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VIDEO. Come superare il male di vivere. "Reliquia vivente" di Turgenev

emanuele gavi letteratura Sep 19, 2021
 

Ed ecco il meraviglioso racconto di Turgenev:

 

Da Ivan S. Turgenev, Memorie di un cacciatore, 1847-1850

 

RELIQUIA VIVENTE

 

Terra natia della pazienza infinita

Terra tu sei del popolo russo.

  1. Tjutèev

 

Dice un proverbio francese: "Un pescatore asciutto e un cacciatore bagnato sono uno spettacolo penoso". Dal momento che non nutro alcuna passione per la pesca, non posso dire cosa provi un pescatore in una bella giornata limpida e in quale misura la soddisfazione di una pesca abbondante in una giornata piovosa possa compensare il fastidio di bagnarsi. Per il cacciatore però la pioggia è una vera calamità. Proprio la suddetta calamità colse Ermolaj e me in una delle nostre spedizioni a caccia di galli cedroni nel distretto di Belëv. La pioggia cadeva incessante sin dall'alba.

Tentammo di tutto per evitare il disagio! Per poco non ci tiravamo anche sulla testa gli impermeabili di gomma e sostavamo sotto gli alberi dove gocciolava di meno... Gli impermeabili però non solo ci impedivano di sparare, ma lasciavano passare acqua in modo indecente; sotto gli alberi sulle prime sembrava che non gocciolasse, ma quando all'improvviso l'acqua che si era accumulata nel fogliame straripava, ogni ramo ci innaffiava come una grondaia, uno scroscio freddo s'infiltrava sotto la cravatta e scorreva lungo la spina dorsale... E questo era il proprio colmo, come diceva Ermolaj.

«No, Pëtr Petroviè», esclamò all'improvviso. «Così non si può... Non si può andare a caccia oggi. L'acqua spegne il fiuto ai cani, i fucili fanno cilecca... Accidenti!».

«Che facciamo allora?», domandai io.

«Ecco, andiamo ad Alekseevka. Forse non lo sapete ma lì c'è una fattoria che appartiene a vostra madre, dista circa otto verste da qui. Passiamo la notte lì e poi...».

«Torniamo qui?».

«No, non qui... Conosco dei posti oltre Alekseevka... di gran lunga migliori di questi per i cedroni!».

Non stetti a domandare al mio fedele compagno per quale motivo non mi avesse portato direttamente in quei luoghi. In giornata arrivammo alla fattoria materna, della cui esistenza, a dire il vero, non avevo avuto il minimo sospetto sino ad allora. Quella fattoria risultò avere una piccola dipendenza, piuttosto vecchia ma disabitata e perciò pulita. Vi trascorsi una notte abbastanza tranquilla.

Il giorno seguente mi alzai sul prestino. Il sole era appena sorto, non c'era nemmeno una nuvoletta nel cielo, tutt'intorno ogni cosa splendeva di radiosa e duplice lucentezza: la lucentezza dei giovani raggi mattutini e dell'acquazzone del giorno prima. Mentre mi attaccavano il calesse, gironzolai per il piccolo giardino, un tempo frutteto, ora incolto che cingeva su ogni lato la dipendenza con il suo fogliame profumato e rigoglioso. Come si stava bene all'aria aperta, sotto il cielo limpido dove trepidavano le allodole e si diffondeva il canto argentino delle loro voci sonore! Forse portavano gocce di rugiada sulle ali e anche i loro canti sembravano spruzzati di rugiada. Mi tolsi il berretto e respirai gioiosamente, a pieni polmoni. Sul pendio di un burrone poco profondo, proprio accanto alla siepe, si intravedeva un apiario; vi si giungeva tramite un sentierino stretto che si svolgeva a serpentina tra le pareti compatte di erbacce e ortica, sovrastate da steli di canapa verde-scuro proveniente da Dio sa dove.

Mi avviai per il sentierino, giunsi all'apiario. Accanto ad esso c'era un piccolo capanno di giunchi, il cosiddetto amšanik dove si mettono le arnie per l'inverno. Sbirciai attraverso la porta semiaperta: era buio, silenzioso e asciutto, si sentiva un odore di menta e melissa. In un angolo erano state sistemate delle tavole e su di esse giaceva una piccola sagoma sotto una coperta... Stavo per andare via...

«Padrone, ehi padrone! Pëtr Petroviè!», udii una voce debole, lenta e rauca come il fruscio della carice palustre.

Mi fermai.

«Pëtr Petroviè! Avvicinatevi per favore!», ripeté la voce. Essa proveniva dall'angolo del capanno, dalle tavole che avevo notato.

Mi avvicinai e rimasi di stucco dallo stupore. Giaceva davanti a me un essere umano, ma chi era?

La testa era completamente rinsecchita, monocolore, color bronzo, proprio come le immagini delle antiche icone, il naso sottile come un rasoio, le labbra quasi inesistenti, solo i denti e gli occhi risaltavano di bianco e da sotto un fazzoletto spuntavano sulla fronte radi mazzetti di capelli giallicci. Vicino al mento, sulla piega della coperta, due minuscole mani, anch'esse color bronzo, si muovevano con un lieve movimento delle dita simili a stecchini. Guardai con maggiore attenzione: non che quel viso fosse brutto, anzi era persino bello, ma era terribile, innaturale. E la cosa più terribile di quel volto era vedere che su di esso, su quelle guance metalliche tentava... tentava di affiorare un sorriso, invano.

«Non mi riconoscete, padrone?», sussurrò di nuovo la voce che sembrava evaporare da quelle labbra immobili.

«E come potreste riconoscermi? Sono Luker'ja... Vi ricordate guidavo le danze in girotondo da vostra madre a Spasskoe... ricordate ero la solista?».

«Luker'ja!», esclamai. «Sei Proprio tu? Com'è possibile?».

«Sì, sono io, padrone. Sono Luker'ja».

Non sapevo che dire e osservavo come tramortito quell'immobile viso scuro con quegli occhi chiari e smorti fissi su di me. Com'era possibile? Quella mummia era Luker'ja, la più bella delle nostre serve, alta, imponente, bianca e rossa, che rideva, ballava, cantava! Luker'ja, quella Luker'ja così in gamba corteggiata da tutti i nostri giovanotti e per la quale sospiravo in segreto anche io, ragazzino sedicenne!

«Per favore Luker'ja», riuscii a dire infine, «dimmi, che cosa ti è successo?».

«Mi è successa una tale disgrazia! Ma non abbiate ripugnanza, padrone, non abbiate ribrezzo della mia disgrazia, sedetevi lì su quel mastello, più vicino altrimenti non riuscirete a sentirmi... avete sentito che voce ho adesso?... Be', sono proprio contenta di avervi visto! Come mai siete passato da Alekseevka?».

Luker'ja parlava con voce sommessa e debole ma senza interrompersi.

«Il cacciatore Ermolaj mi ha condotto qui. Ma racconta tu piuttosto...».

«Vi devo raccontare la mia disgrazia? Come volete, padrone. È accaduto molto tempo fa ormai, sei o sette anni fa. Mi avevano appena promessa a Vasilij Poljakov, un pezzo di ragazzo, riccio, faceva il dispensiere da vostra madre, ve lo ricordate? Ma voi non eravate in campagna in quel periodo, eravate andato a studiare a Mosca. Vasilij e io eravamo molto innamorati, pensavo sempre a lui. Era primavera. Una notte... mancava poco all'alba... e io non riuscivo a prendere sonno: un usignolo in giardino cantava in modo meravigliosamente dolce!... Non resistetti, mi alzai e uscii sul terrazzino per ascoltarlo. Cantava, cantava... e all'improvviso mi parve di sentire che qualcuno mi chiamava con la voce di Vasilij, così, zitto zitto: "Luša!..." Mi voltai per guardare, ma mezza addormentata com'ero, inciampai e feci un volo dal terrazzino, giù per terra! Credetti di non essermi fatta troppo male, cosi mi alzai subito e tornai nella mia camera. Solo che sentii qualcosa di rotto all'interno, nella pancia... Fatemi prendere fiato... un minutino... padrone».

Luker'ja tacque mentre io la osservavo allibito. Mi stupiva che raccontasse quell'episodio quasi allegramente, senza gemiti e sospiri, senza lamentarsi né pretendere compassione.

«Da quel momento», proseguì Luker'ja, «cominciai a dimagrire, deperire, a diventare scura; avevo difficoltà a camminare, poi non riuscii più a muovere le gambe, non potevo stare né in piedi né seduta, ma solo stesa a letto. Non avevo più né fame né sete: peggiorai sempre più. Vostra madre, bontà sua, mi fece visitare da dottori e mi mandò all'ospedale. Ma non ebbi nessun miglioramento. E neanche un medico seppe dire che male avessi. Tentarono di tutto:

mi bruciarono la schiena con il ferro rovente, mi immersero nel ghiaccio, ma niente. Alla fine mi irrigidii del tutto...

Così i signori decisero che non c'era modo di curarmi e che non era il caso di tenere storpi nella casa padronale... così mi mandarono qui perché ho dei parenti. E vivo come vedete».

Luker'ja tacque di nuovo e tentò di nuovo di sorridere.

«Ma è una situazione orribile la tua!», esclamai e, non sapendo che cosa dire ancora, domandai: «E che ne è stato di Vasilij Poljakov?». Era una domanda davvero stupida.

Luker'ja distolse leggermente lo sguardo.

«Che ne è stato di Poljakov? Ha sofferto, ha sofferto e poi si è sposato con un'altra, una ragazza di Glinnoe.

Conoscete Glinnoe? Non è lontano da noi. Si chiama Agrafeva. Lui mi amava molto, ma era giovane, non poteva restare scapolo. E che compagna potevo essere io per lui? Invece si è trovato una moglie buona e bella e hanno anche dei figlioletti. Adesso fa il fattore da un vicino: vostra madre gli ha dato il passaporto e le cose gli vanno molto bene, grazie a Dio».

«E così tu non fai che stare sdraiata?», le domandai di nuovo.

«Sono sette anni che sto così, padrone. D'estate me ne sto in questa capannuccia e quando incomincia a far freddo mi trasportano nello spogliatoio del bagno a vapore. E me ne sto sdraiata lì».

«E chi viene a trovarti? Chi si prende cura di te?».

«Anche qui ci sono delle brave persone. Non mi abbandonano. E poi non do loro un gran da fare. Di mangiare è come se non mangiassi niente, l'acqua è lì in quella brocca: c'è n'è sempre in abbondanza, pulita, acqua di fonte. Fino alla brocca ci arrivo da sola: un braccio ancora lo posso muovere. Poi c'è una bambina, un'orfanella che viene sempre a vedere come sto, bontà sua... Se n'è appena andata... Non l'avete vista? È carina, palliduccia. Mi porta i fiori, io ne vado matta, dei fiori intendo. Non abbiamo fiori in giardino qui, li avevamo un tempo ma ora non più. Ma anche i fiori di campo sono belli, profumano ancora di più di quelli dei giardini. Se non fosse per il mughetto... quello è il più bello di tutti!».

«E non ti annoi, non sei triste, mia povera Luker'ja?».

«E che devo farci? Non voglio mentire, dapprima è stato molto brutto, ma poi mi sono abituata, ci ho fatto il callo, c'è chi sta peggio di me».

«E come è possibile?».

«C'è chi non ha un posto dove stare! Chi è cieco o sordo! Invece io, grazie a Dio, ci vedo benissimo e sento tutto, tutto. Una talpa scava sotto terra e io la sento. E riconosco tutti gli odori, per quanto deboli siano! Non c'è bisogno che mi dicano quando il grano saraceno fiorisce nel campo o il tiglio in giardino: sono la prima a sentirlo. Basta che mi giunga un venticello da quella direzione. No, perché far andare in collera Dio? Molti altri stanno peggio di me. E poi, se non altro, le persone sane peccano molto facilmente, invece perfino il peccato si è allontanato da me. Alcuni giorni fa padre Aleksej, il prete, è venuto a darmi la comunione e mi ha detto: "Tu non hai niente da confessare: puoi forse peccare nelle tue condizioni?". Ma io gli ho risposto: "E i peccati della mente, padre?". "Be", ha detto lui ridendo, "quelli sono peccati veniali".

«E io forse non pecco gravemente neanche con la mente», proseguì Luker'ja, «perché mi sono abituata a non pensare e, meglio ancora, a non ricordare. Il tempo passa più in fretta».

Devo ammettere che restai stupito.

«Ma tu sei sempre sola soletta, Luker'ja, come puoi evitare che ti vengano dei pensieri? Oppure dormi tutto il tempo?».

«Oh, no, padrone! Non posso dormire sempre. Anche se non ho grandi dolori, mi rode qualcosa dentro e anche nelle ossa e non mi lascia dormire come si deve. No... me ne sto sdraiata, tranquilla tranquilla e non penso; sento che sono viva che respiro, tutto qui. Guardo, ascolto. Le api ronzano e sciamano nell'apiario, un colombo tuba appollaiato sul tetto, una chioccia viene a beccare le briciole con i suoi pulcini, un canarino o una farfalla volano qui vicino, mi piace molto. Due anni fa persino le rondini facevano il nido lì in quell'angolo e allevavano i loro piccoli. Come fu divertente! Una rondine arrivava in volo, si stringeva al nido, nutriva i piccoli e volava via. Un istante dopo ne arrivava un'altra a darle il cambio. Alle volte non entrava neanche, volava accanto alla porticina aperta e i figlioletti si mettevano tutti a pigolare e aprivano subito il beccuccio... Le ho aspettate anche l'anno dopo, ma dicono che un cacciatore del posto le abbia sparate con il fucile. A che scopo? Una rondine non è più grande di un maggiolino... Come siete cattivi voi cacciatori!».

«Io non sparo alle rondini», mi affrettai a dire.

«Un'altra volta», continuò Luker'ja, «che risate! Entrò qui una lepre di corsa, proprio qui! Forse era inseguita dai cani, ruzzola proprio qui dentro dalla porta!... Si acculò qui vicino e stette lì un bel pezzo, arricciando il naso e tirandosi i baffetti, come un vero ufficiale! E mi guardava. Forse aveva capito che non potevo farle del male. Alla fine si drizzò, saltellò verso la porta, sulla soglia si guardò attorno, e via! Era così divertente!».

Luker'ja mi guardò... non era divertente? Io risi per farla contenta. Si mordicchiò le labbra secche.

«Be', d'inverno sto peggio, perché è scuro, è peccato accendere la candela e poi a che serve? Anche se so leggere e scrivere e ho sempre avuto la passione della lettura, che cosa potrei leggere? Qui non ci sono libri e anche se ci fossero come farei a tenerne uno in mano? Padre Aleksej mi aveva portato un calendario per distrarmi, ma vedendo che non lo usavo se l'è ripreso. Comunque, anche quando è buio, c'è sempre qualcosa da ascoltare: il crepitio di una candela o il raspare di un topo. Allora sto bene e non penso».

«Qualche volta recito le preghiere», proseguì Luker'ja dopo aver riposato un po'. «Solo che non ne conosco molte di preghiere. E poi perché dovrei mettermi a scocciare Dio? Che cosa gli posso chiedere? Lo sa meglio di me ciò di cui ho bisogno. Mi ha dato una croce da portare, vuol dire che mi ama. Così ci è stato ordinato di intenderla. Recito il Padre Nostro, l'Ave Maria, la preghiera per tutti i sofferenti e me ne sto lì sdraiata senza alcun pensiero. E va abbastanza bene!».

Passarono un paio di minuti. Non turbavo quel silenzio e me ne stavo immobile sullo stretto mastello che mi faceva da sedile. L'immobilità crudele, di pietra di quella disgraziata creatura vivente che mi giaceva dinanzi, mi aveva contagiato: era come se fossi impietrito anch'io.

«Ascolta, Luker'ja», presi a dire. «Ascolta la proposta che ti faccio. Se vuoi do disposizioni che ti portino all'ospedale, in un buon ospedale della città… Chissà, forse lì potranno guarirti? In ogni caso non sarai sola...».

Luker'ja mosse le sopracciglia appena appena.

«Oh, no, padrone», sussurrò preoccupata, «non fatemi portare all'ospedale, non mi toccate. Per me sarebbe solo una sofferenza in più. E come potrebbero guarirmi?... Una volta è venuto qui un dottore, voleva visitarmi. Io lo supplicai: "Non toccatemi, per l'amor del Cielo". Macché! Incominciò a rigirarmi, a tastarmi, a stendermi braccia e gambe e diceva: "Lo faccio per la scienza, sono uno che lavora, uno studioso! E tu non puoi opporti a me perché grazie alle mie pubblicazioni ho ricevuto l'ordine che porto al collo e mi do da fare per voi, imbecilli!". Mi scrollò da tutte le parti, mi disse il nome della malattia, un nome difficile e poi se ne andò. E poi a me fecero male tutte le ossa per una settimana intera. Voi dite che sono sola, sempre sola. No, non sempre. Vengono a trovarmi. Me ne sto buona buona, non do fastidio. Le ragazze contadine fanno una capatina, due chiacchiere; una pellegrina passa di qui, si mette a parlare di Gerusalemme, di Kiev, delle città sante. E poi io non soffro a stare sola. È persino meglio, eh, eh!... Padrone, non mi toccate, non mi fate portare all'ospedale... Vi ringrazio, siete buono, ma non mi toccate, tesoruccio caro».

«Come vuoi tu, come vuoi tu, Luker'ja. Io lo dicevo per il tuo bene...».

«Lo so padrone che lo dicevi per il mio bene. Ma, padrone caro, chi può aiutare un'altra persona? Chi può penetrare nella sua anima? L'uomo si aiuta da solo! Ecco, voi non ci crederete, ma alle volte me ne sto sdraiata qui da sola... come se non esistesse nessun altro al mondo a parte me. Come se vivessi soltanto io! E mi sembra di essere illuminata... Mi metto a meditare... è persino sorprendente!».

«Su che cosa mediti in quei momenti, Luker'ja?».

«Anche questo non riesco a dirlo, padrone, non sono cose che si possano esprimere a parole. E poi si dimenticano subito. È come se arrivasse una nuvoletta e la pioggia si riversasse su di me, mi sento fresca, bene e non capisco cos'è stato! Mi viene solo da pensare: se ci fossero delle persone accanto a me, tutto questo non accadrebbe e non sentirei nulla a parte la mia infelicità».

Luker'ja respirò a fatica. Il petto non le ubbidiva, al pari di tutte le altre parti del corpo.

«Quando vi guardo, padrone», disse riprendendo a parlare, «capisco che provate una gran pena per me. Ma non dovete dispiacervi troppo, davvero! Ecco, per esempio, vi dirò che alle volte... Forse ricorderete com'ero allegra un tempo? Avevo l'argento vivo addosso!... E sapete cosa? Anche adesso canto delle canzoni».

«Canzoni?... Tu?».

«Sì, canzoni, canzoni antiche, di girotondi, natalizie, tutte quelle che ci sono! Ne sapevo molte e non le ho dimenticate. Solo le canzoni delle danze non canto più. Non si adattano alla mia condizione di adesso».

«E come le canti... tra te e te?».

«Sia tra me e me sia ad alta voce. Certo non posso alzare molto la voce, però mi faccio sentire. Ecco, vi ho detto che viene a trovarmi una bambina. È orfana e molto sveglia. E così gliele ho insegnate, ha già imparato quattro canzoni da me. Non ci credete? Aspettate adesso vi...».

Luker'ja raccolse le forze... Il pensiero che quella creatura mezza morta si accingesse a cantare, suscitò in me un orrore istintivo. Ma prima che riuscissi ad aprire bocca nelle mie orecchie vibrò una nota prolungata, appena udibile, ma pura e decisa... seguì una seconda nota e poi una terza. Luker'ja cantava "Nei prati". Cantava senza mutare l'espressione del suo volto impietrito, persino con lo sguardo fisso. Ma com'era commovente il suono di quella povera vocina stentata ondeggiante come un fil di fumo, con quanta energia ella voleva infondere in quella voce tutta la sua anima!... Non provavo più orrore: una pietà indicibile mi stringeva il cuore.

«Oh, non ce la faccio!», disse lei all'improvviso, «mi mancano le forze... Sono stata molto felice di vedervi».

Chiuse gli occhi.

Poggiai la mano sulle sue minuscole ditina fredde... Mi guardò e poi le sue palpebre scure, orlate di ciglia dorate come le statue antiche, si riabbassarono. Un istante dopo esse brillarono nella penombra... bagnate dalle lacrime.

Io non mi mossi, come prima.

«Che bel tipo che sono», disse Luker'ja all'improvviso con forza inattesa e, spalancando gli occhi, cercò di ricacciare una lacrima. «E non mi vergogno? Che cosa sto facendo? Non mi succedeva da un pezzo... proprio dal giorno in cui venne a trovarmi Poljakov Vasja, la primavera scorsa. Fin quando stette seduto a chiacchierare, non successe niente, ma non appena se ne fu andato, scoppiai a piangere così sola soletta! Ma come può essere?... Evidentemente ho le lacrime in tasca. Padrone», soggiunse Luker'ja, «avete un fazzoletto... Non abbiate ribrezzo, asciugatemi le lacrime».

Mi affrettai a soddisfare la sua richiesta e le lasciai il fazzoletto. Lei sulle prime voleva rifiutare... come faceva ad accettare un simile regalo? Il fazzoletto era molto semplice, ma bianco e pulito. Poi lo afferrò con le deboli dita e non le dischiuse più. Ormai abituato all'oscurità nella quale ci trovavamo entrambi, potevo distinguere chiaramente i suoi lineamenti, potevo persino notare il leggero rossore che era affiorato attraverso il color bronzeo del viso, potevo scoprire in quel viso - o almeno così mi parve - le tracce della sua bellezza di una volta.

«Ecco, mi domandavate», Luker'ja iniziò di nuovo a parlare, «se dormo. Dormo di rado, ma faccio sempre dei sogni, bei sogni! Non mi vedo mai malata: nei sogni sono sempre sana e giovane... L'unica cosa che mi dispiace è che quando mi sveglio, vorrei stiracchiarmi per benino e invece sono sempre come bloccata. Una volta ho fatto un sogno meraviglioso! Volete che ve lo racconti? Ascoltate allora. Mi trovavo in un campo e intorno c'era la segale, ma così alta, matura come l'oro!... Una cagnetta fulva, cattiva voleva mordermi. Nelle mani avevo una falce, ma non una semplice falce da contadini, ma una vera e propria falce di luna. E io dovevo falciare completamente la segale proprio con quella falce di luna. Solo che il caldo mi spossava, la falce di luna mi abbagliava e l'indolenza ebbe la meglio. Tutti intorno crescevano i fiordalisi, grossi così! E giravano tutti la testolina verso di me. E io pensai di raccoglierli. Vasja aveva promesso di venire e così volevo prima intrecciarmi una ghirlanda, a falciare la segale ci avrei pensato dopo.

Incomincio a raccogliere i fiordalisi, ma quelli mi sfuggono dalle dita, proprio così! E non riesco a intrecciare la ghirlanda. Nel frattempo sentivo che qualcuno si stava avvicinando e chiamava: Luša! Luša!... Ah che peccato! Non ho fatto in tempo! Non fa niente, al posto dei fiori mi metterò in testa la falce di luna. Mi metto in testa la falce di luna proprio come un kokošnik e splendevo tutta e illuminavo tutto il campo là intorno. Guardo e sulle cime delle spighe vedo che qualcuno corre veloce verso di me, solo che non era Vasja, ma Cristo in persona! Come feci a riconoscere Cristo, questo poi non lo so, non lo dipingono così eppure era lui! Senza barba, alto, giovane, tutto in bianco, - solo la cintura era dorata - e mi protendeva la mano. "Non avere paura",- mi dice, "sposa mia ornata, seguimi; nel regno dei cieli tu condurrai i girotondi e canterai le canzoni del paradiso". Io mi attacco alla sua mano! La cagnetta stava vicino ai miei piedi... ma a quel punto ci solleviamo! Lui davanti... Le sue ali si spiegavano per tutto il cielo, lunghe come quelle dei gabbiani e io dietro di lui! E la cagnetta dovette lasciarmi andare. Solo allora capii che la cagnetta era la mia malattia e che nel regno dei cieli non ci sarà posto per lei».

Luker'ja tacque per un po'.

«Ho fatto anche un altro sogno», continuò a raccontare, «ma forse era una visione, non lo so neanche io. Mi sembrava di stare in questa stessa capannuccia e i miei defunti genitori venivano a trovarmi, papà e mamma, mi facevano inchini profondi ma non dicevano nulla. Io domandavo: "Perché vi inchinate davanti a me, papà, mamma?", e quelli mi rispondevano che siccome in questo mondo io sto soffrendo tanto, non solo avevo alleggerito la mia anima, ma avevo tolto un gran peso dalla loro. Quindi la loro vita nell'al di là era diventata molto più piacevole. "I tuoi peccati li hai già scontati, adesso stai riscattando i nostri". Detto questo i miei genitori si sono inchinati di nuovo e sono spariti: si vedevano solo i muri. Mi sono domandata a lungo che cosa mi fosse successo. L'ho raccontato persino al prete in confessione. Ma lui dice che non è stata una visione perché le visioni le hanno solo i preti.

«Ed ecco un altro sogno che ho fatto», continuava Luker'ja. «Stavo seduta sotto un citiso sulla strada maestra, tenevo in mano un bastone piallato, una bisaccia sulle spalle e la testa avvolta in un fazzoletto, come una pellegrina! E stavo andando lontano lontano in pellegrinaggio. E mi passavano accanto tutti i pellegrini che camminavano mogi, quasi controvoglia, tutti nella stessa direzione, avevano tutti la faccia triste ed erano molti simili l'uno all'altro. Vedo che tra di loro si agita e si dimena una donna, più alta degli altri di una testa intera, e aveva un vestito particolare, non nostro, non russo. E anche il suo viso era particolare, un viso scarno, severo. E tutti si allontanano al suo passaggio e quella piomba all'improvviso dritto da me. Si ferma e mi guarda; i suoi occhi erano come quelli di un falco, giallicci, grandi e luminosissimi. Io le domando: "Chi sei?". E quella dice: "La tua morte". Invece di spaventarmi, io tutta contenta mi faccio la croce! E quella donna, la mia morte, mi dice: "Mi dispiace, Luker'ja, ma non posso prenderti con me. Addio!". Dio mio, come diventai triste!... Le dico: "Prendimi, matuška, cara, prendimi!". E la mia morte si gira verso di me e comincia a rimproverarmi... Io capisco che sta fissando la mia ora, ma in maniera poco chiara, confusa...

Dopo Petrovki, mi dice. A questo punto mi sono svegliata. Ecco i sogni strani che faccio!».

Luker'ja alzò gli occhi al cielo... rimase pensierosa...

«Il guaio è che mi capita di stare una settimana intera senza addormentarmi mai. L'anno scorso passò una signora, mi vide e mi diede una boccetta di una medicina contro l'insonnia, mi disse di prenderne dieci gocce alla volta.

Mi ha fatto molto bene, dormivo, solo che ho finito la boccetta da un pezzo... Non sapete che medicina era e come si fa a procurarsela?».

Evidentemente quella signora di passaggio aveva dato l'oppio a Luker'ja. Le promisi di procurargliene una boccetta e ancora una volta non potei fare a meno di notare ad alta voce la sua pazienza.

«Eh, padrone!», replicò lei. «Ma che dite? Che pazienza e pazienza. Ecco Simeone lo Stilita aveva una grande pazienza: ha retto trent'anni su una colonna! E un santo chiese di essere sotterrato fino al petto e le formiche gli rosicchiavano la faccia... E un uomo che aveva letto molto me ne ha raccontata un'altra: c'era un paese che fu conquistato dagli agariani e questi torturavano e uccidevano tutti gli abitanti e per quanto facessero gli abitanti non riuscivano a liberarsi in nessun modo. Tra quegli abitanti compare una santa pulzella; prende una spada enorme, si mette addosso una corazza pesante due pudy, combatte contro gli agariani e li ricaccia tutti al di là del mare. Dopo averli cacciati, dice loro: "Adesso bruciatemi, perché ho fatto voto di morire al rogo per il mio popolo". E gli agariani la prendono e la bruciano e da quel momento il suo popolo fu libero per sempre! Questa sì che è un'impresa! Mentre io che faccio?».

Mi meravigliai tra me e me fin dove e in che forma si fosse diffusa la leggenda di Giovanna d'Arco e, dopo una breve pausa, domandai a Luker'ja quanti anni avesse.

«Ventotto... o ventinove... Trenta non li ho compiuti. A che serve contarli gli anni! Ecco che cosa vi dico...».

Luker'ja fece una tosse sorda, mandò un gemito...

«Stai parlando troppo», le dissi, «ti può far male».

«È vero», sussurrò lei con voce appena udibile, «finiamo qui la nostra conversazione, sia quel che sia! Quando ve ne sarete andato, starò zitta a volontà. Ma almeno mi sono sfogata...».

Presi a congedarmi da lei, le ribadii la promessa di mandarle la medicina, le chiesi di pensarci su per benino e dirmi se le occorresse qualcosa.

«Non mi occorre nulla, sono soddisfatta di tutto, grazie a Dio», rispose lei con grandissimo sforzo, tutta commossa. «Che Dio conceda a tutti la salute! Padrone, se voi poteste convincere vostra madre che i contadini qui sono poveri, se potesse diminuire anche di un po' il loro obrok! La terra non basta, non hanno altri poderi annessi...

Pregherebbero Dio per voi... A me non serve nulla, ho tutto ciò che mi serve».

Le detti la mia parola che avrei soddisfatto la sua richiesta, feci per andare alla porta... ma lei mi trattenne ancora.

«Vi ricordate», disse e un'espressione strana le balenò negli occhi e sulle labbra, «che treccia che avevo? Vi ricordate? Era lunga sino al ginocchio! Sono stata indecisa per molto tempo... Capelli così!... Ma come facevo a pettinarli? Nelle mie condizioni!... Così li ho tagliati... Sì... Ma, scusate, padrone... Non posso più...».

Quel giorno stesso, prima di andare a caccia, parlai di Luker'ja con la guardia della fattoria. Da lui venni a sapere che nel villaggio l'avevano soprannominata "Reliquia vivente" e che la poverina non recava mai alcun disturbo, da lei non si sentiva mai una lagnanza, mai un lamento. «Non chiede mai niente, al contrario è riconoscente per tutto.

Un cuorcontento, proprio un cuorcontento, bisogna dire così. Dio l'ha colpita», concluse la guardia, «dunque aveva peccato, ma questo non ci riguarda. Quanto a condannarla, no, noi certo non la condanniamo. Che viva in grazia di Dio!».

Alcune settimane dopo venni a sapere che Luker'ja era morta. La morte dunque era venuta a prenderla... e "dopo Petrovki". Si racconta che il giorno della sua morte avesse sentito suonare le campane per tutta la giornata, sebbene Alekseevka disti più di cinque verste dalla chiesa e fosse un giorno non festivo. Del resto, Luker'ja diceva che lo scampanio non proveniva dalla chiesa ma "dall'alto". Forse non osava dire "dal cielo".

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