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Psicopatologia del potere & transizione politica

Jan 22, 2022

Attentato contro la Costituzione dello Stato” non è lo slogan che accompagna una qualche manifestazione contro la politica liberticida del governo, né la rubrica quotidiana di una televisione indipendente. È l’intestazione dell’articolo 283 del codice penale, che prevede una pena non inferiore a cinque anni per «chiunque commette un fatto diretto e idoneo a mutare la Costituzione dello Stato o la forma di governo».

Ora, tutto è già stato detto e scritto, almeno da parte di chi non cammina col paraocchi come un cavallo da tiro, sulla violazione dei diritti garantiti dalla legge fondamentale dello Stato, sui provvedimenti arbitrari per forma e contenuto adottati dall’esecutivo in spregio anche alla divisione dei poteri, col silenzio o il concorso del Presidente della Repubblica, ratificatore automatico di ogni decisione illegittima. In una parola, su tutti i fatti eversivi dell’ordine costituzionale condensati intorno ad una epidemia, misteriosa e incontrollata nelle cause e negli effetti, e pur tuttavia prevista poco prima da facoltosi e scelti veggenti, anomala nelle sue dinamiche, imponderabile negli esiti a breve o a lungo termine, aggravata da rimedi risultati inaffidabili, e anche dannosi, e tuttavia imposti di prepotenza.

In ogni caso tale da non giustificare in alcun modo il progressivo sovvertimento dell’ordine costituzionale e dei rapporti sociali nel totale disinteresse per le esigenze di sopravvivenza economica, morale e culturale di una comunità, e nella totale disattenzione per quel bilanciamento degli interessi in gioco che è compito imprescindibile dell’azione politica. 

Insomma, quella che era potuta apparire all’inizio come incapacità di affrontare un fenomeno del tutto sconosciuto si è trasfigurata nella arbitrarietà, sproporzione e irragionevolezza di decisioni che hanno stravolto l’ordine costituzionale, violato spavaldamente i suoi principi fondativi, travalicato i limiti posti ai poteri istituzionali. 

In questo quadro ecco dunque che potrebbe acquistare una sinistra consistenza proprio quell’attentato contro la Costituzione dello Stato, con le relative e pesanti responsabilità penali. Se non fosse che lo stesso raggio di azione di questa norma è stato formalmente disattivato da una legge del 2006, grazie alla quale l’attentato contro la Costituzione dello Stato può essere punito solo se compiuto attraverso «atti violenti». E tali sono per definizione, nel linguaggio giuridico come in quello comune, gli atti che implicano la forza fisica o l’uso delle armi. 

Con il risultato tragicomico, più tragico che comico per vero, che a norma di legge si potrebbero commettere impunemente fatti «diretti e idonei a mutare la Costituzione dello stato o la forma di governo», purché questo avvenga senza impiego di violenza.

Una riforma non da poco, questa da cui risulta la licenza di attentare all’ordine costituzionale purché non si ricorra ad atti violenti, e che nel suo non senso poteva essere letta come la svista di un legislatore distratto. Ma che richiede di riacquistare un senso compiuto ora che il governo in carica, con il concorso di un Parlamento asservito, stravolge il dettato Costituzionale proprio attraverso atti di governo e provvedimenti amministrativi formalmente “non violenti”. Come è noto, non rientra fra questi neppure l’uso delegato di manganelli, idranti, lacrimogeni e simili: cosicché anche i volenterosi resistenti che scendono in piazza, per evitare di essere privati del diritto di manifestare e subire danni fisici irreparabili, sono costretti a dichiarare in via preventiva, ma spesso inutilmente, la propria non violenza. 

Dunque nessuno dovrebbe potersi dolere della violazione dei diritti costituzionali, della confusione tra i poteri dello Stato, dei provvedimenti formalmente non previsti e sostanzialmente iniqui ma usati, come le gride manzoniane, quali strumenti di intimidazione di massa. Del resto, sempre senza ricorrere ad “atti violenti”, anche il Parlamento è stato trasformato in una sorta di pubblico televisivo che applaude a comando. Da ultimo gli è stato sottratto materialmente anche il compito di discutere la legge di bilancio. E questo forse a buon diritto, dato che si tratta di una legge già decisa fuori dai cosiddetti confini nazionali. 

Insomma, il restringimento progressivo dei diritti costituzionali e il simmetrico ampliamento arbitrario del potere coercitivo si è fatto strada grazie ad atti la cui veste burocratica copre il contenuto eversivo. Con il risultato straordinario che anche questo sfugge alla massa mediaticamente addomesticata, la quale assicura al potere anche la propria acquiescenza e persino la propria approvazione, in cambio del rimedio salvifico distribuito con paterna sollecitudine che assicura la salute fisica e l’accesso ai ludi circensi. Il risultato eversivo è stato cosi raggiunto non solo senza il fastidioso spargimento di sangue, ma anche con la riconoscenza del suddito.  

Ma è proprio vero che abbiamo a che fare con una eversione “pulita” dell’ordine costituzionale, perché gli atti con cui si compie non sono da considerare violenti? E dunque, sostanzialmente non punibili? Ovvero, anche se si volesse tenere fermo il senso letterale di quella norma bislacca, è proprio vero che i fendenti inflitti dal governo al sistema costituzionale, e alla trama dei diritti garantiti da esso, non ancora a colpi di mitraglia ma attraverso i provvedimenti illegittimi nella forma e nel contenuto, sadici, irresponsabili, irragionevoli e sproporzionati, non siano da considerare atti violenti nella sostanza? E che alla fine non occorra passare il Rubicone con l’esercito per capovolgere l’assetto costituzionale? 

Infatti, se il concetto di violenza abbraccia da sempre sia quella fisica che quella morale, tutti questi dissennati provvedimenti governativi volgarmente ricattatori, non possono non essere considerati “atti violenti”, e sono anzi un modello esemplare proprio di quella violenza morale elaborata, con tutte le sue conseguenze civili e penali, dal pensiero giuridico occidentale.

Solo a chi non avverta più i miasmi di una democrazia decomposta e di una politica deviata può sfuggire che la sospensione ricattatoria dallo stipendio o la privazione del posto di lavoro, la soppressone del diritto di circolazione e di accesso a servizi pubblici già pagati dal cittadino con le tasse, la esclusione da sevizi culturali, la costrizione fisica a trattamenti sanitari di dubbia o nulla efficacia e innocuità, realizzano una inaudita violenza di Stato. Per non dire del disarmo disonorevole delle forze dell’ordine, della radiazione dei medici quale sanzione per il rifiuto di piegarsi alla falsa medicina imposta dalla politica. Della già ventilata sottrazione dei figli alla famiglia che intendesse difenderli domani di fronte al famigerato obbligo vaccinale. Mentre viene vagheggiata la soppressione della proprietà privata altrui, magari insieme alla abolizione ufficiale e per decreto di quella democrazia che, dopo tanta retorica, pare divenuta improvvisamente innominabile e innominata.

A questo proposito conviene tornare un momento su quella curiosa modifica dell’articolo 283 del codice penale, per chiederci, nella ipotesi che non si sia trattato di un errore lessicale, quali siano state le possibili ragioni di quella strampalata riforma. Una premonizione? Magari la preoccupazione da parte di una classe politica disinibita di procurarsi l’impunità per qualunque spericolata avventura futura? Quando il mondo nuovo dei sudditi computerizzati era già da tempo in preparazione nelle fucine nascoste del potere oligarchico sovranazionale? Oppure un legislatore disincantato sapeva che la democrazia, dalla più antica alle fantasiose varianti moderne, finisce per esaurirsi fatalmente nel proprio contrario.

Del resto non sappiamo con certezza se la forma democratica sia pessima e tuttavia meno nefasta di tutte le altre, come voleva Churchill, ma sta di fatto che essa pare soggetta ad inevitabili processi degenerativi. E dunque si è potuto pensare che occorresse liberare per tempo una transizione politica obbligata da residuali pregiudizi legalistici. Una transizione che implica il trasferimento morbido di liberi cittadini nel recinto cosmopolita, digitale ed ecologico di sudditi non liberi, ma uguali. Una volta si chiamava deportazione, oggi si chiama trasferimento nel mondo nuovo. 

Quale che sia il senso di quella norma, la storia ci insegna che il detonatore di ogni radicale metamorfosi politica scatta puntualmente quando un fattore di crisi si mette a inceppare il sistema, fino a farlo saltare. Oggi la crisi chiamata “emergenza sanitaria” ha fornito quella occasione ghiotta, forse inaspettata, forse programmata, questo non è ancora chiaro, buona per accelerare a tamburo battente il processo eversivo nella distrazione generale indotta dalla situazione di pericolo. Perché è naturale che chi cerca di spegnere un incendio in cucina non abbia il tempo di guardare se un finto soccorritore stia frugando nella camera da letto, e che circostanze eccezionali producano comportamenti anomali sia in chi ne subisce gli effetti sia in chi intende trarne profitto, mentre interventi adeguati sono richiesti da situazioni “emergenziali”.

Ora, toccherebbe alla duttilità della politica far fronte a situazioni di particolare difficoltà attraverso interventi necessari e utili, ma con un occhio attento al principio del bilanciamento degli interessi. Non per nulla lo “stato di emergenza” con cui oggi abbiamo a che fare non è stato preso in considerazione dai costituenti. Essi sapevano come ogni realtà mutevole e imprevedibile che sfugga a precise determinazioni, e richieda interventi straordinari imprevedibili anch’essi, non si presti ad essere incapsulata in formule vaghe soggette a forzature arbitrarie. Hanno preferito tenere fermo il principio che è compito della politica quello di fare fronte a situazioni inaspettate e per questo impossibili da disciplinare preventivamente. 

Tuttavia è stata la legge ordinaria a prevedere una disciplina apposita da applicare in caso di eventi naturali catastrofici ma ricorrenti perché legati alle caratteristiche idrogeologiche del paese. È nata la legge sulla protezione civile a definire anche i presupposti e i limiti per la dichiarazione dello “stato di emergenza”, perché ideata in vista di fatti grosso modo individuati e dalle conseguenze in gran parte prevedibili, anche se con approssimazione: i fenomeni legati ad un terremoto, ad esempio, rientrano ormai in uno spettro di esperienze abbastanza determinato. 

Al contrario una epidemia, legata a fenomeni biologici, ha spesso caratteristiche e dinamiche del tutto inedite e richiede di essere affrontata di volta in volta dalla duttilità della politica che deve tenere conto di tutte le esigenze e degli interessi in gioco, e del loro bilanciamento.

Ma a quanti erano interessati a una transizione politica, occorreva uno “stato di emergenza” legalizzato col quale giustificare qualunque provvedimento formalmente o sostanzialmente arbitrario. Cosi non si è trovato di meglio che estendere alla crisi cosiddetta pandemica quella normativa sullo stato di emergenza previsto dalla legge sulla protezione civile. A costo di violare senza esitazione il divieto di estensione analogica sancito dall’articolo 14 delle Preleggi per cui «le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi, non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati». Cioè, con la violazione di uno dei principi fondamentali della civiltà giuridica. 

Non solo. In nome di questo “stato di emergenza analogico” è stata addirittura travolta la stessa regola del termine massimo di due anni previsto per lo stato di emergenza dalla legge sulla protezione civile. 

Ora, si potrebbe obiettare che la arbitrarietà o meno dei provvedimenti che vanno a colpire l’ordine costituzionale in tutte le sue articolazioni va misurata sulla gravità della situazione che ci si trova a dover fronteggiare. E anzi, che chiunque avrebbe reclamato a buon diritto la necessità di ogni intervento governativo pur doloroso imposto da un qualche evento catastrofico. Ma qui casca l’asino, senza riferimenti agli apparati politico sanitario comunicativi. Infatti, molto presto, dopo il misterioso volo del morbo pandemico dalla Cina fino ai giocatori di tressette di una osteria di Vò Euganeo, dopo i tanti misteriosi lutti iniziali, le cure inesistenti o sbagliate, gli isolamenti controproducenti, e tanto altro, quando era indispensabile prendere atto di errori ed omissioni e aggiustare il tiro sulla situazione che cominciava a dipanarsi oggettivamente, è avvenuta la nota svolta vaccinale. Al mistero della origine, si è aggiunto quello del rimedio. Ovvero del farmaco, dal contenuto segreto e dagli effetti sospetti, imposto progressivamente sotto ricatto, insieme alle restrizioni che hanno affossato la vita economica e culturale. Un farmaco incapace di preservare il singolo dal contagio, nonostante il nome, e di fermare l’epidemia perché inefficace di fronte alle varianti. 

Dunque è proprio la inconsistenza dei presupposti di fatto a rendere irragionevoli e sproporzionate, e quindi arbitrarie, le misure restrittive, e l’obbligo di subire il trattamento non voluto. La sproporzione e l’irragionevolezza privano questi provvedimenti di ogni giustificazione giuridica. 

All’inizio si è potuto anche concedere che questi signori prestati alla politica nulla potessero capire di un fenomeno apparso incontrollabile ogni giorno di più. Ma è stata proprio questa incertezza obiettiva che avrebbe dovuto suggerire un atto di modestia e l’ammissione che si era andati a tentoni nella speranza di acquisire qualche conoscenza certa. Invece a nessuno di questi personaggi più o meno inquietanti e irresponsabili è venuto in mente di fare un discorso onesto, di ammettere ignoranza ed errori, di preoccuparsi di unire e incoraggiare il popolo in uno sforzo comune razionale e ponderato. E questa è in fondo una prova decisiva per capire, anche al di là delle manipolazioni e delle omissioni, al di là della logica dei fatti, che le finalità di costoro non hanno nulla a che fare con la funzione primordiale della politica, cioè con il perseguimento del bene comune. Hanno fornito la prova che il fenomeno epidemico è stata l’occasione da sfruttare per uno spregiudicato e spericolato obiettivo di potere, da esercitare in proprio o su commissione.

Ora non vale più neppure la pena, di fronte ai fatti, di attardarsi sulla questione sanitaria, ovvero sui presupposti erronei e distorti che hanno giustificato agli occhi di una massa confusa e impaurita le iniziative anomale, incongruenti e arbitrarie della politica. Nonostante due anni di confusione e di contraddizioni clamorose. 

Quello che dovrebbe apparire ormai evidente a tutti è che, attraverso una procedura chiamata eufemisticamente di politica sanitaria, attraverso l’uso deviato e abnorme del potere politico e dell’azione amministrativa, si sta realizzando un vero e proprio “colpo di Stato”, ovvero quel sovvertimento socio politico che il cosiddetto popolo sovrano, messo in stato di impotenza cognitiva, in gran parte sembra ancora incapace di percepire, perché stretto tra terrore compulsivo e fede salvifica inoculata per decreto del presidente del Consiglio. 

A questa massa cui è stato concesso di brucare le ultime briciole natalizie sfugge persino la micidiale portata eversiva delle ultime mostruosità partorite dal mero arbitrio del potere. Da una tracotanza che non appare neppure come un delirio mefistofelico, ma piuttosto quale psicopatologia del potere libera da ogni tensione morale, e incline ad ogni iniziativa irresponsabile.

Ora tuttavia la furia crescente con cui si muove appare mossa dal timore che in breve in tanti si accorgano finalmente di essere condotti al macello e si mettano a gridare tutti insieme in articulo mortis davanti alla porta del mattatoio. 

Dobbiamo solo sperare che la rivolta avvenga presto e la ragione rompa questo maligno incantesimo che, più della malattia, mira a paralizzare le nostre vite e mortificare la nostra umanità.

fonte: https://www.ricognizioni.it/psicopatologia-del-potere-transizione-politica/

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