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La fortuna di arrivare “fuori tempo”

francesco lamendola Nov 07, 2022

di Francesco Lamendola 

In una società sana, in tempi normali, vi è un accordo fra l’educazione del singolo e il sentire comune: si insegna al bambino a credere in ciò che gli altri credono, e in tal modo si determina una coincidenza fra ciò che sente l’individuo e ciò che sente la sua famiglia, la sua comunità, la sua parrocchia, la scuola, il mondo degli adulti. Certo, questo non significa che la società produce un modello unico d’individuo: c’è spazio per ogni possibile varietà di carattere, di atteggiamento, di opinioni, ma sempre entro l’ambito di ciò che la società riconosce come buono e legittimo e mai contro di esso.

Il pericolo di un totalitarismo strisciante, di un’oppressione mascherata ai danni della libertà individuale è, o dovremmo dire, era bilanciato, nella società cristiana, dal fatto che la società stessa si poneva dei limiti, era cosciente di non dover oltrepassare certi confini, e soprattutto riponeva le sue certezze non in qualcosa di volubile e arbitrario, come la “volontà popolare”, intesa come somma aritmetica di voti e consensi, ma sulla roccia della verità assoluta, che non passa né mai si contraddice, perché la Verità è tale sempre e per tutti.

Sul piano etico, tale regola generale coincideva, in buona sostanza, con il diritto naturale: la fede religiosa vi aggiungeva il dato della Rivelazione e così l’arricchiva, la spiegava, la chiariva, ma non la contraddiceva né la smentiva. Il respiro morale di una tale società era realmente vasto: qualunque persona, dotata di comune sentire e di buona volontà, vi si poteva riconoscere. Calunniare, rubare, uccidere è male per la morale naturale e lo è per quella cattolica: non vi sono conflitti possibili, non c’è spazio per alcuna ambiguità. E così è, o dovrebbe essere, per l’aborto, per l’eutanasia, per l’omosessualità, per il cambio di sesso, per il libero consumo della droga: ciò che sentiva la stragrande maggioranza della gente, credenti e non credenti, praticanti e non praticanti, era anche ciò che insegnava la Chiesa, ciò che la maestra ripeteva a scuola e che il magistrato faceva valere nell’aula del tribunale.

Poi sono arrivate le leggi e i relativi referendum popolari, prima sul divorzio e poco dopo sull’aborto, anzi, per esprimersi in termini politicamente corretti, e tali da non suscitare inutili soprassalti emotivi, sulla interruzione volontaria della gravidanza. Eravamo negli anni ’70 del Novecento e di colpo si è aperto un solco, che è divenuto una voragine, fra il diritto naturale e il diritto positivo. Quelle leggi non son piovute dal nulla: hanno una storia precisa; e la loro conferma in sede referendaria, a furor di popolo, attesta che i tempi erano maturi per la svolta. Non si videro anche fior di preti e di teologi spendersi in televisione e sulla stampa laica per asserire che la volontà popolare andava rispettata, in ogni caso? E che se la volontà popolare esprimeva un sentire diverso dalla morale cattolica, era questa, da loro (indegnamente) rappresentata, a dover fare un passo indietro, in nome della libertà e della democrazia? Strano; la Chiesa non aveva mai parlato così; non aveva mai insegnato un tal genere di “libertà”; ma soprattutto, a partire da quel momento, nessuno, ma proprio nessuno, parlava più del diritto naturale. La stessa espressione “morale naturale” pareva scomparsa d’improvviso dalle labbra di tutti, restando relegata fra le pagine dei dizionario della lingua italiana, assieme ad altre espressioni obsolete. Meglio non parlare di corda nella casa dell’impiccato.

Del resto, la Chiesa era stata la prima ad assecondare il nuovo indirizzo culturale e morale della società. Aveva anzi dato essa il “la”, un decennio prima, con il Concilio Vaticano II. Aveva cambiato tutto: la liturgia, la pastorale e la stessa dottrina; oh, ma quest’ultima con molta, con somma abilità: facendo finta di cambiare solo il modo dell’annuncio evangelico, e lasciando intatta la sostanza; dichiarando anzi e spergiurando che tutto ciò che il magistero e la Tradizione avevano sempre proclamato, rimaneva valido anche adesso e che nulla, neppure uno “iota”, sarebbe caduto o sarebbe stato modificato.

Così, un poco alla volta, ma sempre facendo forza sullo steso principio, che la volontà popolare costituisce la fonte del diritto (e tanto peggio per la morale), è passato tutto, ma proprio tutto: anche il satanismo (perché no? se tutte le religioni sono portatrici di una “loro” verità), anche la pedofilia (purché non ci sia violenza formale), e via aberrando. Sempre più lontani dal vero, sempre più lontani dal bene: peggio ancora, con la pretesa di affermare un nuovo (e maggior) vero, un nuovo e maggior bene. Tutti hanno subito il ricatto e si sono adeguati: in nome del rispetto della volontà popolare, sia le autorità laiche che quelle religiose hanno fatto buon viso a cattivo gioco, e hanno finito per trovare che il gioco non era poi così cattivo, visto che ci hanno preso gusto e non sembra proprio che si adattino a un copione indesiderato. Resta solo da vedere se il mondo che è stato così realizzato riflette davvero questa enigmatica “volontà popolare”, cioè corrisponde a un vero bisogno e a una vera richiesta delle persone comuni, oppure se è il prodotto di un’agenda stabilita in alto loco da qualcuno che si è sempre servito, nella maniera più ipocrita, della volontà popolare per perseguire ben altri scopi e interessi.

Sta di fatto che ora la situazione è questa. Il diritto naturale è semplicemente ignorato; il diritto positivo pretende di stabilire, di volta in volta, il lecito e l’illecito e, di riflesso, stabilire anche il giusto e l’ingiusto (che sono, in realtà, concetti profondamente diversi); la morale cattolica si è girata di centottanta gradi, come una bandierina al vento, e proclama, con la massima tranquillità, che è vero e buono e giusto ciò che fino a ieri, e per millenovecento anni, fondandosi sulla divina Rivelazione, ha insegnato essere falso, cattivo e ingiusto. Nessuno sembra provare il minimo imbarazzo; nessuno si vergogna; nessuno si dimette. Dal prete al medico, dal magistrato al poliziotto, dall’insegnante al teologo, tutti paiono sguazzare felicemente nel mare fangoso del relativismo, del soggettivismo, del pluralismo; e hanno anche tenuto a battesimo (ma chi le ha inventate in realtà?) le sacre parole d’ordine, ossia le parole magiche, come accoglienza, inclusione, dialogo, rispetto del diverso, anzi quest’ultima è già fuori corso, perché l’ultimo grido della moda è che il diverso non esiste, siamo tutti normali, tutti, anche i satanisti e i pedofili. In nome, si capisce, della “nuova normalità”. Quella che vuole le persone perennemente mascherate, il naso e la bocca nascosti da un pezzo di stoffa, magari una stoffa scelta in tinta col pullover, la camicia, la gonna, gli orecchini e il braccialetto – questo è l’importante.

Ma è proprio vero che si sono adattati tutti e che tutti nuotano benissimo, perfettamente a proprio agio, nel brave new world? Oppure ce ne sono alcuni, e magari assai più che non si creda, i quali ci stanno male, malissimo, lo subiscono senza approvarlo, lo detestano e vorrebbero vederlo crollare domani o, se possibile, anche oggi stesso? Fra costoro, che chiameremo, per comodità, i non sottomessi, gente strana che non adora l’idea di sostituire la pastasciutta con le cavallette, né di assecondare gioiosamente il proprio figlio di cinque anni nella volontà di cambiare sesso, insomma gente disadattata e oscurantista, vi sono essenzialmente due categorie di persone: quelli che sono nati prima della svolta, e ricordano con nostalgia il mondo di ieri, per dirla con Stefan Zweig; e quelli che pur non avendo mai visto quel mondo, ma avendone solo sentito parlare, dal contrasto insopprimibile registrato in se stessi fra ciò che dice la morale naturale e ciò che prescrive la nuova legislazione, hanno capito che qualcosa non va e s’interrogano su cosa si possa fare per reagire e ripristinare una società a misura d’uomo.

Per ragioni anagrafiche, ma anche geografiche (non tutte le regioni d’Italia hanno conosciuto la svolta nello stesso tempo), noi apparteniamo alla prima categoria. Abbiamo visto coi nostri occhi, o meglio abbiamo vissuto, negli anni dell’infanzia, il mondo di ieri: che poi ci si è sbriciolato fra le dita, come fosse di creta, e pure ci era sembrato solidissimo. Allora, incredibile dictu, la maestra ed il prete, con accenti molto simili, parlavano del vero e del bene; il libro di lettura della scuola elementare parlava della natura, delle stagioni, della famiglia (formata da uomo e donna), delle feste religiose, della patria, del lavoro, dell’onestà, del risparmio, del cuore sereno perché puro; i giochi erano fatti per i bambini e non i bambini per i giochi (ma accadeva che fossero, al tempo stesso, didattici: come la raccolta delle figurine di animali, piante, esploratori); la televisione era educativa e di buon livello; genitori e nonni, più che parlare, davano l’esempio concreto della vita sana, seria e laboriosa, fondata sul senso del dovere e dell’onore.

Tutte quelle cose, e cento altre ancora – la mamma o la nonna che si facevano il segno di croce passando davanti a una chiesa o si fermavano a recitare una preghiera dinanzi a un’edicola religiosa, e il bambino che imparava, da quei gesti, l’amore e la confidenza in Dio, nella Madonna e nei Santi; lo sconosciuto che, come un padre, sgridava i ragazzini che attraversavano la strada col semaforo rosso o che gettavano le carte sul marciapiede – attestavano una società coesa, ove ciascuno si faceva carico del buon funzionamento complessivo e tutti si sentivano un po’ responsabili di dare il buon esempio ai piccoli. Una società innamorata della vita, con tanti bambini e tante attenzioni verso i vecchi – allora non era una parolaccia dire vecchio, perché era sinonimo di esperienza e di saggezza; mentre ora si deve dire anziano, ma il rispetto filiale se n‘è andato chissà dove – e che guardava in faccia il domani, senza complessi e sensi di colpa, né la devastante attrazione per il nulla e la morte che poi l’ha colpita come un’invisibile pestilenza, e la sta conducendo al capolinea. Qualcuno ci obietterà che è un’immagine idealizzata: ma noi abbiamo visto quelle cose.

Allora, se avessero proposto al sindaco di un paese in via di abbandono, popolato quasi solo da vecchi, d’importare decine o centinaia di stranieri, per ripopolarlo con le loro madri prolifiche e i loro bambini, costui avrebbe pensato a uno scherzo di cattivo genere; piuttosto si sarebbe chiesto come fare, nella sua piccola sfera di competenza, per rincoraggiare i concittadini a rimanere, i giovani a trovare lavoro e le coppie ad avere dei figli. E ci avrebbe provato, andando a bussare a tutti gli usci e sollecitando  onorevoli ed eccellenze varie; se poi non ci fosse riuscito, forse si sarebbe dimesso, conscio di non essere stato eletto per scaldare la poltrona ma per fare il bene dei suoi amministrati; né la coscienza gli avrebbe consentito scappatoie, compromessi meschini e mezze verità per tacitare l’evidenza del proprio insuccesso. Chi non riusciva a fare il bene, in ogni ambito del lavoro e della vita, non si sentiva a posto con se stesso; né a posto coi genitori che l’avevano preceduto nell’altra vita; a posto con Dio. E chi non aveva una reputazione immacolata, si sarebbe vergognato a scendere in strada. Il medico non si sarebbe sentito a posto se avesse rifiutato di visitare una partoriente, anche in una notte di pioggia o neve; né il prete se avesse rifiutato di portare l’estrema unzione a un moribondo; né la maestra se avesse chiesto un permesso per malattia a causa di qualche linea di febbre: sarebbe andata al lavoro lo stesso (senza lo scrupolo di portare un virus ai bambini: tanto i virus, lei, li prendeva da loro tutti i giorni, e né lei, né le loro famiglie, avevano mai pensato che in ciò vi fosse qualcosa di sbagliato, da evitare ad ogni costo in nome del senso di responsabilità).

Dunque, riassumendo: il mondo si è capovolto (ma certo non si è capovolto da solo, e la “volontà popolare” non c’entra per nulla). Oggi è giusto, bene e vero ciò che due generazioni fa era sbagliato, cattivo e menzognero. Il non avere patria era sbagliato, e oggi è incoraggiato. Non amare né rispettar e i genitori era un sacro comandamento, e oggi è roba da riderci su. Ai cattolici veniva insegnato che nulla è bene, neanche la sospirata unità dei cristiani, al di fuori della verità; oggi la nuova bandiera della Chiesa è l’ecumenismo, insieme al dialogo interreligioso e all’intronizzazione degli idoli diabolici nelle chiese, davanti ai quali tutti, preti, vescovi e papa si genuflettono adoranti. Chi ha ragione, chi sbaglia o sbagliava? Noi, che abbiamo visto gli effetti benefici di quella filosofia pratica e di quel sistema di vita, non abbiamo dubbi: quello era un mondo che funzionava e che sapeva trasmetter ai giovani un orizzonte di speranza.

Oggi quelli della nostra generazione, che certo non vivranno fino a vedere un ritorno alla ragione, al buon senso e al diritto naturale, tanto meno alla pratica religiosa (alla nostra, almeno: perché certo il vuoto spirituale sarà colmato dalle false religioni degli immigrati), hanno un dovere preciso da compiere: aiutare le persone più giovani, che quel mondo non l’hanno visto, a recuperare la capacità di scorgere il vero, il bene e il bello e sviluppare la forza di volontà per respingere la tentazione del falso, del malvagio e del brutto. È un’impresa possibile. L’intelletto tende naturalmente al vero, come la volontà tende naturalmente al bene, come il senso estetico tende naturalmente al bello. Si tratta di scuotere via l’immondizia intellettuale e morale che alcuni decenni di sistematico imbarbarimento hanno deposto sulle intelligenze e sulle coscienze. Questo possiamo e questo dobbiamo fare: altro non ci sarà domandato, ad impossibilia nemo tenetur. Ricordiamoci che siamo nelle mani di Dio: è Lui il padrone della storia. A noi essere operai volonterosi nella Sua santa vigna.

 

 

 

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