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Psicanalizzare Kierkegaard per neutralizzarlo

francesco lamendola Nov 15, 2022

di Francesco Lamendola

Kierkegaard, a quasi due secoli di distanza, dà ancora fastidio.

Ai progressisti, naturalmente.

Dà fastidio un primo luogo perché è antihegeliano: il più sottile, il più agguerrito, il più implacabile (perfino più di Schopenhauer, il che è tutto dire) degli antihegeliani;.

Poi perché è un pensatore dalla forte connotazione  religiosa, un cristiano risoluto e senza ripensamenti, incongruo nel secolo del dubbio metafisico.

E poi ancora perché come cristiano è nemicissimo di tutti gli annacquamenti della fede, dunque di ogni forma e variante del cristianesimo liberale.

E se tutto ciò non bastasse ancora, perché detesta le masse, la retorica delle masse, la democrazia e i suoi riti, il suo conformismo sterile e il suo strumento di potere più spietato e capillare, la stampa: odia i giornali, “le gazzette”, come lui le chiama; e ne è caldamente ricambiato, tanto da subire una lunga e accanita persecuzione da parte del settimanale satirico Il Corsaro dell’ebreo Meïr Aron Schmidt, che uscì con parecchi numeri facendone la crudele caricatura.

Per finire, e per buona misura, Kierkegaard detesta i filosofi e soprattutto i professori di filosofia, e ciò quando tutti i giovani d’Europa correvano ad ascoltare in adorazione le lezioni del professor Hegel (e poi di Schelling, e prima di Fichte); e personalmente ci tiene a non essere considerato un filosofo.

Un buon esempio dell’incomprensione e dell’antipatia mal dissimulata nei suoi confronti da parte della cultura progressista è offerto dal capitolo a lui dedicato da François Châtelet nella vasta Histoire de la Philosophie in otto volumi (Paris, Librairie Hachette, 1972-73) da lui realizzata insieme a numerosi collaboratori.

Châtelet (1925-1985) è stato, più che un filosofo, il tipico professore di storia della filosofia, un intellettuale parigino di estrema sinistra (sua moglie Noëlle, filosofa lei pure, era la sorella di Lionel Jospin, un socialista che diverrà capo di un governo di sinistra dal 1997 al 2002, al tempo della presidenza Chirac): inizialmente trotzkista, poi iscritto al Partito comunista francese e grande animatore, negli anni intorno al ’68, insieme a Michel Foucault e a Gilles Deleuze, della gauche intellettuale. Si può anzi dire che pochi più di lui abbiano contribuito a “marxistizzare” la gioventù universitaria francese, contribuendo all’instaurazione in tutta Europa di quella cappa di conformismo ultraprogressista, internazionalista e rivoluzionario che ha gravato per decenni, almeno fino alla caduta del Muro di Berlino nel 1989, e in certi Paesi, fra i quali l’Italia, anche dopo.

Per redigere il capitolo su Kierkegaard, inserito nel quinto volume dell’opera La philosophie et l’histoire, 1780-1880, Châtelet ha chiamato una prolifica saggista di origine russa, Wanda Bannour, professore associato di filosofia e dottore in lettere, specializzata nei nichilisti russi e nei risvolti segreti nella biografia degli scrittori, con una particolare preferenza per gli angoli pruriginosi, bizzarri ed equivoci, come traspare già dai titoli: Le secret de Tchekhov; L’étrange baronne von Mekk: le dame de pique de Tchaïkovsky; Edmond et Jules de Goncourt, ou le génie androgyne; Pour une démystification de l’ethique; Eros Philadelphe. Frére et soeur, passion secrete. Inoltre era una comunista di sicuro affidamento, come si desume dalle copertine della sua Storia della filosofia: su quella del quinto volume, ad esempio, intitolata spiritosamente Che & Chandler, e  dedicata, chi sa perché, al giallista americano e al rivoluzionario cubano, campeggiano i ritratti sorridenti di Raymond Chandler, con la pipa fra i denti, e di un fascinoso Ernesto Guevara, che Dio solo sa cosa ci stia a fare lì, per una volta, comunque, non col basco e il sigaro Avana, ma con un piccolo sombrero adorno della stella rossa.

Scrive dunque Wanda Bannour, prestigiosa e brillante ninfa Egeria del Quartiere Latino fra gli anni ’60 e ’70 del Novecento, nel presentare ai lettori la figura e l’opera del pensatore danese, nel quinto volume della Storia della filosofia - non la sua, ma quella del suo amico François Châtelet – intitolato La Filosofia e la Storia, 1780-1880 (traduzione di Libero Sosio, Milano, Rizzoli, 1976, pp. 183-185):

Com’è possibile, in effetti, in quanto Individui, scrivere, con parole, idee che appartengono a tutti? Come è possibile far intendere all’altro la modulazione unica della soggettività segreta senza condannarsi in anticipo a rimanere INCOMPRESI? Come è possibile svelare la verità, la quale non può essere altro che soggettiva, con i mezzi dell’oggettività ingannatrice e menzognera? In quest’operazione l’Individuo rischia di essere catturato da quel mostro senza volto che è la folla.

A questo compito impossibile si dedica nondimeno Kierkegaard, trascinato da un’ardente passione.

Una passione enigmatica in chi, come Kierkegaard, ritiene che la vita, nel momento in cui pensa se stessa e si esprime con parole, venga spiata dallo SFIORITO e dal PIETRIFICATO! Strano progetto quello dello scrivere in quest’ammiratore dei vivi silenziosi – Socrate e Cristo – che esordisce proclamando l’impossibilità della scrittura!

Doppiamente curiosi e paradossali siamo noi che ci proponiamo di scrivere su colui che contestò la scrittura, di pensare su colui che contestò il pensiero. Eco dell’eco, sosia del sosia (Kierkegaard è la propria eco e il proprio sosia), gioco di specchi come quello di Nymphemburgh (residenza del principe folle Luigi (Ludwig) di Baviera, riflette all’infinito il riflesso. Doppia corazza di ghiaccio, di cui la prima gela, nello steso Kierkegaard, il fiore del cuore. La seconda, la generalità, fa appassire il primo appassimento della generalità del linguaggio kierkegaardiano.

Deterioramento dell’intimità soggettiva di Kierkegaard, deflorazione del suo segreto, volatilizzazione dell’AROMA DELL’IDEA, ridondanza e sterilità, scandalosa e vana provocazione: tale è, inevitabilmente, ogni parola sull’Individuo Kierkegaard.

La nostra riflessione su Kierkegaard è una riflessione turpe e necessariamente erronea. Come tale la presentiamo, in tutta onestà.

Risparmieremo al lettore il pathos che si accompagna abitualmente a ogni riferimento biografico a Kierkegaard: non parleremo qui né dei problemi connessi al padre di Sören che, sulle lande ghiacciate dello Jylland, si spinse fino a maledire Dio, affondando così nella sua carne la scheggia del peccato. Fidiamo sufficientemente nella cultura psicoanalitica del lettore per evitare fin l’allusione alla “morte del padre”. Non spargeremo lacrime sulla rottura del fidanzamento con Regina Olsen. Passeremo sotto silenzio la bruttezza inqualificabile del nostro autore, il suo attaccamento sospetto al suo ombrello, il suo gusto per la collezione di tazze da tè. Tutto ciò è stato ripetuto a tal punto che la tentazione è quella del “pastiche” piuttosto che della ripetizione. (…)

Benché sovranamente indifferente alla storia, alla città, agli uomini che la abitano, Kierkegaard è un figlio del suo tempo. Del romantico egli ha tutte le caratteristiche, se non tutte le stigmate: la profonda malinconia, la disperazione che si esala nel canto, il “nevermore”, la nostalgia. Tutte queste esperienze di vita si esprimono in un linguaggio singolarmente duttile e poetico. Antihegeliano accanito, Kierkegaard è nondimeno hegeliano nel suo gusto per la delucidazione categoriale e nell’estrema acutezza della coscienza di sé. L’attrazione che egli prova per il demoniaco, attrazione fondamentalmente estetica, è la ripresa a opera dell’intelligenza (quella di Kierkegaard è una bella intelligenza) delle figure mefistofeliche create da Goethe, Byron, Lermontov. Il fascino che don Giovanni esercitò su di lui – egli fu più sedotto che seduttore – è legato all’aspetto musicale, mozartiano, della sua intellettualità voluttuosa. Il suo senso del segreto, del recondito, deriva tanto da Usher e da Melmoth quanto dall“interior interiore meo” dell’Ecclesiaste.

La sua religione è altrettanto ostile alla deduzione razionale di un Dio-Idea quanto all’istituzione irrigidita e menzognera. È un esercizio pericoloso, ansimante, un lavoro senza rete in cui l’abisso spia in ogni istante il cristiano, lo trascina nel vertiginoso prestissimo della seconda sonata in sol minore di Schumann. Non si può certo rimproverare a Kierkegaard una religiosità beata e rugiadosa o, al modo di Kant, di formalizzare abilmente il pietismo.

Kierkegaard non è sfuggito né al morso del peccato né alla visione del vortice della dannazione eterna né a quella, terrificante, del volto coronato di spine. Egli ha vissuto le mille morti del credente che vede il suo Dio, muore e rinasce. Egli è stato a Moriyah con Abramo, con lui ha conosciuto l’angoscia dell’abbandono assoluto, la solitudine fino alla follia, ma con lui, nell’istante della folgorazione, ha anche vissuto Dio. Al di là dell’elemento tragico dell’etica, Kierkegaard sarà il cavaliere della Fede.

Romanticismo e religione si aggrovigliano, nella notte degli abissi, a pulsioni alle quali non tenteremo di accedere; è un’impresa che supera infatti le nostre possibilità e d’altra parte non ha nulla a che fare col nostro progetto. Accontentiamoci di osservare che il caso di Kierkegaard illumina di una luce singolare l’eziologia di queste due nevrosi sublimi, quella romantica e quella religiosa. Per quanto inquietante possa essere la collusione di una sensibilità malata col senso del peccato e il fervore poetico, ammiriamo di passaggio il prodigio del superamento della follia nella scrittura e attraverso la scrittura.

Povero Kierkegaard, in che mani sei finito.

La cosa più nociva è che se un lettore giovane, il quale si accosta al mondo della filosofia quasi privo di esperienza e di malizia (come a noi personalmente è capitato, lo ricordiamo bene, sui vent’anni) legge la Storia della filosofia dello Châtelet (o, peggio, quella di Bertrand Russell); se è interessato Kierkegaard e s’imbatte nel saggio di Wanda Bannour, che cosa ne ricava? Quale impressione gli rimane del pensatore danese? Quella di un povero essere, straziato dal duplice male della nevrosi e del romanticismo; un masochista, un autolesionista, che si è sempre fatto del male a causa di complessi inesplicabili; una bella intelligenza un po’ sprecata, il cui merito maggiore è stato di salvarsi dalla pazzia mediante l’esercizio della scrittura. Che peccato che Freud non fosse ancora nato: vien fatto di pensare che la psicoanalisi lo avrebbe guarito, lo avrebbe infine pacificato con se stesso.

E la cosa più curiosa è che Wanda Bannour esordisce (e conclude) affermando enfaticamente che lei no, non vuole addentrarsi sul terreno psicologico; non pretende di svelare i  misteri dell’anima di Kierkegaard: sarebbe – ella dice - un compito superiore alle sue forze, e del resto la cosa non la interessa. Davvero? Eppure, che la giusta, anzi la sola chiave di lettura del “fenomeno Kierkegaard” e della sua eziologia (sono le espressioni testuali che ella adopra, come parlando di un caso clinico piuttosto serio) sia la psicoanalisti, lo dà semplicemente per scontato: Fidiamo sufficientemente nella cultura psicoanalitica del lettore per evitare fin l’allusione alla “morte del padre”. Che, infatti, non c’entra per niente, semmai il contrario: il padre di Kierkegaard è fin troppo presente, si direbbe incombente, e non è certo un padre assente, né un padre rifiutato dal figlio che, anzi, se ne accolla la colpa originaria. Sovranamente indifferente alla storia, alla città, agli uomini che la abitano? Che sciocchezza: come se rifiutare lo storicismo equivalga all’indifferenza per la storia; criticare la modernità equivalga all’indifferenza per la città (e poi, Kierkegaard è sempre vissuto in città: a Copenaghen; e se n’é allontanato due sole volte, per recarsi a Berlino); e rifiutare la filosofia del generale, come l’hegelismo, fosse il segno di un’indifferenza verso gli uomini. Al contrario! Gli uomini, gli uomini singoli, gli uomini concreti, interessano Kierkegaard a tal punto che egli ha concepito per loro tutto il suo sforzo speculativo, e tutta la sua vita è stata un atto di amore verso di loro.

Non spargeremo lacrime sulla rottura del fidanzamento con Regina Olsen. E invece ne parla, come un cattivo avvocato che sovrabbonda con la figura della preterizione. Passeremo sotto silenzio la bruttezza inqualificabile del nostro autore: il che non ci risulta; anzi, il suo volto, almeno da giovane, era bellissimo, ma si sa, quot capita tot sententiae. Il suo attaccamento sospetto al suo ombrello: confessiamo che questa frase ci riuscita oscura; a meno che si tratti di un’insinuazione non solo gratuita, ma anche d’impareggiabile volgarità. Il suo gusto per la collezione di tazze da tè: e questo non è pettegolezzo e chiacchiericcio da portineria? Che c’entra tutto ciò con il pensiero di Kierkegaard? E come può un lettore ingenuo, fiducioso, che tende a fidarsi dei compilatori di una celebrata storia della filosofia, dopo una simile introduzione, avere ancora voglia di confrontarsi con il pensiero di Kierkegaard? Di confrontarsi seriamente, beninteso: perché la presentazione è tale da renderlo ridicolo ancor prima di averne letto una sola riga. E perché precisare che ella non intende deflorare il suo segreto? Quale segreto? E perché mai la cara signora adopera il termine deflorazione? A cosa allude, cosa si propone di mostrare?

Il suo senso del segreto, del recondito deriva tanto da Usher e da Melmoth quanto dall“interior interiore meo” dell’Ecclesiaste. Questo non è uno sforzo di comprensione: è una demolizione implacabile, mascherata da rigore (pseudo)scientifico. Tirare in ballo Edgar Allan Poe (La caduta della Casa degli Usher) e Charles Robert Maturin (Melmoth l’errante), poi, è un vero colpo basso: Kierkegaard è un pensatore – un filosofo e un teologo – non un romanziere, e come tale, piaccia o non piaccia, ha il diritto di essere considerato. I romanzieri gotici, con le loro case in rovina e i loro incubi e fantasmi, lasciamoli dove stanno, e cioè in un ambito che non c’entra per nulla con la speculazione filosofica.

Nella prospettiva psicanalitica della Bannour, è impossibile uscire dal cerchio stregato del gran sacerdote Freud, o tutt’al più del suo collega e rivale Jung: per lei, le manifestazioni della pensiero e del sapere altro non sono che sindromi di natura psicopatologica (e sia pure sindromi sublimi, furbo escamotage per salvare capra e cavoli). Del resto lo dice apertamente: Romanticismo e religione si aggrovigliano, nella notte degli abissi, a pulsioni alle quali non tenteremo di accedere; è un’impresa che supera infatti le nostre possibilità e d’altra parte non ha nulla a che fare col nostro progetto. Ma non si direbbe proprio. Accontentiamoci di osservare che il caso di Kierkegaard illumina di una luce singolare l’eziologia di queste due nevrosi sublimi, quella romantica e quella religiosa. Ed ecco il nostro Kierkegaard bell’e psicanalizzato, catalogato, “risolto” hegelianamente nella banale conclusione che grazie alla scrittura egli si è salvato dalla follia e forse ha perfino detto qualcosa d’interessante.

Se pure, dopo una presentazione come questa, vi fosse ancora qualcuno animato dall’insana  curiosità di leggerlo…

 

 

 

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