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Ezra Pound, ovvero: per chi scrivono i poeti?

francesco lamendola Jul 30, 2022

di Francesco Lamendola

Accade che i poeti vedano le cose prima e più chiaramente dei cosiddetti esperti di politica, economia, teologia morale; le vedono quasi intuitivamente, dal loro particolare punto di vista, ma con un’ampiezza e una libertà sconosciute agli altri. Infine le vedono anche perché hanno studiato e riflettuto quanto gli altri, se non di più. Che i poeti vivano chiusi in un mondo artificiale, tutto loro, è un’idea falsa e fuorviante, figlia di un certo romanticismo esagerato e melodrammatico, ma ancor più di un illuminismo e di un positivismo ciechi e presuntuosi, tutti in bianco e nero: un’idea secondo la quale o si è poeti o si è persone pratiche, capaci di capire a fondo la realtà; mentre i poeti sanno solo sognare, fantasticare, sospirare, ma di economia, di politica, ecc., ne capiscono meno d’un bambino.

Non è necessariamente così: ci sono poeti e poeti. Esistono fondamentalmente due generi di poeti: Dante e Petrarca. I poeti come Dante sono nutrititi di filosofia e teologia, sono pieni di passione civile, scrivono poesie per aprire gli occhi ai contemporanei e per lasciare una testimonianza ai posteri: nulla di ciò che è autenticamente umano (come direbbe Terenzio) è ad essi estraneo, tutto li incuriosisce, li coinvolge, li sollecita. Amano profondamente la loro patria, la loro gente, tutto ciò che è tradizione: ma se la sorte li condanna all’esilio, fanno della propria casa il modo e continuano a scrivere poesie come prima, però avendo quale punto di riferimento l’eternità. Non hanno mai perso di vista l’essenziale, né prima né dopo l’evento che ha lacerato la loro vita e ha aperto loro nel cuore una ferita immedicabile: ma hanno un senso del dovere e della giustizia così alti che non resta loro tempo di lamentarsi: non si rivolgono più soltanto ai contemporanei, ma a tutte le generazioni che verranno, e hanno per testimonio Iddio. I poeti come Petrarca si nutrono solo ed esclusivamente del loro io: scrivono per se stessi, nel senso che parlano sempre e solo di sé, sperando tuttavia, e facendo di tutto, per piacere al pubblico; senza un pubblico non potrebbero vivere, più precisamente senza gli applausi e l‘ammirazione del pubblico. La poesia è per essi essenzialmente uno strumento di gratificazione: togliete loro il pubblico, mandateli in esilio, metteteli alla prova, e smetteranno di scrivere poesie, o ne scriveranno di mediocri. Non vedono il mondo, perché vedono ovunque solo specchi che riflettono la loro immagine: non vedono l’altro, non vedono la natura, fingono di parlare con Dio, mentre usano la parola Dio come l’ennesima proiezione del loro ego ipertrofico. Non conoscono l’amicizia perché non conoscono la serietà e la profondità dei sentimenti umani: sono tropo impegnati ad amare la propria immagine, come Narciso che non si stanca di contemplare se stesso nell’acqua.

A chi non vede, né comprende la differenza fra Dante e Petrarca (e a scuola non la insegnano) sfugge il fatto che vi sono due generi di poesia: una bella, utile e vera, perché saldamente ancorata agli uomini e alla vita; e un’altra bella e inutile, bella ma falsa, perché fatta di parole e non di cose, di sentimenti proclamati, esibiti ed ostentati, insieme a molte lacrime e sospiri, ma non realmente e autenticamente vissuti. Non vogliamo dire che sia tutta una finzione intenzionale; forse i primi ad auto-ingannarsi sono loro, i poeti di questo secondo genere: gemono e sospirano talmente forte che finiscono per convincersi di provare sentimenti autentici, e ne soffrono come se lo fossero. Ma non lo sono, perché questo genere di persone, che siano poeti o no, è algida, frigida, anaffettiva: del resto, darebbero dieci anni della loro vita in cambio del successo e della celebrità, che a parole – sempre parole! – disdegnano alteramente. Potremmo chiamarli fabbricanti di belle parole: in ciò sono bravissimi, insuperabili; peccato che dietro le loro belle parole e le loro immagini seducenti ci sia il nulla. Come dietro il sorriso di una donna bellissima che fa la misteriosa per rendersi interessante, ma che dopo due minuti di conversazione rivela il cervello d’una gallina e la sensibilità di un elefante.

Ezra Pound è un poeta nel senso dantesco; Eugenio Montale è un poeta nel senso petrarchesco. Come Dante, Pound è mosso da un profondo senso morale che nasce dalla simpatia per il mondo, per gli uomini, per tutte le cose della vita, e si alimenta alle sorgenti dell’Assoluto e dell’Eterno: il suo pubblico non è il pollaio dell’ora presente, ma la Verità. E se necessario, sa pagare il prezzo delle sue idee: non supplica comprensione e non chiede perdono dei suoi errori, ma va incontro al suo destino virilmente, a testa alta, senza rinnegare nemmeno una parola di quello che ha scritto, anzi rivendicando ogni verso, ogni concetto.

Ammiratore dell’Italia e della politica di Mussolini volta a dare all’Italia prosperità, pace interna e grandezza, Pound è stato il solo intellettuale che non abbia mutato parere dopo il 1945 (Mussolini?, un grande uomo, diceva, se interrogato, nelle interviste rilasciate dopo l’uscita dall’ospedale psichiatrico giudiziario); il solo che abbia speso dei versi pietosi per il Duce, osannato dalle masse per due decenni e poi abbandonato, maledetto, ricoperto di sputi e peggio, da una folla imbestialita. Sentite questi versi generosi - generosi anche perché scontati con dodici anni di manicomio criminale, dopo essere stato rinchiuso in una gabbia di ferro, come le bestie feroci, sotto il sole e la pioggia -  intitolati Piazzale Loreto:

Oh, la tragedia del gran sogno infranto

Nelle spalle curvate del profeta

Contadino che aveva nome Mani!

Mani fu ucciso e dopo fu impagliato.

Altro Mani ora Ben per i calcagni,

appeso con la Clara ora a Milano,

pei calcagni a Milano: e si era visto

tante volte un torello ingrassar vermi

morto: ma un uomo no, non si era visto

nei secoli due volte crocifisso.

Ci voleva un poeta straniero, un poeta americano della razza di Dante, per scrivere parole così accorate, così oneste, quale epitaffio dell’uomo che ha fatto sognare gli italiani ed è stato amato come nessun altro mai, né prima né dopo, perché a sua volta li amava, gli italiani, come nessun altro, fino a dare la vita per essi e proprio per mano loro: la similitudine con l’antico profeta crocifisso è quanto mai calzante. Nessun poeta italiano ha saputo trovare per lui nemmeno una parola, non diciamo di simpatia e di equanimità, ma neppure di umana pietà: è stato, da allora, il maledetto per antonomasia, immeritevole di quel rispetto che suscitano anche i peggiori criminali, quando passano al giudizio dell’eternità.

Dai poeti italiani, botoli vili e ringhiosi, solo contumelie e parole di disprezzo: valga per tutti il caso di Carlo Emilio Gadda, il quale nel pamphlet satirico Eros e Priapo non si vergogna di dare sfogo a tutto il suo astio meschino, insultando il morto senza accorgersi di avvilire solamente se stesso (cfr. il nostro articolo: Nausea dell’esistenza e bassezza morale nell’opera di un falso “grande” della letteratura: Carlo Emilio Gadda, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 12/05/10 e sul sito del Centro Studi La Runa il 18/05/10). E quanto a Eugenio Montale, non c’è molto di cui possa vantarsi in quanto antifascista: se è vero che fu  protetto, in tempi politicamente difficili, dal pittore fascista Ottone Rosai e poi, quando il  vento cambiò e i tempi difficili arrivarono per i fascisti, non seppe far di meglio che sbattere la porta in faccia al suo ex amico e protettore il quale, a sua volta, era venuto a bussare da lui per chiedere aiuto.

Dunque, i poeti come Dante sanno vedere oltre l’immediato e il contingente, e abbracciano con un solo colpo d’occhio i secoli e le generazioni a venire. Uno di questo è stato Ezra Pound, americano di nascita, europeo per vocazione e italiano per amore irrefrenabile del bello, della tradizione, della classicità e di tutto ciò che la civiltà nostra ha prodotto spontaneamente e gratuitamente, non per calcolo o interesse; e dunque anche nemico dichiarato e implacabile dell’Usura, da lui vista come la peste dell’umanità e la negazione radicale di tutti i valori morali e civili, una forza sterile che sa solo divorare e distruggere e si oppone al bello e al giusto, come la lupa insaziabile di dantesca memoria. Una presa di posizione, la sua, aggravata dall’impenitenza finale, ossia dal rifiuto di fare ammenda dinanzi ai vincitori, che doveva costargli una durissima rappresaglia da parte del suo stesso governo e la sprezzante indifferenza della cultura italiana, “rinata” dopo la cosiddetta Liberazione del 1945 e più che mai desiderosa di rifarsi una verginità ideologica facendo terra bruciata intorno a tutto ciò che rappresentava un ricordo dell’esecrabile passato fascista e della ventennale dittatura.

Citiamo una pagina, esemplare nella sua chiarezza, del poeta, critico letterario e dantista Vittorio Vettori (Strada in Casentino, Arezzo, 24 dicembre 1920-Firenze, 10 febbraio 2004), dedicata a questo tema, tratta dal suo volume Ezra Pound e il senso dell’America (Roma, Ersi Editrice, 1975, pp. 49-51):

Non si creda che il grande interesse per l’economia monetaria costituisca una stravaganza di Pound: per lui lo studio dell’economia monetaria  è importante perché, come testualmente afferma  egli stesso, «ci conduce alla contemplazione della giustizia». La giustizia: ecco la grande passione che affratella Pound e Dante. E, se la “Commedia” può essere definita non a torto il poema della giustizia, la qualità dantesca dei “Cantos” sta in questo, che essi pure, arroccati caparbiamente nell’occhio del ciclone da cui siamo stati tutti investiti, vogliono essere e sono un poema della giustizia. A proposito di Pound competente di economia, c’è un episodio narrato da Ardengo Soffici (nel numero speciale di “Stagione” dedicato a Pound, II, 7, 1955), episodio che non sarà inutile (almeno speriamolo) riproporre all’attenzione di tanti che amano scherzare sulla pretesa ingenuità  e sul preteso velleitarismo dei poeti: «Durante la guerra Ezra Pound, parlando con Pelizzi, si meravigliò che gli Italiani, allora a corto di olio, non pensassero a coltivare arachidi, specie sul litorale versiliano, terreno sabbioso ideale per averne un raccolto abbondante ed ottimo. La idea parve allora stravagante; ma in questi ultimi anni ho visto che nel piano che si stende tra il mare del Forte dei Marmi e le Apuane sono larghi e fertilissimi campi di tale pianta. Non solo, ma ne ho notati molti anche nella pianura, anticamente acquitrinosa, intorno al mio Poggio a Caiano. Il che prova ancora una volta che i poeti hanno davvero sempre ragione».

Tornando all’economia monetaria, in cui massimamente si è esercitata l’indagine di Pound, non c’è in tale campo voce così penetrante e inquietante come quella di Pound.

Egli sa che «tutto il commercio passa attraverso la moneta: e la moneta è il perno». Egli afferma che «la moneta è in primo luogo uno strumento della volontà», e che la disumana ambizione dei finanzieri non ha diritto di bloccare la volontà delle nazioni per secoli, imponendo la dominazione mondiale dei grandi monopoli e traducendo sistematicamente l’originaria democrazia jeffersoniana in un regime di mostruosa usurocrazia.L’usura: ecco il nemico. Il richiamo a Jefferson, a Frankin, a John Adams, torna nelle pagine di Pound con significativa frequenza. La grande rivoluzione americana del 1776 gli è sempre nel cuore. E sentite con che incisiva, potente semplicità riesce a descrivere la prima democrazia americana: «Un manipolo di gente, vivendo di poco e non indebitandosi, potò in America e colà conservò un cultura piuttosto alta e severa ed un senso civico nutrito delle tradizioni della libertà legale inglese, cioè di una conquista secolare dove convergono le tradizioni delle tribù del Nord Europa e il diritto romano».E ancora: «Pare che sino ai tempi della guerra di secessione il pubblico s’interessasse ai dibattiti del Congresso… Anche oggi è possibile dire delle verità in seno alle Camere, ma il pubblico è stato distratto».

Il peccato capitale dell’epoca è dunque l’usura; e l‘usura ha in Pound un nome dantesco, che è precisamente “avarizia”: «La moneta non è la radice del male. La radice è l’avarizia, la brama del monopolio». Dantesca è pure la predilezione di Pound per l’Italia, giardino di un Impero ideale slargato sino ai confini del mondo.

Dall’Italia Pound si rivolge al cuore delle nazioni e delle civiltà, in un richiamo alla luce e alla forza delle sorgenti, nel quale Dante e Machiavelli, l’eroe d’Omero e quello del Rinascimento, Catullo e Camoens, i Trovatori e il Cid, Heine e Browning, insomma i rappresentanti più tipici della cultura europea, brillano accanto all’estremo Occidente degli Adams e all’estremo Oriente di Confucio. A Pound va riconosciuto il merito grande di avere, nel vivo della sua polemica contro l’Usura, puntualizzato i termini di quel necessario “paideuma” o indirizzo educativo, senza di cui nessun mutamento politico e sociale potrà risultare utile ed efficiente.

Ed è degno di nota che la pubblicazione poundiana di certi testi di Confucio sia stata a suo tempo segnalata sul “Mondo” di Mario Pannunzio così: «Direi che l’utilità di questi bellissimi testi valga per tutti noi…; in periodo di elezioni non sarebbe male che i partiti si accordassero per stamparne qualche centinaio di migliaia di copie».

Altrettanta diffusione meriterebbero una domanda e una osservazione di Pound, pertinenti alla natura del ciclone nel cui “occhio” il poeta ha eletto la sua dimora.

Ecco la domanda: «Ai liberali (che non sono tutti usurai) domandiamo: perché gli usurai sono tutti liberali?». Ed ecco l’osservazione: «Il liberalismo e il bolscevismo si accordano intimamente nel loro disprezzo fondamentale della personalità umana. Stalin comanda quaranta vagoni di materia umana per i lavori di un canale. I liberali finiscono per parlare di esportazione di mano d’opera».

Ezra Pound, nei suoi Cantos, che hanno il respiro “cosmico” e la terribile profondità etica della Commedia dantesca (e dunque sono l’opposto della seriosità posticcia e della reale fatuità narcisista del Canzoniere petrarchesco), ha celebrato il suo amore per il bello, il vero, il buono ere quindi per l’Italia: un’Italia da lui tanto amata che volle trascorrervi gli ultimi anni (si è spento a Venezia, la Venezia di John Ruskin, il 1° novembre 1972). Gli intellettuali italiani progressisti, brutta razza di eterni camerieri del vincitore, a stento si erano accorti di lui ed erano arrivati in qualche modo, bontà loro, a tollerarlo come un vecchio strano e mezzo matto. Solo con mille riserve e mille distinguo avevano riconosciuto la sua grandezza poetica, seguitando però a rimproverargli i suoi trascorsi fascisti: e questo benché, a rigore, Ezra Pound fascista non lo sia stato mai, ma solo e unicamente ammiratore di Mussolini e disperatamente innamorato dell’Italia come portatrice di valori eterni. Non certo l’Italietta di Badoglio uscita, con infamia, dal doppio tradimento – verso l’alleato e verso se stessa – dell’8 settembre 1943: quella Italietta che da allora ha seguitato a vivacchiare, ultima in Europa anche sul piano culturale, nutrendosi d’infamia e conformismo, e alimentando un tenacissimo odio verso i vinti, che prosegue da circa un secolo sotto il nome ipocrita di antifascismo…

 

 

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