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La teologia, culmine della metafisica

francesco lamendola Oct 29, 2022

di Francesco Lamendola

La filosofia moderna, in modo netto ed esplicito a partire da Kant, ma in forma apparentemente meno drastica da molto prima, in particolare con Guglielmo di Occam, ha accantonato la metafisica, riducendosi a un empirismo radicale (o, il che è in definitiva lo stesso, anche se non pare, anzi pare l’opposto) ad un idealismo altrettanto radicale, come avviene con Hegel. La metafisica, però, non è una parte della filosofia, una parte che si possa in qualche modo sacrificare, come il capitano di una nave il quale, per tenerla a galla nella tempesta, decida di gettare a mare il carico, dando la precedenza alla salvezza degli uomini: è il cuore ed il culmine della filosofia, perché senza metafisica non c’è più la vera immagine del mondo e questo diviene, come di fatto è accaduto negli ultimi secoli, qualcosa d’incomprensibile e assurdo, un enigma, un labirinto, una sfinge che si beffa del nostro bisogno di verità.

Abbiamo detto, in un precedente scritto, che l’intelletto cerca il vero e la volontà vuole il bene; e che, se così non accade, è perché l’intelletto e la volontà sono stati deviati dal loro fine naturale, e l’anima è ammalata, si è smarrita e ha capovolto la giusta prospettiva esistenziale. Ora, c’è un solo oggetto del pensiero in cui la sforzo e la tensione del conoscere si placano e si rasserenano in una letizia e armonia perfette, ed questo è Dio, che è l’essenza del vero, del bene e del bello, atto puro, senza alcun residuo di potenza, che sarebbe come dire d’imperfezione. Nondimeno, la differenza ontologica che separa Dio dall’uomo è tale, che l’intelletto umano non può cogliere quello divino nella sua essenza: può solo arrivare a dire che esso è, che esiste, e non che cosa sia, quali proprietà possieda; e se tuttavia lo fa, lo fa in senso figurato, per analogia con se stesso: ma ben sapendo che si tratta di una similitudine impropria e di una forzatura, perché Dio, in Se stesso, è per l’uomo l’inintelligibile).

Ma che dire dell’Intelletto divino rispetto al proprio pensiero? Dio, pensando Se stesso, pensa tutto l’intelligibile: atto puro, non potrebbe pensare ciò che è potenza, perché in Lui non vi è alcuna potenza, ma sempre e solamente atto. Pertanto, quando l’uomo pensa qualcosa, si innalza al di sopra del suo stato ordinario, perché si libera, fino ad un certo punto, dai condizionamenti della materia (fino ad un certo punto, anche perché ogni pensiero ha inizio dalla sensazione, e dunque dipende dalla materia!). Ma se Dio, pensando Se stesso, è nel suo proprio elemento, beatifico e vitale, anche l’uomo, pensando e conoscendo Dio, è a sua volta beato, come mai potrebbe esserlo altrimenti: beatitudine che sarà perfetta al cospetto di Dio, dopo la morte, ma che già talvolta è concessa, come un raro privilegio, alle anime sante già in questa vita, e sia pure in maniera discontinua e quanto mai fuggevole.

Scrive Aristotele nella Metafisica (trad. a cura di G. Reale, Napoli, Loffredo, 1968, vol. 1, pp, 179-180; vol. , pp. 231-232, 239):

Tutte le scienze ricercano, relativamente a ciascuno degli oggetti che rientrano nel loro ambito di conoscenza, determinate cause e determinati principi: così la medicina, la ginnastica e ciascuna delle atre scienze poietiche e matematiche. Ognuna di queste, infatti, si limita a indagare  un determinato genere di cose, e, di questo, ognuna si occupa come di qualcosa di reale e di esiste, ma non lo considera IN QUANTO ESSERE: infatti la scienza  dell’essere in quanto essere è diversa da queste scienze e da esse distinta. Ciascuna delle scienze sopra menzionate  assume in qualche modo l’essenza  che è propria del genere di cose di cui si occupa e cerca di dimostrare tutto il resto con più o meno rigore. Ed alcune di queste scienze assumono l’essenza tramite le sensazioni, altre, invece, tramite l’ipotesi. (…)

Ora, poiché esiste una scienza dell’essere IN QUANTO ESSERE E IN QUANTO SEPARATO, bisogna esaminare se essa si debba considerare come identica alla fisica, oppure come diversa. Ma la fisica studia le cose che hanno in se medesime il principio del movimento; la matematica è scienza teoretica che studia enti non soggetti al divenire, ma non separati. C’è, dunque, un’altra scienza, diversa sia dalla fisica sia dalla matematica, che studia L’ESSERE SEPARATO E IMMOBILE, posto che veramente ossia una sostanza SEPARATA E IMMOBILE, come cercheremo di dimostrare. E se fra gli esseri esiste una realtà di questo genere, in essa dovrà consistere anche il divino e dovrà essere il principio primo e supremo.

È chiaro, dunque, che esistono tre generi di scienze teoretiche: FISICA, MATEMATICA e TEOLOGIA. Ora, fra tutti i generi di scienze il genere delle scienze teoretiche è il più eccellente, PERCHÉ HA PER OGGETTO QUELL’ESSERE CHE PIÙ DI TUTTI HA VALORE, e ogni scienza viene qualificata come superiore o inferiore in base al suo oggetto. (…)

Dobbiamo dimostrare che necessariamente esiste una sostanza eterna ed immobile. Le sostanze, infatti, hanno priorità rispetto a tutti gli altri modi di essere, e, se fossero corruttibili, allora sarebbe corruttibile tutto quanto esiste. Ma è impossibile che il MOVIMENTO si generi o si corrompa, perché esso è sempre stato; né è possibile che si generi o si corrompa il TEMPO, perché non potrebbero esserci il “prima” e il “poi” se non esistesse il tempo. Dunque, anche il movimento è continuo come il tempo: infatti il tempo o è la stessa cosa che il movimento o una caratteristica del medesimo. E non c’è altro movimento continuo se non quello locale, anzi, di questo, continuo è solo quello circolare.

Se, poi, esistesse un principio motore ed efficiente,  ma che non fosse IN ATTO, non ci sarebbe movimento; infatti è possibile che ciò che ha potenza NON passi all’atto (pertanto non avremo alcun vantaggio se introdurremo sostanze eterne, come fanno i sostenitori della teoria delle Forme, se non è presente in esse un principio capace di produrre mutamento; dunque, non è sufficiente questo tipo di sostanza, né l’altra sostanza che essi introducono oltre le Idee [cioè i numeri ideali]; se queste sostanze non saranno attive, non esisterà movimento). Ancora, non basta neppure che essa sia IN ATTO, se la sua sostanza implica potenza: infatti, in tal caso potrebbe non esserci un movimento eterno, perché è possibile che ciò che è in potenza non passi all’atto. È DUNQUE NECESSARIO CHE CI SIA UN PRINCIPIO, LA CUI SOSTANZA SIA L’ATTO STESSO. Per conseguenza, è anche necessario che queste sostanze siano SCEVRE DI MATERIA, perché devono essere eterne, se mai esiste qualcosa di eterno. Dunque, devono essere ATTO. (…)

Dunque il primo motore muove come OGGETTO DI AMORE, mentre tutte le altre cose muovono senza essere mosse.

Ora, se qualcosa si muove, può anche essere diverso da come è. Pertanto il primo movimento di traslazione, anche se è in atto, può tuttavia essere diverso da come è, almeno in quanto è movimento: evidentemente diverso secondo il luogo, anche se non secondo la sostanza. Ma, poiché esiste qualcosa che muove essendo, esso medesimo, immobile ed in atto, non può essere in modo diverso  da come è in nessun senso. Il movimento di traslazione, infatti, è la prima forma di mutazione, e la prima forma di traslazione è quella circolare: e tale è il movimento che il primo motore produce. Dunque, questo è un essere che esiste di necessità; e in quanto esiste di necessità, esiste come bene, ed in questo modo è Principio. (Infatti, il “necessario” ha i seguenti significati: ciò che si fa PER COSTRIZIONE contro l’inclinazione, CIÒ SENZA CUI NON ESISTE IL BENE, e, infine, CIÒ CHE NON PUÒ ASSOLUTAMENTE ESSERE DIVERSO DA COME È).

Aristotele prosegue affermando che il pensiero è la cosa più eccellente rispetto all’agire (superiorità della contemplazione disinteressata sulla sfera pratica dell’azione), il quale è sempre un agire in base al movimento e quindi un mutamento, che è qualità essenziale delle cose materiali; e che il pensiero di sé è il più eccellente di tutti i pensieri, perché in esso l’intelligenza coincide con l’intelligibile, mentre in tutti gli altri casi l’intelligenza deve fare uno sforzo per afferrare l’intelligibile, che è un oggetto esterno ad essa.

Si tenga presente che cosa è la conoscenza per Aristotele, ossia un processo che parte dalla sensazione (nihil est in sensu quod prius non fuerit in sensu); tuttavia nel caso del pensiero che pensa se stesso non si dà sensazione, ma solo il piacere di conoscersi e riconoscersi; o meglio, se si vuol essere ancor più precisi, bisogna dire che sensazione e pensiero formano un tutto unico (cosa evidentemente impossibile, e quasi inimmaginabile, per il soggetto umano). Tale è la realtà di Dio: pensiero di pensiero, atto senza alcun residuo di potenza e, pertanto, atto puro; un piacere infinito che deriva dalla totale coincidenza fra il conoscente e il conosciuto, e quindi lo sciogliersi della conoscenza in assoluta autoconsapevolezza. Si tengano a mente anche le parole di Dante nell’ultimo canto della Divina Commedia, ove il poeta erompe in un grido d’incontenibile esultanza (vv.124-125): O luce etterna che sola in te sidi / sola t’intendi, e da te intelletta / e intendente te ami e arridi!

Da ultimo, il ragionamento di Aristotele compie un passo che, in un certo senso, non ci si aspetterebbe, allorché introduce, accanto ai concetti di contemplazione, atto puro e coincidenza di pensiero e intelligibile, il concetto di vita. Il pensiero, egli dice, è sinonimo di vita: perché dove non c’è pensiero non c’è vita. Dio, pertanto, è qualche cosa di più di un pensiero puro (e astratto) che si auto-contempla e gode infinitamente di se stesso e di null’altra cosa (idea, quest’ultima, assai lontana dall’idea cristiana di Dio creatore e, pertanto, sommamente amorevole e pietoso verso le sue creature): è Vita al sommo grado, Vita per così dire assoluta, molto più “vera” di quella, effimera, degli esseri finiti.

Dice testualmente il grande filosofo (cit., vol. II, p. 244):

Se, dunque, in questa felice condizione in cui noi ci troviamo talvolta, Dio si trova perennemente, è meraviglioso; e se Egli si trova in una condizione superiore, è ancor più meraviglioso. E in questa condizione Egli effettivamente si trova. Ed Egli è anche VITA, perché l’attività dell’intelligenza è vita, ed Egli è appunto quell’attività. E la sua attività, che sussiste di per sé, è vita ottima ed eterna. Diciamo, infatti, che Dio è vivente, eterno ed ottimo, cosicché a Dio appartiene una VITA PERENNEMENTE CONTINUA ED ETERNA: questo è, dunque, Dio.

Ora, si metta per un momento fra parentesi ciò che ci hanno insegnato a scuola, cioè che il Dio di Aristotele è freddo, disumano, distaccato e inaccessibile; che è infinitamente egoista, perché non solo non  ha creato il mondo, ma neppure se ne cura; e che non se ne può curare, perché ciò sarebbe in contrasto con la sua eterna, immutabile, assoluta felicità e perfezione. Si metta fra parentesi questa immagine, che un po’ tutti abbiamo introiettato, fin dagli anni del liceo, del Dio aristotelico, e si rilegga attentamente l’ultima frase del brano sopra citato: [Dio] è anche vita. (…) Diciamo, infatti, che Dio è vivente, eterno ed ottimo, cosicché a Dio appartiene una VITA PERENNEMENTE CONTINUA ED ETERNA.

Non vi è una sostanziale consonanza (per ciò che la ragione naturale di un pagano, con le sue sole forze, poteva consentire) con le Parola del divino Maestro (Lc 20, 28): Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi: perché tutti vivono per lui? Infatti, in quanto causa finale, Dio attira a sé ogni cosa: ogni cosa ed ogni essere tendono a Lui come alla propria meta ultima. La sola differenza sostanziale fra le due concezioni (che, certo, non è una differenza da poco: ma fin lì poteva e può arrivare la ragione naturale senza l’aiuto della grazia; e non oltre) è che il Dio di Aristotele attira ogni cosa a sé, o meglio Egli è il fine di ogni cosa (mentre il Dio cristiano, oltre ad attirare, è anche amore e provvidenza verso le creature, e quindi, pur non essendone “attirato”, perché Egli è infinitamente libero, di una libertà assoluta) nondimeno si protende, per Sua libera scelta, verso di esse (fino al punto di essersi incarnato in un corpo mortale, e di aver scelto la morte per amore degli uomini!), e quindi si realizza un duplice movimento: delle cose verso Dio e di Dio verso le cose. Il che, per Aristotele, è impossibile, poiché il movimento appartiene solo alle cose finite e quindi non si addice in alcun modo a Dio.

Mentre già nell’Antico Testamento (Deut, 5,26) è scritto: Chi infatti, tra tutti i mortali, ha udito come noi LA VOCE DEL DIO VIVENTE parlare dal fuoco ed è rimasto vivo?

E san Pietro, a una precisa domanda del Maestro (e voi, chi dite che io sia?), risponde (Mt 16,15-16): Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente.

E san Paolo, al popolo di Listra che voleva adorarlo, insieme a Barnaba, come fosse un dio (At 14,15):

Uomini, perché fate questo? Anche noi siamo esseri umani, mortali come voi, e vi annunciamo che dovete convertirvi da queste vanità al Dio vivente, che ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che in essi si trovano.

Ora, per Aristotele, la vita è movimento, ma il movimento è generazione e corruzione. È dunque già notevolissimo che, muovendo da tali presupposti, sia giunto a intuire che Dio, atto puro, al tempo stesso è Vita, piena ed assoluta.

 

 

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