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Kennedy, Krusciov e Giovanni XXIII: storia di una pace inaspettata

guerra guerra nucleare Mar 31, 2022

da Redazione Blog di Sabino Paciolla

Nel 1962, con la crisi di Cuba, il mondo precipita verso la guerra nucleare. La catastrofe viene evitata solo grazie alla decisione dei due leader, John F. Kennedy e Nikita Krusciov, di fidarsi l’uno dell’altro contro il parere dei rispettivi consiglieri. Da dove trassero ispirazione per un atto così coraggioso? Quale influenza ebbero Giovanni XXIII e il suo messaggio di pace e di rinnovamento? E quali legami possiamo rintracciare tra quella decisione di pace e il successivo assassinio di Kennedy? In momenti cruciali una singola persona può fare la differenza, a condizione che se ne sia costruita la possibilità, ma non senza accettare di farsi carico delle conseguenze delle proprie scelte.

Di seguito un articolo di James W. Douglass apparso sul Aggiornamenti Sociali

Il giorno in cui il presidente John Fitzgerald Kennedy fu assassinato, un seminarista del Verbo Divino salì il colle dove si trovava l’appartamento della nostra famiglia a Roma per portare a mia moglie Sally e a me la terribile notizia. In cerca di una parola di sapienza e conforto, scrissi a Dorothy Day, che era stata da noi la primavera precedente in occasione di un pellegrinaggio a Roma per ringraziare papa Giovanni XXIII per la Pacem in terris (1963), un’enciclica epocale sulla pace globale e sui diritti civili.

Dorothy mi rispose suggerendomi di puntare la mia attenzione sulla vita di Kennedy, raccomandandomi di leggere una sua biografia. Disse che, in un contesto di violenza inarrestabile, avrebbe rivolto le sue preghiere a John F. Kennedy (sottolineando quella “a”) e mi incoraggiò a riflettere sulle parole di san Paolo: «noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (Romani 8,28).

Nel novembre del 1963 ero a Roma, impegnato a cercare di convincere i Padri conciliari a condannare la guerra totale e a sostenere l’obiezione di coscienza. Traendo ispirazione dall’appello di papa Giovanni per la fiducia reciproca tra i rivali della guerra fredda, avevo scritto sul quotidiano The Catholic Worker che Kennedy avrebbe dovuto risolvere la crisi dei missili cubani grazie a uno scambio (impensabile dal punto di vista politico) di basi missilistiche con il premier sovietico Nikita Krusciov.

All’epoca non avevo alcun sospetto che Kennedy in segreto avesse davvero compiuto questo grande passo verso Krusciov, nello stesso momento in cui si impegnava pubblicamente a non invadere Cuba, fatto che fece infuriare il suo Stato maggiore. A causa della svolta per la pace con i nemici comunisti, annunciata il 10 giugno 1963 nel discorso all’American University, Kennedy mise a repentaglio la propria vita, come poco tempo prima aveva inconsapevolmente profetizzato il monaco trappista e scrittore americano Thomas Merton (1915-1968). Nel gennaio del 1962 Merton scriveva a un amico di nutrire «scarsa fiducia» nelle capacità di Kennedy di sfuggire alla crisi nucleare, poiché non possedeva le necessarie doti di profondità, umanità, altruismo e pietà. «Forse Kennedy ce la farà in futuro, per miracolo – scriveva Merton –, ma questo genere di persone diventa presto il bersaglio di un omicidio politico».


L’opposizione interna
Trent’anni più tardi mi sono deciso finalmente a prendere sul serio le parole di Dorothy Day e mi sono dedicato a studiare nei dettagli la vita e la morte di Kennedy. Per dodici anni ho esaminato i documenti della sicurezza nazionale riguardanti i momenti di crisi da lui attraversati nel corso della guerra fredda, specialmente quelli resi pubblici dal Congresso attraverso il President John F. Kennedy Assassination Records Collection Act del 1992. Rintracciai e intervistai alcuni testimoni del suo assassinio e cominciai a intuire la luce di redenzione degli eventi di Dallas che Dorothy aveva percepito nel novembre del 1963 grazie al suo amore per Dio.

Cercare nelle profondità di un male sistemico la luce che Merton definiva «the Unspeakable» (l’indicibile, l’inesplicabile), descritta nella sua opera Raids on the Unspeakable (MERTON T., Raids on the Unspeakable, New Directions Books, New York. 1966), ci porta a una sorta di racconto evangelico. Kennedy stava imparando a vedere attraverso gli occhi dei suoi avversari comunisti. Con grande rischio personale, si stava muovendo dalla guerra verso la costruzione della pace. Rimasi profondamente sorpreso dalla storia pervasa di grazia di un Presidente degli Stati Uniti che sceglie la pace a rischio della sua stessa vita.

Il mistero che avvolge l’assassinio di Kennedy si estende fino a una riunione del 19 ottobre 1962, durante la crisi dei missili di Cuba, in cui il Presidente si oppose alle pressioni dei suoi capi di Stato maggiore che chiedevano di bombardare e invadere Cuba. Quando abbandonò la stanza, un registratore nascosto continuò a funzionare, catturando il disprezzo dei generali verso il Presidente e la loro determinazione di portare il conflitto fino alla guerra nucleare totale. Volevano vincere la guerra fredda.

Il generale Curtis E. LeMay, capo di Stato maggiore dell’aviazione, mise in atto tale intenzione. In piena crisi cubana, ordinò ai suoi bombardieri, armati di testate nucleari, di superare il punto di inversione di rotta verso l’Unione Sovietica e di lanciare un missile balistico di prova, per provocare la reazione avversaria che, a sua volta, avrebbe scatenato un attacco nucleare totale da parte delle superiori forze statunitensi. Fortunatamente i sovietici non abboccarono.

Il mistero che circonda i fatti di Dallas risale ancora più indietro, alla fallita invasione della Baia dei Porci nell’aprile del 1961 da parte di esuli cubani addestrati dalla CIA (Central Intelligence Agency, i servizi segreti statunitensi). In seguito Kennedy si rese conto che la CIA lo aveva ingannato riguardo l’imminente sollevazione popolare cubana contro Fidel Castro e sulla guerriglia che la brigata degli esuli cubani avrebbe scatenato. Avevano tentato di costringere il Presidente ad autorizzare l’invasione da parte di forze d’assalto per salvare la situazione. Kennedy, invece, ebbe il coraggio di accettare la disfatta. Come egli stesso ebbe modo di raccontare più tardi agli amici, «Non riuscivano a credere che un Presidente nuovo come me potesse non farsi prendere dal panico e non cercasse almeno di salvare la faccia. Bene, non avevano capito nulla di me». Kennedy era furioso con la CIA per l’incidente. In seguito il New York Times riportò che Kennedy disse a uno dei più alti funzionari della sua amministrazione di voler «ridurre la CIA in mille pezzi e gettarli al vento».

Effettivamente, Kennedy aveva licenziato il direttore della CIA Allen Dulles e i suoi vice, Richard M. Bissell Jr. e il generale Charles P. Cabell. Probabilmente Allen Dulles era il personaggio più potente coinvolto nella guerra fredda. Ritornò al potere come membro della Commissione Warren, incaricata di investigare sull’attentato di Dallas, e nel 1964 la spinse ad adottare la conclusione dell’assassino isolato.

Costruire una relazione
Durante la crisi dei missili, Kennedy si convertì alla pace. Quando si giunse al punto di rottura del terribile conflitto che le sue stesse politiche contro Fidel Castro avevano contribuito a fare precipitare, egli cercò una via d’uscita, che i suoi generali giudicarono assolutamente imperdonabile. Non soltanto respinse le loro pressioni per attaccare Cuba e l’Unione Sovietica: peggio ancora, si rivolse al nemico in cerca di aiuto. Lo si poteva considerare un atto di tradimento. Krusciov invece lo vide come un segno di speranza.

Robert F. Kennedy, allora Procuratore generale e responsabile del Ministero della Giustizia, aveva segretamente incontrato, il 27 ottobre 1962 a Washington, l’ambasciatore sovietico Anatoly Dobrynin, avvertendolo che il Presidente stava per perdere il controllo dei suoi generali e aveva bisogno dell’aiuto dei sovietici. Quando Krusciov ricevette l’appello di Kennedy a Mosca, si rivolse al suo ministro degli esteri, Andrei Gromyko, dicendo: «Dobbiamo far sapere a Kennedy che vogliamo aiutarlo». Krusciov esitò all’idea di aiutare il nemico, ma ripeté: «Sì, aiutiamolo. Ora abbiamo una causa comune, salvare il mondo da coloro che ci stanno spingendo verso la guerra».

Come possiamo riuscire a comprendere quel momento? I due leader più pesantemente armati di tutta la storia, sull’orlo della guerra nucleare totale, improvvisamente si diedero la mano per opporsi a coloro che, da entrambe le parti, li spingevano ad attaccare. Krusciov ordinò l’immediato ritiro dei suoi missili, in cambio dell’impegno pubblico di Kennedy a non invadere Cuba e della promessa segreta di ritirare i missili americani dalla Turchia, come avrebbe poi effettivamente fatto. I due protagonisti della guerra fredda erano cambiati; ciascuno aveva a questo punto molto più in comune con l’avversario che con i suoi generali.

Né Kennedy, né Krusciov erano dei santi. Entrambi erano profondamente coinvolti nelle scelte politiche che condussero l’umanità sull’orlo della guerra nucleare. Ma quando incontrarono ciò che Thomas Merton definiva «il vuoto di Ciò che non è esprimibile», ciascuno cercò aiuto nell’altro. Così, portarono l’umanità verso la speranza di un pianeta pacifico.

La genesi della trasformazione di Kennedy e di Krusciov in occasione della crisi dei missili si trova nella loro corrispondenza segreta, iniziata circa un anno prima. Dopo il loro fallito incontro di Vienna nel giugno del 1961, il 29 settembre dello stesso anno Krusciov scrisse una lettera epocale al Presidente americano. Per far capire il nucleo del suo messaggio, il leader comunista fece ricorso a una analogia tratta dalla Bibbia, paragonando la sua situazione e quella di Kennedy all’arca di Noè. Così scriveva: «Nell’arca di Noè trovarono riparo e scampo sia i “puri” che gli “impuri”. Ma, a prescindere da chi si considerava “puro” e da chi invece faceva parte della lista degli “impuri”, tutti avevano ugualmente a cuore una sola cosa, che l’arca potesse continuare con successo il suo viaggio. Anche noi non abbiamo altra alternativa: o viviamo in pace, collaborando affinché l’arca possa continuare a galleggiare, oppure essa andrà a fondo».
Kennedy rispose il 16 ottobre: «Mi piace molto la similitudine con l’arca di Noè, dove “puri” e “impuri” sono ugualmente determinati a mantenerla a galla».
Così, attraverso la loro corrispondenza segreta, i due uomini lottarono per raggiungere una migliore conoscenza reciproca e una maggiore comprensione delle loro diversità. La crisi dei missili cubani un anno più tardi provò che non avevano affatto risolto i loro conflitti, eppure fu proprio grazie alle lettere segrete che ciascuno dei due comprese che l’altro era un essere umano degno di rispetto. Sapevano anche di essersi trovati d’accordo già una volta su una cosa: che il mondo era un’arca. Dovevano tenere l’arca a galla. E ci riuscirono, proprio nel momento di maggior pericolo.

La mutua ricerca della pace
Dopo che Kennedy e Krusciov si allearono nella crisi dei missili, cominciarono a “cospirare” per mantenere la pace. L’acme fu il discorso di Kennedy all’American University nel giugno del 1963. Presentò la sua visione della pace come risposta alle sofferenze patite dal popolo russo nel corso della Seconda guerra mondiale, riuscendo così a superare il solco che divideva i due avversari. Krusciov in seguito avrebbe detto al diplomatico americano W. Averell Harriman che «si era trattato del più grande discorso tenuto da un Presidente americano dai tempi di Roosevelt».

L’annuncio, dato da Kennedy in quella occasione, della cessazione unilaterale degli esperimenti nucleari nell’atmosfera e la speranza espressa in vista dei negoziati per un trattato a Mosca aprirono la porta. Nel giro di sei settimane, Kennedy e Krusciov firmarono il Partial Nuclear Test Ban Treaty (Trattato sulla messa al bando parziale dei test nucleari). Era un segno che confermava la loro volontà comune di porre fine alla guerra fredda.

Un altro segno fu il consiglio di Krusciov a Fidel Castro di cominciare a collaborare con Kennedy. Castro si era infuriato perché Krusciov aveva ritirato i missili all’ultimo momento senza consultare l’alleato cubano, in cambio solo della promessa di un capitalista. Il 31 gennaio 1963 Krusciov scrisse a Castro per cercare la riconciliazione e la pace con l’alleato cubano, una lettera che corrispondeva a quella dell’arca di Noè inviata a Kennedy. Castro accettò l’invito a recarsi in Unione Sovietica.

La visita di Castro a Krusciov si svolse nei mesi di maggio e giugno 1963. I due leader viaggiarono insieme visitando l’Unione Sovietica. Castro riferì in seguito che Krusciov gli impartì un vero e proprio corso di formazione sulla necessità di dare fiducia a Kennedy. Giorno dopo giorno, Krusciov leggeva a voce alta a Castro la corrispondenza con Kennedy, ponendo l’accento sulla speranza di pace che ora potevano nutrire grazie alla collaborazione con il Presidente degli Stati Uniti.

Krusciov stava mettendo in pratica quanto papa Giovanni – che il leader comunista aveva imparato ad amare – aveva raccomandato nella Pacem in terris, quando scriveva «al criterio della pace che si regge sull’equilibrio degli armamenti, si sostituisca il principio che la vera pace si può costruire soltanto nella vicendevole fiducia» (n. 61). Il Pontefice aveva inviato a Krusciov una medaglia papale e una copia in russo dell’enciclica sulla pace, precedente la pubblicazione ufficiale. Krusciov ne fu commosso.

Nel settembre del 1963 Kennedy fece un altro enorme passo verso la fiducia reciproca, intesa come nuova base per la paceIniziò un segreto dialogo con Fidel Castro, attraverso il diplomatico americano William Attwood, in servizio presso le Nazioni Unite, allo scopo di normalizzare le relazioni tra Stati Uniti e Cuba. Castro reagì con entusiasmo e iniziò a stringere accordi segreti per incontrare Attwood. Kennedy diede una forte spinta a tutto il processo ricorrendo a un canale ufficioso e riservato per comunicare con Castro. Il suo rappresentante non ufficiale, il corrispondente francese Jean Daniel, era impegnato nel secondo incontro con Castro il pomeriggio del 22 novembre 1963, quando li raggiunse la notizia della morte del Presidente. Castro si alzò in piedi, guardò Daniel e disse: «Tutto è cambiato. Tutto cambierà». Anche il dialogo tra Stati Uniti e Cuba morì a Dallas.

Poco prima della morte, Kennedy si era mosso anche per porre fine all’impegno militare degli Stati Uniti in Viet Nam. Il National Security Action Memorandum No. 263, pubblicato l’11 ottobre 1963, afferma che in un incontro tenuto sei giorni prima Kennedy aveva approvato un programma di addestramento dei vietnamiti, in modo da consentire «il ritiro di mille soldati statunitensi entro la fine del 1963» e «di tutto il contingente del personale militare statunitense entro la fine del 1965». Il successore di Kennedy, il presidente Lyndon B. Johnson, ignorò completamente tali progetti. A Dallas la guerra in Viet Nam tornò a infiammarsi.

Appuntamento con la morte La coraggiosa svolta di Kennedy dalla guerra globale alla strategia di pace spiega le ragioni della sua uccisione. Alla luce dei dogmi della guerra fredda che imprigionavano la sua amministrazione e della sua svolta in favore della pace, l’assassinio di Kennedy diventava una conseguenza logica, naturale. Fu chiaramente un atto politico, che tuttavia ci consegna la speranza della trasformazione.
Speranza? Come possiamo trovare ragioni di speranza nell’assassinio di un Presidente che stava volgendo la sua azione dalla guerra alla pace?
Se nella nostra storia affrontiamo l’“Inesprimibile”, possiamo intravedere in mezzo alle tenebre una luce di redenzione. Spinto insistentemente a dichiarare guerra, Kennedy ordinò al suo Governo, dopo la crisi dei missili, di perseguire una politica di «disarmo completo e generale» (cfr il National Security Action Memorandum No. 263 del 6 maggio 1963). La coraggiosa trasformazione del Presidente e la sua disponibilità al sacrificio della propria vita per amore della pace vanificarono la determinazione della CIA e dello Stato maggiore a vincere la guerra fredda nel solo modo che conoscevano. Quella conversione e quel sacrificio hanno salvato tutti noi dalla distruzione e dal deserto nucleare. Abbiamo ancora una possibilità. Ma siamo disposti a perseguire la pace, accettandone il costo?

A causa del quasi costante stato di malattia in cui era vissuto, Kennedy aveva sentito dentro di sé per anni la voce della morte. La sua poesia preferita era I Have a Rendezvous With Death (Ho un appuntamento con la morte) di Alan Seeger. Jacqueline Kennedy insegnò la poesia alla figlia Caroline, che allora aveva cinque anni. In una splendida giornata di ottobre del 1963, nel corso di un incontro con i consiglieri per la sicurezza nazionale nel Rose Garden, Caroline attirò l’attenzione del padre e, guardandolo negli occhi, gli recitò la poesia, che termina così:

«Ma io ho un appuntamento con la Morte
A mezzanotte in qualche città in fiamme
Quando la primavera anche quest’anno si dirigerà a nord.
Ma io sono fedele alla parola data
E non mancherò a quell’appuntamento».


Sul volo notturno di ritorno da Vienna dopo l’incontro con Krusciov, due anni prima, Kennedy aveva scritto su un foglietto di carta la sua preferita tra le citazioni di Abramo Lincoln:

«So che c’è Dio – e vedo approssimarsi la tempesta;
Se Egli ha un posto per me, credo di essere pronto».

La tempesta che temeva era la guerra nucleare. Se Dio aveva un posto per lui – l’appuntamento con la morte – che poteva allontanare la tempesta dall’umanità, ebbene, era sicuro di essere pronto. A quell’appuntamento non sarebbe mancato.

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Titolo originale «A President for Peace. The deadly consequences of J.F.K.’s attempts at reconciliation», pubblicato in America, 18 novembre 2013, 13-16.
Traduzione di Elvira Fugazza.

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