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Dallo storicismo al relativismo e all’incredulità

francesco lamendola Jul 18, 2022

di Francesco Lamendola

In che rapporto sta la Rivelazione cristiana con la natura da una parte e con la storia dall’altra? Noi siamo portati a vedere natura e storia come due polarità opposte, caratterizzate l’una  da leggi meccaniche, l’altra dall’imprevedibilità delle azioni umane. Entrambe tuttavia, rispetto alla Rivelazione, si pongono come radicalmente estranee e inconciliabili con essa: la natura perché pone il limite della ragione, oltre il quale la cultura moderna non ammette alcunché all’infuori della scienza; la storia perché determina le condizioni entro le quali ogni evento umano si forma, si determina e si manifesta, e se ciò vale come regola universale, non si vede perché il cristianesimo dovrebbe fare eccezione e perché mai Gesù Cristo dovrebbe essere altro da uno dei tanti uomini ispirati, fondatori di religioni.

In altre parole, poiché la cultura moderna è naturalista, scientista e storicista, esiste una distanza incolmabile, anzi destinata ad allargarsi sempre di più, fra essa e la Rivelazione cristiana: o si è moderni o si è cristiani. Il cristiano che vive nella modernità è uno straniero in patria; e l’uomo che si riconosce nei valori e nella visione del mondo propriamente moderni, non è né potrebbe mai essere un cristiano. Ne consegue che il cristiano è tentato dalla disperazione di sentirsi impotente, del tutto tagliato fuori dalle correnti vitali del suo tempo; mentre la società moderna si trova del tutto sbilanciata, ricca di fattori tecnologici e di scoperte scientifiche, ma spiritualmente e moralmente povera e, quel che più conta, sempre più estraniata dalle radici culturali che pure hanno reso possibile la sua nascita e la sua tumultuosa affermazione.

Questo problema fu visto con particolare acume e con senso di viva inquietudine dalla filosofia tedesca di fine Ottocento e dei primi del Novecento, che non per caso conobbe una straordinaria fioritura; e venne esplorato e meditato in ogni suo aspetto dopo la Prima guerra mondiale, quando la sconfitta della Germania parve a molti – Spengler, Troeltsch, Meinecke – una metafora e quasi una sorta di anticipazione dell’ormai imminente crollo complessivo della civiltà occidentale, rosa internamente e indebolita dal vuoto spirituale (sono anche gli anni in cui si affermano sempre più largamente delle filosofie pratiche alternative, più o meno ammantate d’un nebuloso spiritualismo, come  l’antroposofia di Rudolf Steiner). Sia di Spengler (1880-1936) che di Meinecke (1862-1954) ci siamo occupati in diverse occasioni; ci resta da dire qualcosa su Ernst Troeltsch (Augsburg-Haunstetten, 1865-Berlino, 1923), il primo a scomparire dalla scena, ma forse l’autore dello sforzo più cospicuo, espresso in una mole gigantesca di opere, come storico, filosofo e teologo, autorevole professore a Gottinga, per riconciliare ragione e fede, relatività e assolutezza, storia e Rivelazione, mondo naturale e realtà soprannaturale. Egli fu quello che vide con maggiore lucidità il problema, in tutta la sua gravità e urgenza, e cercò di dare una risposta che fosse compatibile sia con il dato della Rivelazione, sia coi presupposti essenziali della cultura moderna.

Tale consapevolezza è al centro dell’opera che è considerata il suo capolavoro e che si può ritenere il suo testamento spitituale, Lo storicismo e i suoi problemi, della quale riportiamo la seguente pagina (titolo originale: Der Historismus und seine Probleme, 1922, I, 1, in Ges. Schr., III, pp. 4, 7, 9-10; e I, 6, III, pp. 108-9; traduzione dal tedesco in: Lo storicismo contemporaneo, a cura di Pietro Rossi, Torino, Loescher Editore, 1968, 1981, pp. 16-191):

Se nel campo della RICERCA storica non si può parlare di una crisi reale, e se un abbandono della nostra ricerca sarebbe un suicidio spirituale, la crisi risulta tanti più acuta NEI PRESUPPOSTI FILOSOFICI GENERALI E NEGLI ELEMENTI DEL PENSIERO STORICO, cioè nella concezione dei valori storici in base ai quali dobbiamo pensare e costruire la connessione della storia…

La crisi riguarda quindi gli elementi e i nessi filosofici del sapere storico, ciò che si può chiamare la sua connessione con e il suo significato per l’intuizione del mondo; e il rapporto è senz’altro reciproco – in quanto si tratta del significato della storia per l’intuizione del mondo e dell’intuizione del mondo per la storia. Se dobbiamo dare un nome a questo gruppo di problemi, dovremo designarli come i problemi della FILOSOFIA DELLA STORIA, così come gli analoghi problemi delle scienze naturali vengono di solito designati sotto il nome di filosofia della natura…

In questa prospettiva, siamo di fronte a una questione fondamentale della nostra vita spirituale odierna, cioè niente di meno che DI FRONTE AL PROBLEMA DEL COSIDDETTO STORICISMO in generale, vale a dire al problema dei “vantaggi e svantaggi” derivanti dalla fondamentale storicizzazione del nostro sapere e del nostro pensiero per quanto riguarda la formazione di una vita spirituale personale e la creazione di nuovi rapporti politico-sociali. La storicizzazione ha lentamente soppiantato, nel corso del secolo XVIII, la naturalizzazione o, meglio, la matematizzazione del pensiero, affermandosi – sotto la spinta di bisogni pratici – in connessione con lo stato moderno e con i compiti di auto-comprensione e di auto-giustificazione ch’esso comportava, per imporsi potentemente con il Romanticismo e per determinare nei suoi principî il pensiero moderno, sottomettendo al proprio dominio, attraverso il concetto generale di sviluppo, anche la nostra indagine della natura. (…)

Il naturalismo conduce senza residuo  a una tremenda  naturalizzazione e desolazione di ogni vita, lo storicismo mette capo a quella scepsi relativistica che rappresenta una scepsi intorno ai valori – non necessariamente metafisicaca, ma in ogni caso relativistica – e reca con sé il dubbio riguardo alla conoscibilità e al senso della realtà storica… Noi restiamo vincolati al nostro sapere e dobbiamo farci nuovo coraggio per dominarlo filosoficamente. Le scienze naturali hanno bisogno di una filosofia della natura, che ci insegna a inserire la maestà e la grandezza della moderna conoscenza della natura in una visione totale del mondo: il sapere storico ha bisogno di una filosofia della storia, che assolva per la storia la medesima funzione e che ci dia in tale maniera il coraggio di produrre una sintesi culturale capace di dominare il materiale storico. In entrambi i campo si stanno sviluppando vigorosi movimenti spirituali. Da essi deve procedere la conoscenza dell’essenza e dei problemi dello storicismo, nonché il superamento della sua problematica odierna.

Troeltsch ha cercato di conciliare storia e metafisica, ma lo ha fatto a partire dalle categorie specifiche della cultura moderna, a cominciare dallo storicismo: da buon protestante, non si è accorto che porre la riflessione su di un tale terreno significa già, al di là delle buone intenzioni, cercare la via non di un ragionevole compromesso (che d’altronde non è possibile) ma di una resa a discrezione del cristianesimo allo spirito della modernità. Quando lo storicismo prende piede e lo si applica alla sfera teologica, infatti, l’unico possibile risultato è la cosiddetta demitizzazione del cristianesimo e lo svuotamento progressivo e inesorabile della fede: con un Dio inconoscibile e lontanissimo dagli uomini, che non interviene mai nella natura per non recar dispiacere agli scienziati, né nella storia, per non dar fastidio agli storici. Un Dio talmente discreto e in punta di piedi che non si capisce, posto che davvero esista, che ci stia a fare e in cosa la nostra vita cambi, se dobbiamo riconoscerne la presenza.

Tutto quel che è venuto dopo, nella filosofia e nella teologia tedesche, ed europee in genere, non è stato altro che l’approfondimento e la minuziosa organizzazione di tale resa, facendo in modo che non apparisse come tale, ma sembrasse un reciproco venirsi incontro, un “dialogo” costruttivo insomma, come piace tanto agli uomini del nostro tempo. E quel che ha investito per primi i teologi protestanti, si è esteso, per il principio dei vasi comunicanti – principio democratico e quantitativo per eccellenza - ai teologi cattolici tedeschi, che con essi studiavano e insegnavano fianco a fianco, e poi anche a tutti gli altri. E poiché, nelle fasi storiche caratterizzate dalla resa a discrezione di una cultura, mascherata però in modo tale da non apparire tale, c’è sempre una fuga in avanti degli intellettuali che non vogliono fare la figura dei ritardatari (altrimenti che progressisti sarebbero?), ecco che alcuni si sono fatti notare più di altri: Karl Rahner, Walter Kasper, Hans Küng ed Edward Schillebeeckx. Anche di costoro ci siamo a suo tempo occupati: ai fini del presente discorso, riteniamo che il pensiero di Hans Küng sia quello che meglio si presta a mostrare il nostro assunto, cioè che una volta adottata la prospettiva razionalista, scientista e storicista della modernità, la Rivelazione non può risultarne che drasticamente ridimensionata e mortificata entro un perimetro sempre più angusto; e la fede, alla fine, è distrutta per mancanza di ogni alimento.

La pseudo teologia di Küng è stata perfettamente radiografata e messa a nudo in anni non sospetti, cioè in piena ubriacatura post-conciliare, dagli ultimi veri teologi cattolici (una specie che era già in via di estinzione, e ora estinta del tutto), come Battista Mondin, il quale scrive nel suo saggio Le cristologie moderne, che oggi, senza dubbio, la maggior casa editrice cattolica si rifiuterebbe di pubblicare (Edizioni Paoline, 1973, pp. 146-147 e 149-150):

Tutto il suo edificio si regge su tre postulati: uno epistemologico, uno ontologico e uno ermeneutico.

Il postulato epistemologico (che è certamente il più importante di tutti) è il postulato razionalistico secondo cui è vero soltanto  ciò che è scientificamente verificabile. È, in sostanza, il classico principio hegeliano dell’identificazione del reale con il razionale, adattato alle esigenze del positivismo scientifico, per cui la sfera del razionale (e quindi del reale) viene ridotta a ciò che p controllabile della scienza.

Il postulato ontologico (che è l’inevitabile conseguenza del postulato epistemologico) è l’eliminazione dalla natura e dalla storia di tutto ciò che sfugge al controllo della scienza, e perciò di qualsiasi evento soprannaturale, di qualsiasi azione specificamente divina, di qualsiasi realtà trascendente. L’applicazione di questi due postulati allo studio delle fonti cristiane dà come risultato che tutto ciò che nelle testimonianze dei discepoli non è scientificamente verificabile non fa pare della storia bensì della loro interpretazione.

Il terzo postulato, quello ermeneutico, stabilisce una netta distinzione tra la forma e il contenuto di un testo, di un racconto, di una proposizione, e asserisce che la forma proviene (indipendentemente dalla volontà dello scrittore)  dall’orizzonte culturale del tempo, mentre il contenuto trae origine dall’intenzione dell’autore. Questo postulato si salda, nelle premesse generali della cristologia del Küng, con l’altro concetto, secondo cui la forma di una proposizione (di una dottrina, di un dogma), essendo il frutto di un determinato orizzonte culturale, è necessariamente contingente, provvisoria, mutevole. Perciò, quando l’orizzonte culturale cambia (mediante un processo di demitizzazione e di rimitizzazione) essa deve cedere il posto ad un’altra forma che corrisponde alle esigenze del nuovo orizzonte.

Küng conduce il suo “gioco cristologico” azionando ora separatamente ora tutte insieme le leve di questi tre postulati. Con l’impiego dei primi due egli estromette, con decisione, dall’ambito della storia, la nascita verginale, la “tomba vuota”, l’ascensione, i miracoli ecc. Questi non sono eventi storici, ma simboli escogitati dai discepoli per dare espressione alla loro fede in Gesù. Con l’applicazione del terzo postulato Küng sottopone ad un processo di revisione profonda e di traduzione in linguaggio moderno i titoli di Gesù (Messia, Figlio di Dio, Salvatore, Figlio dell’uomo, ecc.) e i simboli (della preesistenza, della nascita verginale, della tomba vuota, ecc.).(…)

La cristologia del Küng è un frutto tardivo e bacato di tali pregiudizi [razionalisti e scientisti].In essa si trovano raccolte tutte le critiche più radicali e più ingiuste delle fonti cristiane che sono state architettate dai tempi di Reimarus e di Voltaire fino ai nostri giorni.

Il postulato della verifica scientifica è assolutamente incompatibile con la fede cristiana. Se lo si accetta, la fede anziché “obsequium rationale” diventa un abbandono totalmente cieco nelle mani di un Essere ignoto (del quale, rigorosamente parlando, non si ha neppure un motivo per riconoscere l’esistenza).

Certo, Küng riesce ancora a provare perspicuamente che è meglio essere cristiani piuttosto che ebrei, buddisti o mussulmani. Come “rappresentante” di Dio, Gesù è di gran lunga superiore a Mosè, Budda e Maometto. Dal punto di vista apologetico il lavoro del Küng contiene innegabili pregi. Ma non si può dire altrettanto per quanto concerne l’aspetto dogmatico. Qui l’impresa del Küng fallisce miseramente. Perché, se non si ha nessuna garanzia razionale dell’esistenza di Dio, se la sua realtà (qualora la si possa pur riconoscere) resta irrimediabilmente tagliata fuori da tutto ciò che avviene in questo mondo, di quale Dio può essere fedele “rappresentante” Gesù Cristo? E se Dio non esiste o se nessun aspetto della sua realtà traspare nella natura e nella storia, a che cosa si riduce la fede, se non ad un cieco e falso istinto?

Su questo punto la posizione del Küng è semplicemente spaventosa. Da una parte egli afferma che la divinità del Cristo è solo un “teologumeno”, contraddicendo clamorosamente una delle verità più chiaramente definite dai concili di Nicea e di Calcedonia. Personalmente egli non la riconosce ed esclude esplicitamente l’identità personale di Gesù Cristo con Dio. Secondo Küng in un’epoca secolarizzata come la nostra la questione della divinità di Cristo non riveste nessun interesse. Essa l’aveva per i primi cristiani, i quali sentivamo il bisogno di giustificare la propria fede di fronte alle religioni pagane e di trovare una via per conseguire la vita eterna mediante l’unione  con Dio. Ma all’uomo del secolo XX non interessa affatto di diventare Dio. La sua unica preoccupazione è di diventare PIÙ UOMO. D’altra parte egli afferma, gratuitamente, che Gesù è il “rappresentante” di Dio. In effetti non è rappresentante di nessuno, perché Dio è completamente estromesso dalla realtà. In questo assoluto svuotamento della fede possono aver senso solo le parole angosciate: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (se pur possono averlo, perché la straziante esclamazione di Gesù presuppone che Dio esista).

E così, nella cristologia del Küng, Gesù non può essere né Dio né il rappresentante di Dio, ma semplicemente ed esclusivamente un uomo.

Ci siamo già occupati noi stessi, in più occasioni, della trista opera dissolutrice di Hans Küng, una delle figure più emblematiche della deriva post-conciliare, che, se non altro, ha il pregio di mostrare chiaramente anche a chi non vorrebbe vedere a quali conclusioni inevitabilmente si arriva, una volta che si siano adottate quelle premesse teoretiche e metodologiche. Abbiamo voluto riportare qui la pagina di monsignor Mondin per la chiarezza esemplare con la quale un vero cattolico riconosce di primo acchito la cattiva erba dell’eresia dissimulata dietro paroloni e filosofemi buoni per l’aria di certe facoltà teologiche inquinate dai veleni del modernismo, che però non fanno alcuna impressione su una mente rigorosa e su una coscienza cristiana ben formata. Anche se il tentativo di Battista Mondin (Monte di Malo, Vicenza, 1926-Parma, 2015) di coniugare san Tommaso d’Aquino con Paul Tillich ci sembra un grave errore in se stesso, tanto più che Tillich è un teologo protestante e quindi un tale tentativo non può che condurre fuori dal solco della vera dottrina cattolica, riconosciamo senz’altro che egli ha avuto dei meriti intellettuali non piccoli e che seppe riconoscere per tempo, se pure non con la stessa chiarezza di Cornelio Fabro e Antonio Livi, mentre la Chiesa smantellava ogni organo e istituzione di controllo sull’ortodossia dei suoi membri (1965, abolizione del Sant’Uffizio; 1966, abolizione dell’Indice dei libri proibiti) la zizzania ereticale che proliferava sul tronco della Nostra aetate e della Dignitatis humanae, ossia sul falso dialogo interreligoso e sulla falsa libertà religiosa.

Hans Küng è stato richiamato dalla Congregazione per la Dottrina della fede nel 1975 e fatto oggetto, nel 1979, di assai blandi provvedimenti amministrativi, ma ha conservato la sua cattedra a Tubinga e non è stato scomunicato, anzi è rimasto sacerdote cattolico, seguitando a battersi per il sacerdozio femminile, contro il culto mariano e contro l’autorità papale, oltre che a favore del falso ecumenismo e del falso dialogo interreligioso, seguitando a pubblicare libri sempre più provocatori e anticattolici, che colpivano al cuore le verità della fede. Dio solo sa a quante anime la sua opera è stata di scandalo; a quanti buoni cattolici ha fatto perdere la fede. Ma quel che più conta, le sue idee, che poi non sono sue ma sono le idee seminate e portate avanti dagli autori e dai continuatori della rivoluzione conciliare, sono oggi andate al potere nella Chiesa: sono state adottate dalla maggioranza dei vescovi, da moltissimi sacerdoti e dallo stesso collegio cardinalizio, tanto che ormai – umanamente parlando - è vano aspettarsi  che venga eletto un papa realmente cattolico, restauratore della vera fede.

C’è un solo modo per uscire dal vicolo cieco nel quale ci siamo infilati: rivendicare non solo la piena autonomia, ma la superiorità della fede su ogni manifestazione del pensiero, moderno e non.

 

 

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