, 1986, p. 86):

Cristianesimo anonimo significa questo: chiunque segue la propria coscienza, sia che ritenga di dover essere cristiano oppure non cristiano, sia che ritenga di dover essere ateo oppure credente, un tale individuo è accetto e accettato da Dio e può conseguire quella vita eterna che nella nostra fede cristiana noi confessiamo come fine di tutti gli uomini. In altre parole: la grazia e la giustificazione, l’unione e la comunione con Dio, la possibilità di raggiungere la vita eterna, tutto ciò incontra un ostacolo solo nella cattiva coscienza di un uomo.

Ora, qualunque pontefice prima del Concilio Vaticano II, qualunque vescovo, qualunque sacerdote avrebbe bollato queste affermazioni come temerarie, profondamente sbagliate, eretiche; nessun passo della Scrittura, nessuna dichiarazione conciliare (dei venti concili anteriori al Vaticano II), nessun Padre o Dottore della Chiesa le avrebbero mai sottoscritte, né possono offrire ad esse il benché minimo appiglio dottrinale. Questa è un’idea del cristianesimo che non ha niente a che fare con ciò che la Chiesa ha sempre insegnato e che tutti, dentro e fuori la Chiesa, hanno sempre ritenuto il fattore discriminante per dirsi cristiani, non cristiani o atei. Ma adesso, grazie a questo brillante e spregiudicato gesuita, il quale anticipa di una trentina d’anni ciò che il signor Bergoglio dichiara tranquillamente al signor Scalfari, ossia che basta interrogare la propria coscienza per sapere quel che va fatto e che Dio ne è pienamente soddisfatto, veniamo a sapere che essere e dichiararsi cattolici o protestanti, ebrei o musulmani, atei o buddisti, è suppergiù la stessa identica cosa, purché la coscienza soggettiva non ponga l’ostacolo della “cattiva volontà”. Perché tutti, alla fine, risultano essere cristiani, alcuni in forma esplicita, altri in forma anonima: così nessuno rimane escluso dai benefici della salvezza, e tutti sono felici e contenti. E il diavolo, sentitamente, ringrazia.

 

 

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