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E’ possibile un esistenzialismo metafisico?

francesco lamendola Dec 07, 2022

di Francesco Lamendola

L’esistenzialismo che ha preso piede in Europa, e più precisamente a Parigi, e più precisamente ancora sulla rive gauche, fra intellettuali irrequieti e scontenti, anormali e mantenuti (come Sartre con la Beauvoir, con la quale condivideva tutto, anche gli scambi di minorenni), carichi di frustrazione e pronti a sputare nel loro stesso piatto, in attesa dell’immancabile rivoluzione che rimetterà ogni cosa al suo posto, è un tipico fenomeno regressivo, di quelli che si verificano quando una società è confusa, turbata, amareggiata, e sente le sue basi vacillare sotto l’urto di forze poderosissime, specie di natura finanziaria, che non hanno anima, e non si curano di quante sofferenze e di quanti milioni di disoccupati e di famiglie malamente divise lasceranno dietro a sé, pur che la loro agenda sia rispettata e proceda senza intralci o ritardi. Non era più l’esistenzialismo sano, virile, coerente, di Kierkegaard: un esistenzialismo onesto, che ti guarda dritto negli occhi e non ti perdona la più piccola infedeltà. No: era l’esistenzialismo malato, isterico, annoiato, uscito dalle elucubrazioni paranoiche di Heidegger e rimasticato, peggiorandolo, da Jaspers, il più inutile dei filosofi politicamente corretti, e da Sartre, il grande camaleonte, il grande divoratore, il pitone che inghiotte tutto, anche la preda molto più grossa di lui: una cosa stanca ed esangue, sfinita, moribonda, come capita quando le forze sociali e morali sono arrivate allo stremo, hanno consumato ogni cosa e si riducono, per disperazione, a masticare il cuoio degli scarponi per ingannare la fame facendo lavorare i denti.

Una situazione abbastanza simile si era verificata in Italia nel primo dopoguerra, dal quale essa era uscita talmente esausta e incattivita da credersi, e da sembrare, una nazione sconfitta. Quelli che non ci avevano mai creduto, i disfattisti, gli imboscat, quelli che avevano gridato Viva Caporetto! come vent’anni prima, alla notizia di Adua, avevano gridato Viva Menelik!, erano i più scontenti di tutti. Perché il crollo non c’era stato, nonostante tutte le loro fosche previsioni (e speranze), e quindi il miraggio della rivoluzione bolscevica si allontanava. Non restava loro che sfogare la rabbia impotente sputando sui reduci e strappando le mostrine e le medaglie agli invalidi di guerra e gettandole nel rigagnolo. Ma gli altri, quelli che l’avevano voluta o che, pur non avendola voluta, si erano adattati a combatterla per cercare di vincerla, e non di perderla come verrà di moda vent’anni dopo,  non ci stavano: avevano lasciato troppi compagni morti sulle pietraie del Carso o sulle rive del Piave. Bene o male, sentivano di aver vissuto una grande esperienza, la più dura prova affrontata dalla nazione unita, e di averla superata: si sentivano in dovere di non disperderne il patrimonio morale, fatto  di sacrifici e di generose idealità. Avevano vinto la guerra contro il nemico; ora dovevano vincere la pace contro i nemici interni, gli eterni scontenti, quelli che avrebbero voluto pugnalarli alle spalle per “fare come Lenin”. Quelli che spadroneggiavano nelle regioni rosse, nelle camere del lavoro, nelle amministrazioni socialiste, nelle leghe contadine, e lasciavano morir di fame quanti che non erano iscritti al loro partito.

Anche dal punto di vista intellettuale e filosofico, i reduci si sentivano portatori di un’Italia nuova, un’Italia che voleva far da sola, per la prima volta¨studiando i maestri stranieri, ma senza alcun complesso d’inferiorità.

La situazione francese del secondo dopoguerra ricorda un po’ quella italiana del primo; solo che la sostanza delle cose sta esattamente al contrario. L’Italia del 1918 si sentiva quasi vinta, e invece era reduce dalla più grande vittoria di tutta la sua storia militare; la Francia del 1945 faceva finta di essere nel numero dei vincitori, ms era stata sconfitta, e assai malamente. Non aveva quasi combattuto. Non era stata una debâcle come nel 1870, ma una specie di sciopero militare. Aveva preferito far vincere Hitler. Anche perché i comunisti, all’interno, tifavano per i nazisti, in omaggio al patto Molotov-Ribbentrop. In quel momento, per loro, la marcia verso il comunismo coincideva col passo cadenzato delle SS sui Champs Elysées. Ma anche nel 1918, la Francia a dirla tutta, aveva vinto per modo di dire. Aveva vinto perché era stata spinta e trascinata dalle forze riunite del mondo intero, contro un unico avversario. Da sola, sarebbe stata schiacciata dalla Grande Bertha, dagli Zeppelin e dalle divisioni d’assalto. Sia come sia, è molto diverso il clima postbellico dopo una prova superata e dopo una disfatta. La Francia del 1945 non aveva nulla di cui gloriarsi, tanto meno i processi maramaldeschi contro Pétain, Laval e gli altri. Come se non bastasse, la nuova filosofia che andava così di moda fra i giovani del Quartiere latino e fra i loro professori rivoluzionari per noia era di matrice tedesca: oltraggio supremo, che aumentava, forse inconsapevolmente, il senso di auto-disprezzo.

Jean-Paul Sartre moltiplicava le sue incursioni alla baracca di legno nella Foresta Nera (il caso volle che essa ricadesse appunto nella zona d’occupazione francese stabilita dai vincitori) e tornava con i taccuini fitti di appunti. Il piccolo parassita e mantenuto, sempre voglioso di minorenni e triangoli strani, si era convinto che il vecchio farneticante ed ex nazista, dicesse più o meno le stesse cose che si andavano delineando ora nella sua mente: che Essere e tempo, del 1927, gli avesse chiarito la stesura di L’essere e il nulla del 1943; e ora si accingeva a tesaurizzare, da buon manager, il suo buon fiuto. Si trattava, in gran parte, di un equivoco: perché Heidegger era un cattivo filosofo, che diceva una cosa e ne intendeva sempre un’altra, ma almeno aveva un’autentica passione filosofica; mentre Sartre era un dilettante allo sbaraglio, tanto vanitoso quanto superficiale. E poi si stava abilmente, tenacemente costruendo un mito: il mito della Cassandra triste, perché sa ogni cosa ma  non viene mai creduta; e non gli resta che andare in giro con i suoi buffi impermeabili, fumando l’ultimo mozzicone sino al filtro, con quell’aria scontrosa e ironica che piace tanto ai giovani e che ricorda Humprey Bogart in Casablanca mentre stringe alleanza col “francese libero”Claude Rains. Culturalmente, ripetiamo, non c’era molto di più del mito logoro e stantio della ville lumiére che tornava a respirare L’aria della libertà (in formato yankee). A meno di voler considerare le dubbie e intramontabili esibizioni di Josephine Baker, prima e dopo la Liberazione, come il non plus ultra di un’Europa coltissima e civilissima per forza di cose, essendosi scrollata di dosso, con il peso determinante dell’Armata Rossa, l’incubo hitleriano (un incubo ne scaccia un altro e tutti sono contenti).

Dicevamo che l’esistenzialismo degli anni dopo la Seconda guerra mondiale è il segno della fiacchezza e della nullità filosofica dell’Europa all’indomani del suo definitivo suicidio. Eppure, per qualche tempo, il venticello esistenzialista fu scambiato per un vento così gagliardo e vivificante che si moltiplicarono le versioni e i tentativi di accomodamento con gli altri ambito culturali. Ci fu persino un tentativo di esistenzialismo cristiano che ebbe la figura di maggior spicco in Gabriel Marcel, sebbene costui rifiutasse sempre una simile etichettatura. Ma una versione cristiana, sul versante tedesco, non era già stata tentata da Karl Jaspers, beninteso dopo un accurato lavacro purificatore affinché non rimanesse nulla che potesse far riandare col pensiero al collega ormai odiato Heidegger, colui che aveva tradito la filosofia tedesca per trescare col nazismo (e come se non bastasse, portandosi a letto la sua studentessa ebrea più dotata, Hannah Arendt, la quale continuò ad amarlo anche a guerra finita), mentre lui, Jaspers, aveva dovuto lasciare la Germania a causa della moglie ebrea, colpita dalle leggi razziali?

In buona sostanza la domanda che ci poniamo è la seguente: c’è qualcosa, nell’esistenzialismo, di suscettibile di grandi sviluppi filosofici? E in particolare, è possibile, è pensabile un esistenzialismo che si possa conciliare con la tradizione metafisica?

Prendiamo le mosse da uno storico della filosofia d’impostazione cristiana e agostiniana, Primo  Montanari, nel suo Profilo storico della filosofia, Roma, Edizioni Paoline, 1958, pp. 493-494):

In Francia l’esistenzialismo è rappresentato da Gabriel Marcel (n. 1887), critico e filosofo, il quale nel suo giornale metafisico”, polemizza contro

Le nozioni che pretendono di avere una validità oggettiva e universale, e protesta contro tali verità a tutto favore di ciò che è vissuto e sperimentato da una persona singolare qui e ora, cioè a tutto favore dell’ESISTENZA. Tuttavia più sapremo riconoscere l’essere individuale in quanto tale, e più saremo incamminati a cogliere l’essere in quanto essere; poiché l’ESSERE INDIVIDUALE è la maniera umana di essere al mondo, cioè di PARTECIPARE appunto all’essere. Nella sua Nella sua opera “Essere e avere”, egli dice: tanto più sono quanto meno ho, infatti se l’AVERE, p. es. delle ricchezze, resta soltanto un avere, diviene un essere posseduti da tali ricchezze, mentre invece se non sono posseduto da ciò che ho, se non sono incatenato Dai miei averi, sono più libero di fronte alla scelta del proprio destino. E perciò, secondo lui, chi si trova in tale ricchezza dell’ESSERE, e non nella povertà dell’avere, può trovare la via, perché la sua anima, libera dagli egoismo, si apre alla speranza, alla fede e all’amore di Dio. Anche nell’empirismo del Marcel vi è quindi un’esigenza mistica di trascendere l’esistenza, di uscire dall’esperienza per accostarsi all’Essere.

Accanto alla corrente spiritualistica dell’esistenzialismo del Marcel possiamo porre la cosiddetta “Philosophie de l’esprtit”, di pascaliana memoria, formata da Renato Le Senne (n. 1882) e Luigi Lavelle a81883-19519. Il Le Senne ha scritto “Il dovere” (1930) E “Ostacolo e valore” (1935), dove afferma che ogni esperienza dell’esistenza è ESPERIENZA CONTRADDITTORIA, e quindi DUBBIA; di fronte però agli ostacoli della contraddizione nasce però in noi il dovere di superarla., e perciò l’esistenza assume il significato di FEDELTÀ  AL VALORE e non già di fedeltà alla morte, come voleva Heidegger. Tuttavia quest’impegno di superrare la contraddizione non raggiunge mai il ricompare in una dialettica continua. Lo stesso Dio, che le Senne concepisce come Valore che è  Persona, non può essere suo scopo, perché la contraddizione si sposta e la nostra pace, perché anche l’amore è dialettico; e quindi, nella insoddisfazione di ogni meta provvisoria, ravviva soltanto il nostro anelito verso l’Eterno. (…)

L’esistenzialismo se vuole essere veramente una metafisica dell’esistenza umana, non può fermarsi, come fa, ad una sola descrizione  fenomenica; è necessario Che si addentri  nel vivo del problema e si chieda il perché di questa esistenza e degli stessi fenomeni, e cioè. Perché essere piuttosto che non essere, perché angoscia e non gioia, perché morte e non vita. Certo, chi fece sorgere e incoraggiò questa filosofia dell’esistenza, tanto nel suo pessimismo quanto nella sua speranza, fu senza dubbio la spinta che ognuno sente alla ricerca degli eterni valori, mas in modo particolare vi ha contribuito anche la mentalità moderna, ossia la mentalità della tecnica, la quale ha inorgoglito gli uomini  con le sue grandi invenzioni, e nel medesimo tempo li ha affascinati con l sue comodità e i suoi piaceri, allontanandoli sempre più dalla spiritualità e da Dio, e ha finito per far loro considerare questo mondo come l’unico valore esistente. L’angoscia dell’esistenzialismo è anche frutto di questo stato particolare, perché è proprio quando l’uomo viene limitato alla terra, e gli viene tolto Dio, che sente allora tutta l’angoscia di questo mondo, e tanto più ne soffre quanto più dimentica che c’è una via d’apertura, una via d’uscita, ma è una via che sa di umiltà, di soggezione, una via che sottomette e distingue nei contingenti  al necessario e all’Assoluto facendoci esclamare con S,. Agostino: “Inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te!” (Conf., I,1).

Si deve notare tuttavia la diversa posizione dell’esistenzialismo francese. Nella “Philosophie de l’esprit”, cui fanno capo Marcel, Le Senne e Lavelle, vi è una esigenza teologica della trascendenza, che ha caratteri particolari e origini diverse  e indipendenti dall’esistenzialismo di Heidegger e di Jaspers. In questi ultimi  infatti, la trascendenza è ancora una immanenza in quell’esistenza che viene dal nulla  e va verso il nulla, e quindi nullità anch’essa.

L’esistenzialismo è uno slogan, più che una vera filosofia. Non ha senso parlare dell’esistenza separandola dall’essere di cui è la manifestazione (actus essendi). È  una finzione. L’esistere delle cose non è un dato assoluto e originario. Si inscrive nel fatto più ampio che le cose esistono, e non esistono da sole. Non possono darsi da se stesse il proprio esistere. Dunque esistono per qualcosa, in vista di un fine. Ma è proprio ciò che sfugge agli esistenzialisti. Se lo ammettessero, ecco che non sarebbero più tali. Quanto agli esistenzialisti cristiani, o agli esistenzialisti metafisici, è una contraddizione in termini: la metafisica è la scienza dell’essere in quanto essere, non dell’esistere in quanto esistere. L’esistere dà sempre e solo esistere. Per andare oltre, per trovare i fondamenti dell’esistere, bisogna unire il fatto dell’esistere col fatto di essere esistenza di qualcosa. E perciò essere: perché solo dall’essere deriva che l’esistere, atto privo di essenza, si ancora a una realtà vera.

 

 

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