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Pater Noster

andrea di napoli Mar 27, 2024

di Andrea Di Napoli

Amici,

mi sento in dovere di intervenire su una questione oramai nota, divenuta, proprio per la sua stessa portata, oggetto di svariate interpretazioni.

Tengo fin da subito a specificare che i latini fossero soliti nel ritenere che interpretatio cessat – non fit – in claris (l’interpretazione cessa – non può esistere – in ciò che è chiaro).

È evidente, dunque, che un qualsiasi tentativo esegetico, ermeneutico, interpretativo possa spettare solamente a ciò che di per se stesso non si presenti essere chiaro, definito, circoscritto, cristallino. Se vi è chiarezza, se vi è una distinta intenzionalità, se vi è un preciso rimando teleologico, necessariamente non può esserci interpretazione, dunque soggettivismo, relativismo, personalismo.

L’interpretazione è figlia della polivalenza, dell’ambiguità, del camaleontismo, ed è l’antitesi dell’univocità, dell’intelligibilità, della Verità.

Ciò che è Vero non può essere sottoposto ad una deminutio ermeneutica, dalla quale eventualmente far scaturire un indebolimento sostanziale di quello stesso oggetto messo in discussione. La Verità chiede di essere cercata, analizzata, capita, rispettata, vissuta, contestualizzata, ma non manipolata, alterata, depotenziata, trasformata.

L’interpretazione deve essere ancilla veritatis, e non altro. Se diviene altro, allora è dannosa, è inutile.

Entrando nel merito della questione, è accettabile la seguente traduzione del Pater Noster: …e non ci abbandonare alla tentazione…”? Si tratta di una mera traduzione o di un’interpretazione artificiale? Se fosse un’interpretazione, sarebbe onesta? sarebbe rispettosa del testo pervenutoci, dal quale fruiamo appunto questa preghiera?

La mia professoressa di greco era solita esclamare che la traduzione dovesse – e debba – essere come la moglie: ovvero, bella e fedele. …E non ci abbandonare alla tentazione…” è una traduzione bella e fedele?

Forse bella, perché è difficile pensare – e quindi, ascoltare – che un Dio-Amore (ὁ θεòς ἀγάπη ἐστίν, Deus caritas est, Dio è amore) possa mettere alla prova i propri amati – noi figli -. Ma non certo fedele, avendo l’interpretazione modificato il significato univoco del testo sacro.

Dobbiamo immaginare la traduzione essere la forma, ed il testo la sostanza (nel lessico aristotelico, si parla invece di forma/sostanza e materia. La commistione di forma e materia partorisce il sinolo).

La forma ha il compito di conservare e preservare la sostanza. Portiamo un esempio: se un farmaco, per il quale è previsto che sia conservato in frigorifero, viene depositato fuori dal frigorifero stesso, perde la sua efficacia curativa, divenendo non utile.

Questo principio universale (dal latino, unum versus alia), proprio perché universale, vale per altri contesti. Dunque, se la traduzione – cioè le parole – non rispetta più la propria ratio essendi, diviene inutile, fuorviante, nociva.

Questo è ciò che è accaduto ad una parte della traduzione italiana – nazionale – del Pater Noster, ma anche ad altre sezioni di tutta la liturgia, compresa purtroppo quella eucaristica. Per capire quale sia il motivo che oggettivamente impedisca la traduzione “…E non ci abbandonare alla tentazione…”, dobbiamo rifarci necessariamente al testo greco. La sezione di nostro interesse è la seguente:

 καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν, ἀλλὰ ῥῦσαι ἡμᾶς ἀπὸ τοῦ πονηροῦ”,

et ne nos inducas in tentationemsed libera nos a malo”,

e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male”.

 

Nello specifico, occorre attenzionare il verbo greco “εἰσενέγκῃς”, latino “inducas”, italiano “indurre”,

il complemento di moto a luogo greco “εἰς πειρασμόν”, latino “in tentationem”, italiano “in tentazione,

la congiunzione avversativa greca “ἀλλὰ”, latina “sed”, italiana “ma,

ed il complemento di moto da luogo greco “ἀπὸ τοῦ πονηροῦ”, latino “a malo”, italiano “dal male”.

 

Il verbo greco “εἰσενέγκῃς” deriva dalla commistione della preposizione greca “εἰσ” (verso) con l’aoristo del verbo “φέρω” (portare). Dunque, in italiano si può rendere con “portare versoportare in”.

La preposizione “εἰσ” (verso), oltre ad essere il prefisso del verbo “φέρω” (portare), è presente subito dopo, come preposizione del complemento di moto a luogo “εἰς πειρασμόν” (in tentazione). Dunque, assodiamo la presenza di un complemento di moto a luogo, introdotto dall’aoristo del verbo “φέρω” (portare), rafforzato dal suo stesso prefisso “εἰσ” (verso) e l’esplicito complemento di moto a luogo, sorretto dalla successiva preposizione “εἰς” (verso).

Si nota che, tra le due preposizioni “εἰσ” e “εἰς”, la terza lettera sia diversa, pur essendo sempre e soltanto un sigma. Il sigma è differente perché la prima volta non è posto a termine di una parola, la seconda volta, invece, sì.

Dunque, si tratta di un voluto rinforzo.

Andando avanti, si legge la congiunzione avversativa greca “ἀλλὰ”, latina “sed”, italiana “ma”. Quando si utilizza una congiunzione avversativa? Allorquando si voglia esprimere due realtà, due dimensioni, due fenomeni, due concetti tra loro antitetici, discordanti, contrari.

Dunque, dal momento che compare il “ma” avversativo, dobbiamo aspettarci un qualcosa che sia contrario a quanto osservato fin qui, cioè un qualcosa che sia opposto al complemento di moto a luogo. Quale complemento è per antonomasia contrario al moto a luogo? Ovviamente, il moto da luogo.

Andando avanti nella lettura, troviamo infatti (come già scritto sopra) il complemento di moto da luogo, introdotto giustamente dalla preposizione greca “ἀπὸ” (da). In questo caso, “ἀπὸ” (da) necessita del caso genitivo; infatti, “ἀπὸ” (da) è seguito dal genitivo di “πονηρός” (male).

L’elemento che stabilisce la corretta traduzione “…non ci indurre…” è proprio quella piccolissima congiunzione avversativa greca “ἀλλὰ”, latina “sed”, italiana “ma”.

Questa congiunzione avversativa chiede di essere giustificata. E come può essere giustificata una congiunzione avversativa? Unendo due concetti o termini diametralmente opposti.

Dunque, il contrario di “liberaci” non è e non può essere “non abbandonarci”. I verbi “liberare” ed “abbandonare” non sono ontologicamente e semanticamente contrari, antitetici.

Delle volte, l’abbandono può essere una forma di libertà. Basti pensare al tanto citato otium letterario, nel quale il poeta si abbandonava cercando quella libertà poietica, cioè creatrice, inventrice. Ergo, la libertà può coesistere con l’abbandono e viceversa; e la libertà può oggettivarsi nell’abbandono e l’abbandono può essere garanzia di un’autentica libertà.

La congiunzione avversativa “ma” merita di esistere solamente se vi sia una fortissima tensione contenutistica tra due realtà di per se stesse antitetiche.

Dunque, i verbi che meglio rendono questa tensione sono proprio “indurre” e “liberare”. Il verbo “abbandonare”, posto in relazione al verbo “liberare” è troppo debole per giustificare la congiunzione avversativa “ma”. Tra “abbandonare” e “liberare” non occorre il “ma”, non essendo due verbi contrari.

La traduzione corretta, dunque, è necessariamente “…non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male” perché è la sola in grado di giustificare il ma” avversativo.

*Questa rimane solamente un’analisi grammaticale del testo. In molti passi del Testo Sacro, è riportato che Dio metta (e mette) l’uomo alla prova.

Andrea

AD MAIOREM DEI GLORIAM

 

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