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FEMMINICIDIO, PATRIARCATO, FEDE

andrea di napoli Apr 09, 2024

di Andrea Di Napoli

Cari lettori,

in questo articolo intendo estrinsecare quello che è il mio pensiero circa le tematiche: femminicidio, patriarcato e fede. Ciò che riporterò rispecchia, ovviamente, le mie convinzioni, la mia personale formazione, la mia precisa identità; tuttavia cercherò, come sempre, di affrontare l’argomento nel modo più oggettivo possibile, tenendo in strettissima considerazione elementi storici, antropologici e culturali. L’astrusità congetturale del femminicidio e, per converso, la manifestazione empirica del patriarcato e della fede si inseriscono induttivamente in uno scenario universalmente eterogeneo ed assai complesso. Risulta, dunque, riduttivo trattare una tematica così assai generale, attraverso un’analitica contestualizzazione ad personam. La frequenza con la quale questi tre temi vengono unitamente presentati, piuttosto, consente di cogliere una celata ma altrettanto esatta teorizzazione sovraordinata [ecco il metodo induttivo, dal particolare al generale]. Tutti gli episodi di violenza, di ferocia, di sopraffazione, di oppressione hanno evidentemente un comune denominatore, sono tra loro interrelati da una nitida metodologia: scaturiscono, difatti, da un coscienzioso allontanamento dal Vero, dal Buono, dal Bello [La vita deve essere indirizzata alla Verità. Vitam inpendere Vero - Giovenale]. E, oltre a questa sensibile privazione situazionale, purtroppo si aggiunge anche un assai più grave sentimento di rifiuto, di avversione, di ostilità contro questa suddetta triade necessaria [Vero-Buono-Bello]. Già Sant’Agostino intendeva il male come una privazione del Bene. Il male non è una realtà ontologicamente di per se stessa sussistente; al contrario, esso [il male] si manifesta allorquando si decida di fuggire il Bene, il Sommo Bene, Gesù Cristo. Come il buio è meramente perdita di luce, è allontanamento da una fonte luminosa, così il male è assenza di Bene; il male è, per dirla con una litòte, non-Bene. Se si decide di vivere una vita indifferente al Bene, o addirittura contraria al Bene stesso, occorre sapere che implicitamente si stia optando per il non-Bene, dunque per il male e per le sue nefande conseguenze. Purtroppo, o per fortuna, tertium non datur [“qui non est mecum, contra me est”. Mt 12,22-30]. Spesso, l’uomo della strada [ovvero, l’uomo scarsamente strutturato nella propria autocoscienza] tende a collegare disordinatamente le suddette tre tematiche, arrivando così a delle deduzioni imprepensabili. Deduzioni, invece, che il mainstream repentinamente assorbe e manipola, nel solo ed unico tentativo di danneggiare quel poco di sano che ancora sopravvive nelle nostre società. Entrando nel merito della trattazione, chiede necessariamente di essere chiarita la fenomenologia dell’assai poco probabile femminicidio. Esiste davvero il femminicidio? O si tratta di una ridicola strategia linguistico-ideologica, attraverso cui propagandare altro? Occorre subito dire che esista l’homicidium, ovvero l’uccisione dell’uomo in quanto persona, e non in quanto uomo. Con “uomo” si è sempre giustamente inteso anche il genere femminile. Il termine “uomo” intende la persona, cioè l’essere umano, l’essere uomo [basti considerare l’Umanesimo, ovvero quella corrente culturale antropocentrica, che poneva l’uomo - cioè l’essere umano - al centro dell’universo]. Il fenomeno femminicidio, in termini tecnico-razionali e non emotivo-sentimentali, non può esistere, giacché significherebbe banalizzare l’uccisione di un uomo, in quanto proprio biologicamente uomo [cioè sessualmente inteso, maschio]. In tal caso, si assisterebbe ad una stigmatizzazione sociale della figura maschile, la quale andrebbe a patire una sorta di deminutio rispetto alla figura femminile [sessualmente intesa]. Le società contemporanee bramano di passare alla storia per le loro pseudo conquiste identitarie: “l’uomo e la donna debbono godere di pari diritti e pari opportunità!” – si sente esclamare. Dunque, non può esserci una categoria ermeneutica che garantisca unilateralmente una sola delle due potenze [uomo/donna. Femminicidio = categoria pro donna]. Un’evenienza del genere paradossalmente destabilizzerebbe [il già collaudato rovesciamento dei rapporti di predicazione rivoluzionario] quanto fin d’ora dal mainstream raccontatoci: ovvero, che occorra essere inclusivi verso qualsiasi minoranza e specialità. Evidentemente, è necessario essere inclusivi anche nei confronti dell’altra potenza [l’uomo]. Altrimenti, si avrebbe un’operazionalizzazione del concetto di “inclusività” alterata: la donna, da parte debole diverrebbe parte dominante, e l’uomo, da parte dominante diverrebbe parte debole. Se si accetta che possa esistere il femminicidio [meramente sul piano dell’astrazione], necessariamente deve essere accettata l’idea che la donna sia ancora succube dell’uomo. Ma ciò farebbe a cazzotti con tutti quegli slogan femministi, dalle cui approssimazioni parrebbe essere stato raggiunto un preciso traguardo di emancipazione della donna stessa. Allora, delle due, l’una: o la donna moderna/contemporanea si è emancipata ed evidentemente non può essere più vista come parte debole; oppure, la donna non pretende alcuna emancipazione perché non patisce alcun sentimento di subordinazione. Nel primo caso, la categorizzazione di femminicidio sarebbe atipica, giacché non può darsi grado di straordinarietà a ciò che sia ordinario [uomo e donna a pari livello]; nel secondo caso, addirittura, non si potrebbe neanche pensare ad una prassi contestuale di femminicidio. Il femminicidio è la negazione sostanziale di qualsiasi conquista che il genere femminile abbia mai guadagnato nella storia. La teoria di femminicidio desidera ab intra una donna subalterna, sottomessa, dominata, la cui zavorra risieda proprio in questa stessa precisa ed infondata costruzione teoretica. Inoltre, occorre chiarificare quali siano le possibili dinamiche procedurali attraverso le quali il fenomeno femminicidio si reifichi. Quando, sempre per astrazione, si potrebbe parlare di femminicidio? Se una donna uccide un’altra donna, è da ritenersi femminicidio? In termini tecnico-etimologici rivoluzionari, assolutamente sì. Se un/una folle entra in una tabaccheria e, dopo aver preso il misero bottino, uccide la stessa proprietaria, è da ritenersi femminicidio? Sempre in termini tecnico-etimologici rivoluzionari, assolutamente sì. Se uno/una psicopatico/a piazza un potente esplosivo in uno studentato femminile ed ammazza tutte le corsiste, è da ritenersi femminicidio? Ancora una volta, sempre in termini tecnico-etimologici rivoluzionari, assolutamente sì. Attraverso questi tre esempi, si può concludere che la fenomenologia del femminicidio non possa essere unilateralmente applicata alla condotta di un uomo violento. Queste tre casistiche, non affatto peregrine, dimostrano che il fenomeno femminicidio possa realizzarsi anche per mano di una stessa donna [il carnefice è potenzialmente una donna e la vittima è una donna]. Oltremodo, assai facilmente si deduce che il fenomeno femminicidio possa verificarsi anche in contesti privi di elementi sentimentali, relazionali [vedasi i precedenti tre esempi, dove la vittima - non essendo specificato - non è legata affettivamente al carnefice]. Se la vittima [una donna] ed il carnefice [un uomo o una donna] non sono legati da una relazione sentimentale [è bene precisare che le relazioni omosessuali gridano vendetta al cospetto di Dio], è da ritenersi sempre femminicidio? Perché l’opinione pubblica [corroborata da precisi atti normativi] intende presuntivamente il femminicidio come un fenomeno ascritto in categorie amorose, sentimentali? Come si è dimostrato, tecnicamente non è così! Ma se fosse mai così, avremmo dei falsi amori. E come potrebbe l’Amore [Agàpe - ὁ θεòς ἀγάπη ἐστίν, Dio è amore -] spingere una persona a commettere un omicidio [cioè l’uccisione di un essere umano, uomo/donna]? Evidentemente, ci sono delle relazioni che non si lasciano sublimare da quella triade necessaria [Vero, Buono, Bello], di cui si è parlato in principio. A questo punto, entra vigorosamente in campo il terzo elemento: la fede. Tutte le associazioni femministe [o, semplicemente, tutti quei gruppi che dicono di spendersi in nome di una filantropia sempre più latente], che scendono in piazza presumendo di rivendicare diritti [a parer loro] negati, sono mosse da un solo ed unico intento: demonizzare e demolire l’impianto valoriale tradizionale, cristiano. Difatti, queste insipienti donne [incoraggiate delle volte anche da uomini-molluschi] tracotantemente gridano: “non sono nata dalla costola di nessuno”, alludendo [contrariamente ed insolentemente, però] ai versi autorevoli di Genesi 2, 21-22. La donna moderna/contemporanea [perché a sua volta vittima di un preciso intento di scristianizzazione] non accetta la valenza fondativa ed inerrante dell’Actoritas, del τὸ Βιβλίον. L’essere umano moderno/contemporaneo si è di fatto sostituito a Dio, arrivando ad adorare se stesso. Difatti, le pretese avanzate hanno tutte la medesima metodicità: far valere i diritti dell’uomo [essere umano], calpestando quelli di Dio [vedasi i vari fenomeni anticristiani, quali: aborto, eutanasia, divorzio, omosessualismo, teoria gender, rapporti prematrimoniali ed altro]. Queste donne così emancipate, ma intellettualmente scarsissime, ignorano che sia stato proprio Gesù Cristo a riabilitare la figura stessa della donna, riconoscendole un’esatta dignità. Era nel mondo pagano [ed ancora oggi nel mondo islamico] che la donna patisse una violenta subordinazione nei confronti dell’uomo. Basti considerare l’episodio, presente nell’Iliade, relativo alla figura di Criseide. Criseide, figlia di Crise, era il γερας [preda, bottino di guerra] di Agamennone. La donna, dunque, senza la figura gloriosa di Nostro Signore Gesù Cristo, sarebbe rimasta ancora oggi mera merce di scambio [lo stesso vale anche per l’uomo].  È chiarissimo, oramai, che dietro questi blasfemi ed imprudenti slogan si celi una precisa regia: quella massonico-mondialista, global-sincretista delle sinarchie oligarchiche, che vorrebbero annichilare la figura gerarchica [dal greco, ἱεραρχία - ἱερός, sacro e ἀρχή, principio] del Pater. Dio Padre, la prima ipostasi della Santissima Trinità, ha ontologicamente fondato la realtà del Patriarcato. Volendo portare un sintetico exemplum, basti considerare la figura di San Giuseppe, del glorioso Patriarca San Giuseppe. Negare il fenomeno patriarcato, nel tentativo subdolo di sostituirlo con quello del femminicidio, significa apostatare dalla fede cattolica. La dimensione patriarcale, se sana e rispettosa degli insegnamenti divini, collabora alla consolidazione degli elementi tradizionali nelle nostre società. Come mai la Parola inerrante di Dio viene manipolata ed accusata di non essere al passo con la contemporaneità, mentre un certo Gabriele D’Annunzio viene insegnato nei Licei e nelle Università? Questi, ne Il Piacere [libro I, cap. II], scrive che “la regola dell’uomo d’intelletto è: habere non haberi”, dove l’espressione latina, al netto degli inutili sforzi esegetici giustificativi postumi, sta univocamente a significare una reale [cioè, fisica] sottomissione della donna all’uomo. Allora, D’Annunzio sì, perché difensore di quell’edonismo rivoluzionario tanto ricercato, sebbene però conducente alla perdizione; mentre Gesù Cristo no, perché il Suo Ordine [patriarcale] e la Sua Santa Croce appaiono essere demotivanti ed “all’antica”. A questo punto, non resta che rincuorarsi con un distaccato “ognuno ha ciò che merita”.

SOLO NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO CI CONSENTE DI ESSERE VERI UOMINI.

LAUDETUR JESUS CHRISTUS

Andrea

 

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