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La presenza dell’uomo all’essere è un bisogno vitale

francesco lamendola Sep 10, 2022

di Francesco Lamendola

La presenza dell’uomo all’essere, ovvero la fiducia e la capacità dell’uomo di conoscere la realtà, di dare un fondamento oggettivo alla sua idea del mondo, è sempre stata viva nella filosofia greca e poi nella filosofia cristiana: in pratica, nessun pensatore e nessuna scuola le hanno mai negate frontalmente. Perfino nei suoi esponenti più scettici, come i sofisti, o, nel caso della Scolastica, i nominalisti, le riserve da essi avanzate riguardavano i contenuti del conoscere, ma non arrivarono mai a porre in dubbio che esiste un mondo esterno all’uomo e che l’uomo ne ha la  percezione irrefutabile, ancorché talvolta  confusa.

Nessuno si è mai spinto a negare che esistano le cose e meno ancora che esista una mente unitaria che le percepisce, le giudica e le organizza. Per arrivare a tanto bisogna aspettare la modernità: con Cartesio, secondo il quale noi conosciamo il mondo a partire dal nostro io; a Berkeley, che nega la realtà materiale del mondo esterno e lo riduce alle nostre percezioni visive, uditive, tattili, olfattive, eccetera, cioè a “idee” della nostra mente; e a Hume, che dubita di tutto e anche della mente che farebbe da soggetto all’atto del conoscere. Poi viene Kant, il quale, per riportare ordine nel disordine, e per fissare dei limiti “ragionevoli” all’intellegibile, dà il colpo di grazia all’oggettività del mondo, taglia via senza pietà tutta la metafisica e dichiara totalmente inconoscibile la cosa in sé, come un medico che per curare i calli al paziente, gli taglia il piede e magari anche la gamba. Nessuno si era mai spinto tanto lontano nell’ambito della filosofia antica e medievale, neppure Guglielmo di Ockham con il suo empirismo radicale e il suo proclamato divorzio tra fede e ragione, che di fatto aveva vanificato e annullato il gigantesco sforzo speculativo degli ultimi mille anni, culminato nella superba sintesi tomista.

Dopo Kant, il percorso della filosofia occidentale è segnato, così come lo era stato da Cartesio fino a Kant: ormai il restringimento dell’orizzonte ontologico è così grande che, accettando simili basi, non resta altro da fare che o assolutizzare l’immanente, come fa Fichte (il quale elimina il noumeno kantiano, ultimo striminzito residuo della vecchia metafisica) o immanentizzare l’assoluto, come fa Hegel con il suo panlogismo: insomma ridurre tutta la realtà a Pensiero e sostenere, con la massima imperturbabilità, che non l’essere crea ogni altra cosa, e dunque anche il pensiero, ma che il pensiero (pensiero di chi, poi, se Dio e il mondo sono di fatto una cosa sola?) crea l’essere. A quel punto il cerchio si chiude e lo scacco matto che il pensiero dell’essere da a se stesso, riducendosi a pensiero dell’idea di essere (e anche Rosmini cade in questa trappola) è definitivo e non ammette se non operazioni di dettaglio, come le varie logiche formali e filosofie del linguaggio, la cui saggezza suprema, per bocca di Wittgenstein, si riassume nella malinconica raccomandazione di tacere quel che non può essere detto. Ormai ai filosofi non resta altro da fare che formulare enunciati e verificare che non contengano errori. Dell’antichissima fiducia dell’uomo di conoscere il mondo, o per lo meno di sapere che esiste, che è intorno a lui e dà uno sfondo e in ultima analisi un significato al suo vivere, non resta più nulla: solo le ceneri fredde di un fuoco che ha divorato tutto il combustibile e si è spento per consunzione.

Questa è la differenza fondamentale che stacca la filosofia moderna da quella classica e medievale: un arretramento pauroso, una rovina intellettuale, un ripiegamento dell’uomo su se stesso, esitante ad affermare perfino di possedere un io, oltre che di essere posto in un mondo oggettivo, fatto di enti che esistono (actus essendi, direbbe san Tommaso d’Aquino) e non solo nella mente di colui che li pensa, ma in senso oggettivo e reale.

Tale quadro è stato ben evidenziato da Paul-Bernard Grenet, professore all’Institut Catholique di Parigi, insigne studioso tomista, nel suo volume Ontologia (titolo originale: Ontologie, Paris, Beauchesne et Ses Fils, 1959; traduzione a cura delle Benedettine del Monastero di Santa Scolastica a Civitella del Tronto, Brescia, Paideia, 1967, pp. 19; 22-24):

Le filosofie antiche hanno in generale professato un bell’ottimismo intellettuale. Gli uni affermano che l’essere totale ci è dato in una sola volta, in un’intuizione semplice ed esauriente. Non solo l’essere ci è presente, ma possiamo affrontarlo senza alcuna difficoltà. Questa è la “rivelazione” di Parmenide. Altri confessano che ci è difficile raggiungere l’essere, perché la nostra conoscenza dipende da un’esperienza sempre limitata e costituita da tappe successive. Ma nulla impedisce che, di grado in grado, noi finiamo con l’esplorare tutta la realtà. Questi sono i consigli di “coraggio intellettuale” seguiti da Empedocle. Presto nacque l’idea che il reale si divida in due zone: una tutta luce e verità, in cui l’evidenzia sazia lo spirito; l’altra mista d’ombra dove l’errore è rischio continuo. È lo spirito del platonismo, per il quale il grande problema di metodo è di risalire dal sensibile all’intellegibile. Aristotele si oppone al platonismo, in quanto rifiuta di separare le due zone: l’evidenza del necessario e dell’eterno può apparire direttamente nel sensibile. Così fin nello stoicismo e nell’epicureismo, l’uso di un criterio scelto saggiamente permette di esser sicuri della realtà. Ora, la cosa notevole è che, attraverso tutte le divergenze di particolare, si fa strada una certezza comune: gli Antichi sono convinti che il minimo atto di conoscenza li immerge in pieno reale. Persino gli scettici precisano che il loro dubbio riguarda non l’esistenza di qualche cosa, ma  ciò che noi diciamo che questa cosa sia. Dunque anche lo scettico antico è sicuro che l’essere è reale, indipendentemente dalla conoscenza che noi possiamo averne. L’uomo è immerso in un mondo ed è capace di esplorarlo o almeno è capace di vivervi. (…)

La crisi moderna ha inizio con Cartesio. Il dubbio metodico rese sospetto il valore della conoscenza sensibile, come conoscenza. Il dubbio iperbolico rese sospetta ogni evidenza, finché non si potesse avere un evidenza privilegiata di cui fosse impossibile dubitare. Il risultato imprevisto fu che non si trovò più alcuna evidenza immediata dell’essere in sé, all’infuori del “io penso”. Di conseguenza sono stati tagliati i ponti fra la mente umana e l’essere dell’universo. Soltanto una “deduzione” nel senso cartesiano potrà ristabilirli, sospendendo all’evidenza del “io sono” l’evidenza del “Dio è”, e all’evidenza del “Dio è” il carattere il carattere naturale della mia fede nel Mondo. Ma in realtà, la mente umana non ha esperienza che di una sola esistenza: la sua, comprendendovi quella delle sue idee. Non conosciamo che le nostre idee. E la stessa scienza non ci fa usciere da questo sogno: la matematica universale, la meccanica universale non sono che dei possibili, e fanno benissimo a meno del controllo dell’esperienza. Il fatto è che il mondo non è che una favola: non vi è essere in lui. La crisi si amplifica con Berkeley. Se io non conosco che le mie ide, il Mondo non è che l’insieme delle mie idee. Esistere allora si riduce o a percepire, se si tratta dell’”io”, o ad essere percepito, se si tratta del mondo: ESSE EST PERCIPI, AUTO PERCIPERE. La crisi raggiunge il suo punto culminante con Hume: lo stesso “io penso” non è che un’idea fra tante altre. Ciò significa che l’idea che ho di “me” non mi mette in presenza di un “me” diverso dall’idea che ne ho. L’io non è dunque niente altro che la successione delle idee che ho, compresa l’idea di me. Ed è il fenomenismo  assoluto, che non differisce in nulla dallo scetticismo.  La scienza non è più soltanto un sogno: è impossibile. Non vi è più sostanza, non vi è più causa, non vi è più necessità, non vi è più legge. Kant pensa di aver trovato rimedio alla crisi: egli mostrerà come la scienza è possibile e valevole se verte, non sulle cose della natura in sé, Cartesio l’esclude; né sui fenomeni, cioè sulle impressioni che io subisco, Hume lo proibisce; ma su una regione intermedia fra le mie impressioni soggettive e l’essere in sé: la zona dell’”oggetto”. Sostanza, causa, necessità, e infine “essere”, tutto ciò non appartiene né alle impressioni soggettive né all’essere in sé delle cose, appartiene esclusivamente all’attività costruttrice della mente. Le leggi della natura sono le leggi del pensiero. Il Mondo come cosa in sé, l’Io come cosa in sé, Dio come cosa in sé sono semplicemente inconoscibili, non ne ho alcun concetto. E l’”Idea” che ne ho mi è fornita dalla natura per dispensarmi dall’andare oltre: queste idee sono dei limiti, i limiti dell’uso puro della ragione. La filosofia europea non ha allora più che la scelta  fra due vie: o assorbire ogni esistenza nel pensiero, o fare uscire ogni esistenza dal pensiero. La prima via è quella dell’idealismo assoluto tedesco: il Pensiero assoluto non pensa che se stesso: e questo è il Mondo.  La seconda è quella del panlogismo hegeliano: lo Spirito assoluto si nega e si aliena: e questo Spirito negato, questo inverso negativo dello Spirito, è la Natura. Al termine della prima via, Dio appare in tutto, indistinto e impersonale. Nel corso della seconda, Dio si fa in tutto: lo Spirito si libera progressivamente dalla Natura. La storia del pensiero umano è la storia della fabbricazione di Dio. Ora, in tutte queste teorie, l’esistenza è dimenticata, a vantaggio o delle nostre idee, o del Pensiero assoluto, o dello Spirito assoluto.

Ora, la domanda che ci si deve porre è se l’uomo, antropologicamente, psicologicamente, spiritualmente e moralmente, possa vivere in uno stato d’incertezza permanente e di dubbio radicale, cioè su un piano di esistenza caratterizzato da insicurezza, confusione, smarrimento e soprattutto frustrazione del suo naturale bisogno di verità e di chiarezza. Ma se l’uomo fosse capace di vivere immerso in una simile nebbia, in una simile palude, non avrebbe in sé la naturale aspirazione al vero, che porta con sé anche l’aspirazione al bene e al bello. Non possiederebbe una ragione che incessantemente fa domande, cerca risposte, e si affanna e si adopera per trovarle; ma si contenterebbe di vivere così, alla giornata, senza porsi problemi che è incapace di risolvere, e che provocano in lui inquietudine e angoscia.  Il fatto che egli formuli quelle domande e provi quella inquietudine è la migliore dimostrazione del fatto che le risposte esistono e che la sua mente è in grado di afferrarle in misura tale da poter trovare la pace; anche se poi, di fatto, pochissimi vi riescono, perché pochissimi sono disposti a pagare il prezzo del cercare, del vedere e del conoscere. Il prezzo è alto: bisogna abituarsi a una disciplina; rinunciare all’effimero e puntare all’essenziale; vivere l’esperienza costante della solitudine, dell’incomprensione altrui, della sofferenza, e lasciarsi purificare da quest’ultima. Se la sofferenza viene vissuta come una maledizione invece che come una purificazione, non solo è inutile, ma controproducente: inasprisce l’animo, incattivisce la volontà, offusca la ragione.

Ciò è valido per l’individuo e lo è anche per la vita complessiva di una società, i cui membri sono pur sempre individui. La società non può permettersi di vivere nell’incertezza, nella confusione e nell’amarezza di un orizzonte chiuso e privo di speranza; non può adattarsi a rinunciare alle grandi mete, senza impazzire e produrre dei disadattati, degli spostati, dei mostri. La società, come l’individuo, ha bisogno di un equilibrio, e non di un equilibrio qualsiasi, ma di un equilibrio fondato sulla verità e sul rispetto della natura. La natura umana pone domande: è dunque un bisogno autentico quello di dare ad esse delle risposte; ignorarle, pervertirle, ridicolizzarle, significa andare contro la natura. E se l’uomo va contro la natura, finisce per distruggersi. La società pertanto ha bisogno di un centro unificatore: che non può risiedere nell’effimero, come accade nel consumismo, né in un dovere inumano imposto dall’ideologia e da un’autorità esterna, come nel comunismo. La società a misura d’uomo è quella in cui viene promosso, protetto e onorato ciò che è autenticamente umano, a cominciare dalla vita nascente. Se viene promosso ciò che è disumano solo perché appare utile, essa si logora, si impoverisce delle sue energie migliori, mortifica lo slancio vitale dei suoi membri e finisce per distruggersi.

La filosofia esercita un influsso più grande di quello che generalmente non si creda. Anche se la maggior parte delle persone non legge libri di filosofia, tutti, però, sono portati a riflettere, sia pure in forma episodica ed embrionale: tutti si fanno domande, almeno qualche volta, e cercano di darsi delle risposte per la propria vita, anche se in genere non le formulano in maniera chiara e forse non ne sono neanche del tutto consapevoli. Eppure, ciò che credono gli uomini di pensiero ha un grande influsso sulla vita di ciascuno: forma una sorta di clima, di atmosfera complessiva, e ciò determina un certo orizzonte esistenziale. Se gli uomini di pensiero sono privi di speranza, perché ritengono impossibile giungere alla conoscenza del vero, anzi addirittura ritengono incerta l’esistenza del mondo e la stessa esistenza dell’io, tale disperazione si riflette nell’orizzonte comune, lo abbassa, lo rimpicciolisce, toglie o diminuisce nelle persone il desiderio di vivere: perché si ha pienezza di vita solo là dove la vita poggia i piedi sulla solida realtà e non dubita di ciò che vede, di ciò che percepisce, di ciò che può ragionevolmente pensare come esistente. Il dubbio sistematico è incompatibile con la vita. Una filosofia che dubita di ogni cosa e che nega più di quanto sia capace di affermare, è una filosofia maligna, parassitaria, velenosa, che corrode il corpo sociale come un cancro.

I filosofi che non sanno vedere come la presenza dell’uomo all’essere sia un bisogno primario, un bisogno vitale e assolutamente spontaneo e naturale, che non ha nulla di artificioso o di eccessivo, checché ne pensino i vari Kant, non hanno capito l’essenziale e vanno dietro al secondario. Peggio ancora: non entrano loro e impediscono di entrare a quanti lo vorrebbero (cfr. Luca, 11,52). Sono ancor peggio che dei parassiti: sono pericolosi. Gli uomini cercano la verità, ed essi dicono che non è accessibile ai nostri poveri mezzi; gli uomini cercano l’essere, ed essi affermano che non si sa neppure se esista. Dobbiamo lasciarli soli, ad avvoltolarsi nella loro disperazione; non ascoltarli, non degnarli più nemmeno d’uno sguardo che non sia di compassione. E andare avanti, con l’aiuto di Dio, senza di loro e nonostante loro.

E ciò vale anche nei confronti di quei pessimi teologi contemporanei che, cresciuti alla scuola dei filosofi moderni, gettano la confusione nei credenti e fanno loro smarrire la presenza del necessario e dell’eterno nelle cose del mondo sensibile. E più ancora per quei fasi preti modernisti che, ingannando le pecorelle del gregge che era stato loro affidato, sostituiscono la verità, meraviglioso connubio di ragione e fede (perché nulla vi è nella fede che sia contrario alla ragione naturale: la grazia perfeziona la natura, non l’abolisce), a forza di chiacchiere si sforzano di persuaderle che la loro fede è inutile, è ridicola, è anacronistica, è tutta da rifare su base completamente nuove. Quelle di Cartesio, Kant, Hegel e Heidegger, che conducono allo scetticismo e al nichilismo; e non più quelle del Vangelo di Gesù Cristo, della Tradizione apostolica, dei Padri della Chiesa e soprattutto dei Santi.

 

 

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