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Il ‘caso’ Mattiussi: si deve cercare la verità trovata?

francesco lamendola Oct 10, 2022

di Francesco Lamendola

Si deve sempre cercare la verità? Anche quando la verità è stata trovata, anche quando essa è un possesso attuale? La verità è sempre e solo ricerca e mai possesso, mai luce che brilla definitiva sull’orizzonte delle cose umane? E il filosofo, chi è il filosofo? Uno che cerca sempre e non trova mai? E il teologo? Uno che corre, corre, ma per quanto corra, rimane sempre al di qua della meta? Condannato dalla stessa condizione umana a veder la meta di lontano, a sospirarla senza mai raggiungerla?

Nel riportare, criticandolo o quantomeno mostrandone la supposta intrinseca limitatezza, il pensiero filosofico di Guido Mattiussi (autore, fra l’altro, di opere come Il veleno kantiano e Le ventiquattro tesi tomiste, così si esprimeva lo studioso Giovanbattista Casanova nella sua relazione tenuta a Cividale del Friuli nel dicembre 1970 (G. Casanova, L’antimodernismo di G. Mattiussi, in: La filosofia friulana e giuliana nel contesto della cultura italiana, su: Atti del primo congresso regionale ecc., a cura del circolo filosofico “Paolo Veneto”, Udine, Arti Grafiche Friulane, 1972, pp. 199-201):

«Che differenza c’è fra gli assertori di queste stranezze e i razionalisti che negano la possibilità del soprannaturale [Mattiussi sta parlando de “L’Évangile et l’Èglise” di A. Loisy]… Davvero non la critica a ciò li conduce, ma un postulato falsissimo… Furono perciò bugiarde lacrime di coccodrillo quelle che sparsero gli antipapi di Roma (fra cui il Buonajuti), lamentandosi che nell’enciclica (la “Pascendi”) si ponesse la filosofia qual fondamento delle loro idee» (“Arm. della Fede”, estratto “Modernismo dannato”, p. 23). Con questo giudizio, espresso dopo la condanna di Loisy, egli dava il via a quel comodo metodo che per decenni servì a scaricarsi, in nome del dogma, dello scomodo lavoro di ristudiare le fonti. Per Mattiussi si tratta di cosa certissima: «… gli avversari nostri da una esiziale filosofia furono pervertiti, e questo fece vedere loro la storia tutta a rovescio del vero…» (ib. p. 26 ). Cioè non sarebbe stata la storia, ma la filosofia a farli errare. D’altra pare nell’Apologia (p. 256) aveva detto che per il cattolico «è bestemmia ed apostasia riguardare la storia come regola di fede». Con queste parole egli si riferiva più alla storiografia che alla storia, altrimenti avrebbe dovuto escludere la rivelazione stessa come regola di fede: non è essa forse un intervento storico divino o meglio un intervento di Dio nella storia? Questo problema è ancor oggi insoluto, ma almeno viene studiato a fondo, mentre il Mattiussi sembra non accorgesi della sua estrema gravità. Per lui la fede è un possesso ormai sicuro e non crede necessario di arrischiare questo possesso per andare incontro ai non credenti o ai dubbi dei credenti (che egli esclude come peccati mortali secondo la dottrina della grazia (cfr. “Fede e mente moderna”, in “Rivista di Filosofia Neoscolastica”, 1918, n. 405 sgg.).

Con questa mentalità egli si trova più a suo agio nel combattere l’aspetto speculativo del modernismo: il relativismo dogmatico, l’immanentismo religioso.

Contro il primo, condiviso sia da Loisy che da Tyrrell, parla a più riprese. Ne riassume oggettivamente il pensiero prima di criticarlo. Per es. in “Dogma immutabile” (in “Scuola Cattolica, 1903, p. 205 sgg.) formula questo errore “gunteriamo” come segue: «l’espressione dogmatica che ci dà la Chiesa è relativamente vera, perché secondo le idee correnti e il linguaggio usato non si può aver niente di meglio». In questa relativizzazione egli ravvisa senza difficoltà un effetto del volontarismo che riduce il vero al bene, perché ha perso il senso della verità e dell’essere sotto l’influsso del “veleno kantiano”. Basta ristabilire l’ordine naturale della conoscenza (in base alla scolastica) per rendersi conto che il dogma, come ogni verità, è immutabile. Ed egli intende questa immutabilità valida anche per la formulazione del dogma giungendo a un grado di fissismo rimasto insuperato anche in campo cattolico. Naturalmente parte dal presupposto che i dogmi siano fin dall’inizio “veri” nel senso assoluto da lui dato a questo termine: «se una dottrina qualsiasi è costretta a mutare le sue asserzioni o a mutarne il senso in guisa non conoscere più come esatto ciò che prima aveva ammesso, evidentemente deve confessare che prima non solamente ignorava quel che ora sa, ma che di fatto errava» (ibid. p. 245). I modernisti quindi «errerebbero ancorché si trattasse d’una filosofia puramente naturale; vanno infinitamente lungi dal vero, trattandosi d’una scienza sacra, ove tutto quello che è acquistato si ripone come un tesoro nel santuario e l’autorità veglia affinché nessuno vi tocchi» (ib. p. 253). Ammette nel dogma soltanto quello sviluppo che ne perfeziona le formule senza contraddire minimamente al contenuto e anche qui ne limita al massimo le possibilità per l’avvenire: «… riguardo alla persona di Nostro Signore poco o nulla aspettiamo di nuovi insegnamenti. Crediamo che tutto il progresso da desiderare consista in una più concorde adesione alla perfetta dottrina dell’Aquinate nel magnifico suo trattato dell’Incarnazione, e altrettanto crediamo per tutto ciò che riguarda Iddio Uno e Trino e la natura angelica e la composizione dell’umana natura e l’essenza della grazia e il fine dell’uomo e la divina Eucaristia» (ib. p. 441).

Con questa presa di posizione così estrema e così logica basata sul concetto scolastico della verità e del suo rapporto colla lingua stessa, il nostro Autore crede di eliminare non solo il modernismo del suo tempo, ma anche quello futuro e crede di poter escludere nella Chiesa, fissata dogmaticamente e concretamente infallibile nella sua gerarchia, qualunque cambiamento notevole.

Incredibile ma vero, l’autore di questa critica non pare affatto rendersi conto (e siamo nel 1970, più cinquanta anni fa: oggi, nel clima della Chiesa di Bergoglio, farebbe la figura del timido e quasi del conservatore) che tutto ciò che egli “rimprovera” al padre Mattiussi, o che gli addebita come un comodo metodo che per decenni servì a scaricarsi, in nome del dogma, dello scomodo lavoro di ristudiare le fonti, è al contrario, un’involontaria attestazione della giustezza di quel metodo e del valore di quella posizione intellettuale. Perché, c’è poco da fare, si possono ristudiare le fonti quanto si vuole, ma se tale studio ha per obiettivo una revisione, o comunque una ridefinizione, del dogma, allora bisogna concludere che il dogma se ne va a rimorchio degli studi storico-critici. Vale a dire che il dogma non è affatto un dogma, ossia una verità certa e definitiva di origine soprannaturale, bensì una verità provvisoria e sempre mutevole, destinata a subire continue evoluzioni mano a mano che gli studi cambiano la prospettiva. Eppure si tratta pur sempre di studi storici e di prospettiva storica; mentre la base del dogma non è storica, ma divinamente rivelata; o, se si preferisce restare sul terreno della filosofia naturale, la verità è la verità, e alla verità nulla si può aggiungere e nulla si può togliere, per la contradizion che nol consente, come direbbe il padre Dante.

Ma, obiettano tutti quelli che la pensano come lui, e che oggi sono senza dubbio la maggioranza dei teologi e degli stessi cattolici (educati, questi ultimi, da siffatti teologi modernisti), la rivelazione stessa è un intervento storico divino o meglio un intervento di Dio nella storia; e dunque, ne concludono avventatamente, è giusto applicare anche ad essa il metodo storico-critico, esattamente come per qualsiasi altro fatto della storia. Niente affatto. La Rivelazione è, sì, un intervento di Dio nella storia, ma proprio perché intervento di Dio, che è al di sopra della storia, perché è il padrone della storia, non la si può riguardare alla stregua di qualunque altro evento storico: perché gli eventi storici sono fatti dall’uomo (almeno come cause seconde), mentre la Rivelazione è Dio stesso che si mostra agli uomini, e si mostra nella maniera più radicale: mediante l’Incarnazione del Verbo, la sua Morte e Risurrezione. Dunque, essa è un fatto che irrompe nella storia, ma che non appartiene all’ordine di cose storico; e pertanto è assurdo pretendere di sottoporla al procedimento storico, che è quello di ristudiare continuamente il proprio oggetto, sino a modificare, talvolta in maniera impressionante, il dato iniziale. Se così fosse, bisognerebbe avere il coraggio di dire chiaro e tondo che la fede cattolica si basa su un fatto storico che, come tale, è in continuo divenire e continuamente revisionabile, sicché quel che credono i cattolici oggi non può essere lo stesso di quel che credevano ieri, né di ciò che crederanno domani. Nel qual caso è evidente che non ci troveremmo di fronte a una verità assoluta di ordine soprannaturale, ma di fronte a una verità storica, e perciò umana: dunque non di fronte alla sola vera religione (quella di Colui che dice: Io sono la via, la verità e la vita), ma di fronte ad una costruzione umana, modificabile, estensibile o restringibile; a qualcosa di perituro, così come deperiscono e scompaiono, prima o dopo, tutte le cose umane, senza eccezione alcuna.

Ma poiché essi non hanno questo coraggio, o meglio questa franchezza; poiché preferiscono agire celando le loro vere intenzioni e fingendo d’ignorare dove inevitabilmente li porteranno le loro fallaci premesse, con danno gravissimo e somma confusione sia delle menti che delle anime, ecco che insistono a darsi l’aria di chi cerca umilmente la verità; e necessariamente devono far passare le menti limpide e le anime rette, come il padre Mattiussi, quali esponenti di un modo di credere arretrato, ingenuo, che non vuole confrontarsi con la complessità della cultura moderna ed elimina i problemi di fede fingendo di non vederli.

Che altro significa, se no, affermare che, per Guido Mattiussi, la fede è un possesso ormai sicuro e non crede necessario di arrischiare questo possesso per andare incontro ai non credenti o ai dubbi dei credenti, se non che per vivere la fede e professare la dottrina cattolica bisogna essere pieni di dubbi e bisogna inoltre “andare incontro” ai non credenti, inseguendoli sul loro stesso terreno? Questa è esattamente la strada intrapresa dalla Chiesa dopo il Concilio Vaticano II, teorizzata da teologi come Karl Rahner e attuata da pastori come il cardinale Martini: con quali risultati, lo abbiamo visto e lo stiamo tuttora vedendo, tutti i giorni. Ogni volta che il cristiano, per “dialogare” con il mondo moderno, assume la mentalità dell’uomo moderno, vale a dire lo storicismo, il relativismo, l’umanismo integrale, non accade mai che porti verso la verità e verso la fede il non credente, bensì accade che lui stesso, prima o poi, viene portato lungi dalla verità e dalla fede. Ed è perfettamente logico che sia così, e quelli come padre Mattiussi lo avevano capito: poiché accettare quel terreno, cioè accettare di porre la fede nell’Assoluto sul piano del relativo, confondendo i veri termini della relazione (è l’Assoluto che deve permeare di sé il contingente, non viceversa) equivale infallibilmente a svendere la fede, a prezzi fallimentari, sull’altare degli idoli moderni: la storia, la scienza, la critica.

Basta ristabilire l’ordine naturale della conoscenza (in base alla scolastica) per rendersi conto che il dogma, come ogni verità, è immutabile, dice padre Mattiussi; e la cosa pare al cattolico “adulto”, e in genere al pensiero critico moderno, come terribilmente ingenua e del tutto anacronistica. Come se la questione della verità si ponesse in un’ottica temporale anziché perenne. È per questo che la frecciata contro la scolastica ha un suono falso: non si tratta della scolastica e neppure del tomismo, si tratta di riconoscere se la verità è davvero tale, e quindi, per definizione, immutabile, oppure no. Questa è la vera posta in gioco, e non altra.

Mattiussi parte dal presupposto che i dogmi siano fin dall’inizio “veri” nel senso assoluto da lui dato a questo termine. Nossignori, non confondiamo le carte: non c’è un senso particolare che questo o quell’altro possano dare alla parola “dogma”. Il dogma è l’affermazione di una verità assoluta e totale, per chiunque e in qualsiasi tempo; non c’è un altro significato. Pertanto, dire che padre Mattiussi ammette nel dogma soltanto quello sviluppo che ne perfeziona le formule senza contraddire minimamente al contenuto e anche qui ne limita al massimo le possibilità per l’avvenire, significa soltanto riconoscere che, in un momento nel quale molti stavano perdendo la bussola, egli continuò a veder chiaro e a stare saldo nella vera dottrina cattolica: che non è un frutto della storia, cioè degli uomini, ma della Rivelazione assoluta.

Sì, obiettano a questo punto i modernisti e i neo-modernisti che oggi, infiltrandosi a poco a poco nel corso dei decenni, e poi facendo impeto e conquistando i vertici della Chiesa col Concilio Vaticano II; però se la Rivelazione è assoluta, non lo sono coloro che l’hanno ricevuta, cioè gli uomini, e dunque è logico e necessario che essi, nello sforzo di comprenderla e (come è venuto di moda dire, proprio col Concilio) approfondirla, giungano a scoprire nuovi aspetti di essa. Sicché, al contrario di ciò che diceva padre Mattiussi, una dottrina costretta a mutare le sue asserzioni o a mutarne il senso in guisa non conoscere più come esatto ciò che prima aveva ammesso, NON deve confessare che prima non solamente ignorava quel che ora sa, ma che di fatto errava, bensì, con incredibile faccia tosta, affermare di aver sempre detto il vero, sia prima che poi. E tanto peggio per la logica.

 

 

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