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TRUTH

La Folla è falsità; la verità sta solo nel Singolo

francesco lamendola Aug 06, 2022

di Francesco Lamendola

La voce che, nella cultura moderna, più alta di tutte si è scagliata contro l’anonimità dei “sistemi” filosofici e ha rivendicato in tutta la sua urgenza e la sua serietà l’esistenza del singolo individuo e la sua posizione decisiva di fronte a Dio, è stata senza dubbio quella di Søren Kierkegaard (1813-1855), il solitario di Copenaghen. Pastore d’anime mancato e marito mancato, e nessuno ha mai saputo il perché; mai divenuto professore, categoria che detestava di tutto cuore; mai notato dai suoi contemporanei (del suo capolavoro filosofico, la Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia, stampato a sue spese, non si vendettero più di cinquanta copie, e questo mentre gli studenti di mezza Europa facevano la fila per ascoltare le lezioni di Fichte, Hegel e Schelling); non amato dai vescovi del suo Paese, che egli aveva attaccato duramente per il loro filisteismo e la pretesa di praticare un cristianesimo dignitoso e accomodante; preso crudelmente di mira dal giornale satirico Il Corsaro dell’ebreo Goldschmidt e a sua volta nemico implacabile della stampa (oggi lo sarebbe, a fortiori, della televisione), che considerava la peggiore pestilenza che si fosse mai abbattuta sulla società; nemico dichiarato anche delle democrazia, perché avverso all’idea stessa di un “governo di popolo”, che fatalmente conduce al peggiore dei totalitarismi (e come è stato profeta, ad esempio dicendo che un tale governo vuol sapere tutto di te, com’è la tua barba, cosa leggi, a che ora ti alzi la mattina!). Insomma un ribelle appassionato; un individualista irriducibile in lotta contro la società di massa; un cristiano esigente e intransigente, che sente con forza drammatica il richiamo di Dio e misura la piccolezza dell’uomo, al quale strappa impietosamente i fronzoli di cui si ammanta per nasconderla, a cominciare dalle ridicole pretese della scienza di dare una risposta a tutti i problemi dell’esistenza. Un pensatore per tutti e per nessuno, tanto più di attualità al giorno d’oggi, quanto fu ignorato e incompreso in vita.

Kierkegaard è un vulcano; ma un vulcano che, guardato da lontano e con occhio distratto, si può facilmente scambiare per un’impassibile montagna di ghiaccio. Sensibile, irruente e passionale, lo è però alla maniera dei nordici, vale a dire senza esagerate manifestazioni esteriori, anzi serbando sempre una specie di pudore o di ritrosia che possono essere scambiate per freddezza, mentre nulla è più lontano da lui di un atteggiamento di algida sufficienza o di professorale autocontrollo. Al contrario, egli è un pensatore che si mette in gioco sino in fondo; che non concepisce alcuna separazione fra teoria e vita; che si butta senza riserve nella battaglia ideale che ha concepito e alla quale si sente chiamato da una forza superiore, incurante della potenza e del numero dei nemici, anche perché convinto che il vero cristiano, essendo un impavido testimone della verità, è destinato necessariamente al martirio; e che il martirio, nella società moderna, non assume forme spettacolari come nell’antica Roma, ma si consuma in silenzio e passa quasi inosservato, perché prende forme sottili e implacabili, commisurate all’anonimato delle masse, che colpiscono a fondo senza però sollevare clamori, né suscitare interrogativi nel pubblico superficiale e frettoloso. Rifiutò ancora in punto di morte, dal suo letto d’ospedale, di ricevere la Comunione dalle mani di un pastore luterano, con costernazione degli amici; ma sulla propria tomba volle che fosse scolpita la seguente iscrizione: Quel singolo, accompagnata dai versi di un poeta: Un poco ancora e avrò vinto; / tutta la lotta allora sarà finita. / Riposerò per sempre sotto una pergola di rose / e parlerò  con il mio Gesù. E nel Diario aveva scritto: Come dicono i vecchi libri edificanti, si vive con gli Angeli e i Santi in comunione con Dio.

Da questo vulcano, vogliamo qui trascegliere brevemente tre temi che ci sembrano di particolare attualità: la dialettica folla/singolo; la vera natura del governo democratico; il significato dell’essere cristiani, specialmente nel mondo moderno, e l’impossibilità di esserlo con la mediazione di una Chiesa di Stato imborghesita e anestetizzata. Per questo abbiamo scelto tre brevi passi del suo Diario (edizione ridotta, a cura di Cornelio Fabro, 1398, 1404 e 3313, Milano, Rizzoli, pp. 246-247; 247-248; 265):

[…] Perché la Folla è falsità. Perciò Cristo fu crocifisso, perché egli, sebbene si rivolgesse a tutti, non volle avere a che fare con la Folla, non volle fondare partiti o allestire ballottazioni, ma essere ciò che era: la verità, quale si rapporta al Singolo. E perciò ognuno che in verità vuol servire alla verità, è “eo ipso” martire; e se fosse possibile che un uomo nel seno della madre potesse promettere di servire alla verità e in verità, anche nel seno della madre sarebbe “eo ipso” martire. Perché guadagnare la Folla non è difficile, basta avere falsità, vaniloqui, e conoscere un poco le umane passioni. Ma nessun testimonio della verità deve mettersi con la Folla, egli deve cercar di mettersi possibilmente con tutti, ma sempre come Singoli; deve conversare con ognuno per istrada – per disperdere; od anche arringare la Folla, non per richiamare la Folla, ma per disperderla, così che qualche Singolo possa, tornato a casa, diventare il Singolo. […]

Di tutte le tirannidi, un “governo di popolo” è la più tormentante, la più insulsa, assolutamente il tramonto di ogni cosa grande e sublime.

Un tiranno, dopo tutto, è un uomo, un uomo singolo. Come ogni uomo di solito egli ha sempre un’idea, sia pure la più assurda. Si può ora riflettere se valga la pena di lasciarsi uccidere per quell’idea, se è talmente in contrasto con le nostre idee, o se non ne vaga la pena. E poi, ci si regola di conseguenza. – Ma in un “governo di popolo” chi comanda? Un X ovvero le eterne chiacchiere, ciò che in ogni momento è o ha per sé la maggioranza, la più pazzesca di tutte le categorie. Quando si sa come vanno le cose per ottenete la maggioranza, e come la faccenda può fluttuare, che sia poi questo assurdo ad andare al governo?

Un tiranno non è che uno; si può dunque, se piace, organizzarsi per schivarlo e vivere lontani da lui. Ma come posso io in un governo di popolo evitare il tiranno? Ogni uomo, in un certo senso, è un tiranno: basta che provochi un comizio, una maggioranza.

Un tiranno, come uomo singolo, sta talmente in alto e così distante, che si può riuscire a vivere anche senza di lui come pare e piace. Non può mai venire in mente a un imperatore di curarsi di me, né di sapere come vivo, a che ora mi alzo, cosa leggo ecc. – di solito non sa neppure che esisto. Ma in un governo di popolo chi governa è l’”uguale”. A lui sì che interessa se la mia barba è come la sua, se vado a passeggiare pel bosco quando ci va lui, se sono in tutto come lui e come gli altri. Se le cose non vanno così, ecco il delitto: un delitto politico, un delitto di Stato.

Un “governo di popolo” potrà al massimo dare qualche martire di cui gli altri, come i fratelli di Giuseppe, avranno profitto d’averlo venduto (Gen., 37,25).

Vivere sotto un governo simile è la cosa che forma di più per l’eternità, ma è la più grande pena finché dura. Solo un nostalgia si può avere, la nostalgia socratica di morire e di esser morti. Perché Socrate ha dovuto sopportare questa mancanza di spirito, di avere il Numero al governo, di non essere tutti noi uguali davanti a Dio (perché cosa importa di Dio a un governo popolare?) ma tutti uguali davanti al Numero. Ed il Numero è appunto quel male che è indicato nell’”Apocalisse” (13,18;15,2) in un modo così pregnante.

Un governo di popolo è la vera immagine dell’inferno. Perché e anche uno avesse da sopportare le sue pene, sarebbe sempre un sollievo se potesse ottenere di esser solo: ma la pena è appunto che ci son gli “altri” a tiranneggiarlo. […]

CHIESA-PUBBLICO

La corruzione fondamentale dei nostri tempi consiste nell’aver abolito la personalità.

Nessuno osa più al giorno d’oggi essere personalità; per paura vigliacca degli uomini ciascuno rabbrividisce al pensiero di essere “io” di fronte, e forse in contrasto con gli altri.

Allora i politicanti si contentano del “pubblico”. Il politicante non è un “io” (ci vorrebbe altro!); egli parla in “nome del pubblico”.

Completamente allo stesso modo è trattata, nel campo religioso, la Chiesa. Ciò che si vuole è un astratto che serva di copertura, per evitare di essere un “io”; per evitare ciò che certamente nei nostri tempi è la cosa più pericolosa.

E si abbellisce quest’astratto (la Chiesa)  fino a farne una persona, si parla della vita della Chiesa, ecc.! Ci si mostra all’occasione pieni di spirito e nello stesso tempo si riesce a tenersi personalmente fuori.

Punto primo: la Folla e il Singolo. Oggi noi diciamo “la società di massa”, ma crediamo che Kierkegaard sdegnerebbe tale espressione e continuerebbe a dire “la Folla”: perché, anche quando la sua polemica contro la massificazione e l’impersonalità si fa più rovente, anzi specialmente allora, Kiekegaard si rifiuta di trattare gli altri come “massa”, ma li vede come una Folla, perché nella folla l’individualità si annulla, è vero, ma può anche ricostituirsi, per poco che ne intraveda la possibilità e l’intima necessità; mentre la massa è destinata a rimanere tale, è una “struttura” permanente della società moderna, nella quale l’individualità del singolo viene irrevocabilmente risucchiata e distrutta.

Ora, la Folla è intimamente, costituzionalmente nemica della verità: alla Folla piace sentire quel che lusinga tutti e non urta alcuno; la Folla è per definizione il luogo della falsità, ove nulla di vero, e quindi nulla di buono e di bello, potrà mai trovare cittadinanza. Eco perché il Singolo, e specialmente il Singolo che è anche un cristiano (le due cose in realtà sono quasi sinonimi, tanto è vero che Gesù si rivolge sempre agli uomini come Singoli, mai come Folla, anche quando parla alle folle) è votato al martirio. La Folla in quanto tale odia la verità: fra Gesù e Barabba, preferisce e preferirà sempre Barabba. Gesù non cerca di piacere: è dolce, ma sa essere anche severo, fino alla durezza estrema (voi che avete per padre il diavolo e fate le opere del padre vostro (Gv 8,44); in ogni caso, è estremamente esigente: con Lui o tutto, o niente. Non si può essere suoi seguaci con riserva e con cautela, come vogliono fare i pastori luterani.

Punto secondo: il governo del popolo. Esso è l’applicazione dei principi democratici: tutti sono liberi, tutti sono capaci, tutti vedono il bene comune e lo vogliono perseguire. Una serie di menzogne atroci: non c’è peggior tiranno di un siffatto governo popolare; in confronto, la tirannia “classica”, quella impersonata da un solo uomo, è di gran lunga un male minore. Il tiranno vuole tutto il potere, ma lascia ai sudditi una relativa libertà nella sfera personale: non gl’importa cosa fanno fra le mura di casa, né come impiegano il tempo libero. Se essi lo evitano, non lo vedranno addirittura; quanto a lui, è quasi certo che non li conosce nemmeno, non sa neppure che esistono. Al contrario, la tirannia popolare è sospettosa, invidiosa e smaniosa di controllo fin nei minimi particolari della vita privata: non tollera zone franche, vuol conoscere tutto di voi, delle vostre abitudini. Vi spia continuamente, perché sa che voi siete  simili a lui: perciò se la vostra barba è più lunga d’un centimetro della media, questo potrebbe essere l’inizio di un’insurrezione. Formato da gente mediocrissima, il governo del popolo non tollera che vi sia qualche originale, qualche individuo non fatto con lo stampino: perciò non sopporta il Singolo. È una guerra all’ultimo sangue fra lui e il Singolo: uno dei due deve sparire.

Punto terzo: che cosa significa essere cristiani, specialmente nel mondo moderno. Lo abbiamo già detto: significa essere testimoni, cioè martiri. E non si può essere testimoni se tutto ciò a cui si aspira è un dignitoso cantuccio di rispettabilità borghese. La lotta intrapresa da Kierkegaard contro la Chiesa di Danimarca, nella quale ha profuso i suoi ultimi risparmi e le sue ultime forze, fino a consumarsi del tutto; la lotta da lui intensificata con la pubblicazione del periodico Il momento, ha realmente qualcosa di titanico, di eroico, come le gesta di un cavaliere antico. Solo contro tutti: prima contro il vescovo Mynster, poi contro il suo successore Martensen: gettando loro in faccia, con una sorta di riguardo verso il primo (perché amico del padre defunto), senza troppi complimenti verso il secondo, l’accusa rovente di aver tradito l’insegnamento di Cristo. Che cosa rimproverava loro, esattamente? Di aver fatto del Vangelo una brodaglia riscaldata; d’esser venuti a patti col mondo; di aver presentato l’esser cristiani come un semplice completamento e perfezionamento della natura umana. Ma questo non è possibile: nel cammino della vita si procede per salti, non per continuità: vi è un salto fra lo stadio estetico (l’artista, il seduttore), che vuol cogliere l’attimo, e quello etico (il marito, il padre di famiglia ancora in parte rattenuto dal richiamo di quaggiù); e un salto ancor maggiore fra questo e lo stadio religioso (Abramo): ineffabile, inesprimibile e tremendo…

 

 

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