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Luca Ricolfi e i rischi del politicamente corretto

Nov 04, 2021

di Comelli Lucia

 

Luca Ricolfi, noto sociologo e politologo italiano, ha iniziato la collaborazione con il quotidiano la Repubblica con un interessante articolo[1], dedicato al ‘politicamente corretto’ e alle sue derive. Un articolo coraggioso, viste le responsabilità del giornale in ordine a tali derive. Per spiegare il fenomeno, Ricolfi osserva che esso è nato negli Stati Uniti verso la fine degli anni Settanta, quando la sinistra – un tempo concentrata sulla questione sociale – ha iniziato ad occuparsi sempre più di altri temi, come i diritti civili, la tutela delle minoranze e l’uso appropriato del linguaggio. Proprio la volontà di riformare il linguaggio ha condotto in pochi anni i liberal a creare una sorta di neolingua che separa come un fossato la sensibilità dei ceti istruiti, e tendenzialmente benestanti, e quella dei comuni cittadini, impegnati con problemi più basilari e concreti. Bandita la parola negro (sostituita con nero), decine di altre parole – come spazzino, bidella o handicappato – sono state sostituite con altri termini più o meno ridicoli, ipocriti o semplicemente astrusi (operatore ecologico, collaboratore scolastico, diversamente abile …). Una svolta linguistica antipopolare che successivamente si è trasformata, soprattutto in America, in qualcosa di pericoloso per la stessa convivenza democratica: l’autore individua i 5 passaggi che, nel giro di un ventennio, hanno trasformato il politicamente corretto in una sorgente pressoché inesauribile di confusione intellettuale e censura. La prima mutazione è intervenuta all’inizio del ventunesimo secolo, quando la diffusione di internet e dei social media ha moltiplicato all’ennesima potenza per i cittadini internauti le occasioni di offendere e di sentirsi offesi. La seconda mutazione è l’espansione della dottrina del misgendering [malinteso] in tutti gli ambiti: cioè di una teoria che considera un errore chiamare qualcuno con un genere in cui questi non si riconosce, ad esempio maschile se è, o si sente, una donna (o viceversa). Secondo le versioni più estreme di questa ideologia, assai diffusa nelle università americane, i professori dovrebbero preliminarmente chiedere ad ogni singolo allievo come vuol essere chiamato (come un lui, una lei o altro). Anche in Italia, si aggiungono regole alla comunicazione scritta, tipo usare come carattere finale l’asterisco, per non escludere nessuno, o (aggiungo io) sostituire a parole universalmente note e care al genere umano come padre o madre, gli orridi genitore 1 e genitore 2 dei moduli adottati in diverse scuole. Università, istituzioni culturali, aziende, compagnie aeree, associazioni LGBT, spesso in disaccordo tra loro, fanno a gara a sfornare codici di parole cui tutti dovrebbero adeguarsi. Con conseguenze paradossali/ demenziali: ad esempio a livello informatico non si può più parlare di quantum supremacy (migliore resa dei calcolatori quantistici rispetto a quelli tradizionali) poiché quest’ultima parola può evocare il dominio oppressivo dell’uomo bianco. La terza mutazione è la cosiddetta cancel culture: l’arte e la letteratura, anche del passato, andrebbe giudicata con i nostri attuali parametri etici e quindi censurata o distrutta ogni qualvolta vi si trovano espressioni o immagini capaci di turbare la sensibilità di qualcuno. Questo è il motivo per cui le statue dei grandi personaggi storici vengono distrutte o imbrattate e il finale della Carmen di Bizet – per evitare di mettere in scena un femminicidio – viene capovolto. La quarta mutazione è la discriminazione dei non allineati: professori, scrittori, dipendenti di aziende, comuni cittadini vengono sanzionati o perdono il lavoro, non perché abbiano commesso scorrettezze nell’esercizio della professione, ma perché in altri contesti, o addirittura in passatohanno espresso idee difformi da quelle dell’élite dominante. Nelle facoltà umanistiche non vengono assunti (o vengono sospesi) gli studiosi non allineati all’ortodossia politica. La quinta, e forse la più preoccupante di queste mutazioni, è la cosiddetta identity politics. Un complesso di teorie e rivendicazioni secondo cui quel che conta veramente non è che persona sei, ma a quale minoranza oppressa appartieni. Da qui derivano le idee più bizzarre: ad esempio che per tradurre un romanzo di un’autrice nera tu devi essere nera, per parlare di omosessualità devi essere omosessuale, per parlare dell’Islam essere mussulmano … Altrimenti pecchi di ‘appropriazione culturale’. Da qui deriva soprattutto l’idea bislacca che per accedere a determinate posizioni non contino talento, preparazione ed esperienza, bensì la ‘giusta’ genealogia: se gli antenati sono maschi, bianchi ed eterosessuali, devi lasciare il passo a chi dispone di avi più graditi all’ideologia dominante. Questo perché i discendenti delle minoranze doc hanno diritto a un risarcimento, mentre quelli dell’uomo bianco devono pagare per le colpe, vere o presunte, dei loro progenitori. Lo scopo delle grandi istituzioni educative, a partire dalle università, non è più quello di promuovere la conoscenza e la ricerca della verità, ma di combattere le ingiustizie sociali, riequilibrando le disuguaglianze con azioni che privilegiano alcune minoranze e penalizzano la maggioranza delle persone e le minoranze non protette. Così la parabola della cultura liberal si compie e l’ideale di Luther King (e di altri leader illuminati del passato), cioè quello di sconfiggere le discriminazioni con l’uguaglianza, si capovolge nel suo opposto: instaurare l’eguaglianza attraverso le discriminazioni.

 

[1] Luca Ricolfi, Le cinque varianti delle parole, in ‘la Repubblica’, 1novembre 2021

 fonte: https://www.sabinopaciolla.com/luca-ricolfi-e-i-rischi-del-politicamente-corretto/

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