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Si possono umanamente giudicare i pensieri di Gesù?

francesco lamendola Jul 12, 2022

di Francesco Lamendola

Che cosa pensava Gesù Cristo, umanamente parlando, della propria missione terrena? Aveva intenzione di rivolgesi ai soli ebrei o anche ai pagani? E la decisione di rivolgersi ai pagani gli venne solo verso la fine, tanto che poi incaricò san Paolo, che non era stato uno dei dodici apostoli, d’impegnarsi in tal senso? In altre parole: considerava suo dovere riportare gli ebrei alla fedeltà verso l’Antica Alleanza oppure si sentiva chiamato ad instaurarne una nuova, che, essendo fondata sulla sua incarnazione e sul suo sacrifico, necessariamente si estendeva a tutti gli uomini e non ad un popolo solo?

Diciamo subito che questa maniera di porre il problema non ci piace, e infatti l’abbiamo adottata per criticarla dall’interno. È compito arduo, per non dire impossibile, separare il Gesù umano dal Gesù divino: tante antiche eresie lo hanno fatto, ma noi ci teniamo attaccati al magistero di sempre, nonché al parere di tutti i Padri della Chiesa e dei maggiori teologi: il Gesù storico altro non è che l’incarnazione della Seconda Persona della Santissima Trinità nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre, per mezzo della quale tutte le cose sono state create e che di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine, come recita il Credo. Di conseguenza, il Gesù uomo è solo un lato, per così dire, del Figlio Unigenito, quello che si è fisicamente manifestato, e prima del quale Egli esisteva già sin dal principio, e che è ritornato presso il Padre dopo la Resurrezione.

Questa è la maniera corretta di porre ogni altro problema: dopo di che, chiedersi se il Gesù uomo avesse o non avesse la prescienza divina, e sapesse o non sapesse cosa sarebbe accaduto, è una questione che si sgonfia da sé, e cui non si può rispondere se non ammettendo che la natura divina, che in Lui completava e perfezionava quella umana (proprio come la grazia completa e perfeziona la nostra natura), certamente lo metteva in grado di vedere ogni cosa dall’alto, e di giudicare e decidere secondo una prospettiva che non era solamente umana, né era il frutto di calcoli puramente umani. E tuttavia, l’eterna tentazione gnostica torna sempre a far capolino anche fra i cattolici, compresi i sacerdoti, ogni qualvolta la fede s’indebolisce e l’orgoglio umano pretende di capire e stabilire cosa passasse per la mente del Signore durante la sua esistenza terrena, e perfino di giudicarlo e dargli la pagella, a seconda che Egli, umanamente parlando, si sia regolato in maniera secondo noi adeguata, oppure se abbia commesso errori di valutazione circa i tempi e i modi della propria azione.

Queste riflessioni ci sono sorte alla mente leggendo il libro scritto da un padre domenicano sulla vicenda di Gesù Cristo, addirittura suggerendo, fin dal titolo, che una cosa è il Gesù storico, e un’altra cosa il cristianesimo, come se quest’ultimo fosse poi stato costruito retroattivamente sulla figura del Gesù storico: mentre invece, con tutta evidenza, il cristianesimo altro non è che la fede in Gesù Cristo che dice di sé: Io sono la via, la verità e la vita, e: Chi ha visto me, ha visto il Padre, per cui una tale distinzione è illusoria, ingannevole e fuorviante.

I due problemi, l’uno specifico - quando Gesù decise di estendere i benefici della Promessa anche ai pagani e non limitarla più ai soli ebrei – e l’altro generale – se Gesù ebbe chiaro fin dall’inizio il senso del proprio ministero pubblico – sono entrambi presenti nell’opera del frate domenicano Albert Nolan, nato a Città del Capo nel 1934, sudafricano di quarta generazione, dal titolo significativo e un po’ provocatorio: Gesù prima del cristianesimo (titolo originale: Jesus before Christianity, 1976; traduzione dall’inglese di Sergio Betocchi, Bologna, Edizioni Dehoniane, 1988, pp. 94-95):

 

L’ambivalenza dell’atteggiamento di Gesù verso i gentili era uno di quei problemi insolubili, sui quali gli studiosi hanno discusso a lungo, fino a che Joachim Jeremias pubblicò il suo libro “Jesus Promise to the Nations”. In esso viene definita la questione, che la speranza ebraica per il futuro non escludeva i gentili. Alla fine, una volta che fossero stati inflitti gli opportuni castighi, l’intero mondo, inclusi i gentili, sarebbe governato dal vero Dio. Ciò veniva raffigurato, specialmente da parte dei profeti, come un grande pellegrinaggio di re gentili a Gerusalemme, per rendere omaggio al sovrano definitivo del mondo, a Dio stesso. Il mondo era stato governato da diversi imperi. L’attuale impero di Roma sarebbe stato sostituito dall’impero di Israele, che è l’impero del vero Dio. Con questa immagine profetica nella mente, gli ebrei, e in particolare gli scribi e i farisei, si davamo da fare, in un esorbitante sforzo missionario, Jeremias ha anche dimostrato che «Gesù visse nel bel mezzo di quella che era per eccellenza l’età missionaria della storia ebraica» (Jeremias, Jerusalem in the Time of Jesus, London, 1969, p. 12).

Ma per quanto ciò possa sorprendere, Gesù non approvava questo zelo missionario: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio dell’inferno (Geenna) il doppio di voi» (Mt, 23,15). Era, per Gesù, il classico caso dei «ciechi, guide di ciechi, e quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno nel fosso» (Mt 15,14). Gesù, cioè, vedeva le cose in questo modo: gli ebrei avrebbero dovuto cambiare per primi, e solo dopo avrebbero dovuto pensare a mettersi in strada per convertire gli altri.  Che è poi quello che Gesù intendeva fare, ed è il motivo per cui chiedeva ai discepoli di concentrarsi, prima di ogni altra cosa, sullo stesso Israele.

Dal momento che il tempo che restava era poco (la grande catastrofe si avvicinava), e poiché Israele aveva avuto secoli per prepararsi a questo mutamento,Gesù era convinto che Dio esigesse dagli ebrei di operare la grande conversione, che avrebbe poi arrecato salvezza e solidarietà a tutti gli uomini. Quindi egli si concentrava ora sulle pecore perdute della casa di Israele, per amore dell’intero Israele; e si concentrava pi su Israele per amore di tutti gli uomini. Non si trattava di solidarietà di gruppo; era invece, per dirla con una terminologia moderna, una questione di strategia.

Gesù aveva pensato, in un primo momento, che sarebbe stato un processo assai lungo dover spiegare il regno dei cieli ai gentili, e che ci sarebbe voluto moltissimo tempo per risvegliare in loro tanta fede, quanta ne occorreva per effettuare una guarigione. E tutto sommato era forse ero. In ogni caso, Gesù sentì come sua particolare vocazione quella di procurare cibo anzitutto agli israeliti, di non privarli dell’opportunità di operare la grande conversione (per cui Dio li aveva destinati) consumando il poco tempo che gi restava nello sforzo di convertire i gentili. Di qui l’enorme sorpresa, per Gesù, scoprire una donna cananea  che ha una fede sincera (Mt 15,28); e vedere che un centurione romano ha una fede maggiore di quanto egli avesse trovata in Israele (Mt 18,10). GESÙ NON SE L’ERA IMMAGINATO, altrimenti non avrebbe avuto esitazione alcuna ad aiutarli. E tuttavia non poteva supporre che ogni gentile avrebbe reagito allo stesso modo. Era strategicamente più importante, al momento, per amore di ciascuno, che egli si concentrasse sulla casa di Israele. In ciò egli aveva ragione, senza dubbio, anche se alla fine la gente di Israele non rispose nel modo che egli si sarebbe atteso. Il fine restava, allora come oggi, quello di un regno, in cui tutti gli uomini potessero vivere insieme, in una reciproca solidarietà.

 

Riassumendo.

Gesù è un Messia piuttosto confuso (per usare l’espressione del Nolan, «ambivalente»): non solo non ha stabilito con chiarezza a chi intende rivolgere la propria predicazione e ha finito per appigliarsi al partito più limitato e meschino: radunare le pecorelle smarrite della casa d’Israele trascurando tutti gli altri uomini;  ma ha sbagliato nella previsione su come avrebbero potuto reagire i pagani, i quali erano più ben disposti alla conversione di quanto egli non avesse supposto. Tanto è vero che, quando ne fece l’esperienza, provò «una enorme sorpresa», «perché non se lo era aspettato». In realtà, dice il Nostro, nessuno ha mai capito quali fossero le vere intenzioni di Gesù riguardo ai pagani, anzi «il problema appariva insolubile», e tale è stato dal tempo degli Apostoli fino al 1969, guarda caso l’anno della riforma (rivoluzione) liturgica di Paolo VI, e pochissimi anni dopo la conclusione del Concilio Vaticano II. Che è accaduto in quell’anno memorabile? Forse una nuova, potente rivelazione mariana, sul tipo di quella di Fatima? Oppure un documento solenne e chiarificatore del Magistero ecclesiastico? Né l’uno né l’altro: semplicemente, è apparso a Londra il libro di uno spregiudicato teologo tedesco, figlio d’un pastore luterano, Joachim Jeremias (Dresda, 1900-Tubinga, 1979), docente a Gottinga, i cui libri si caratterizzano per la ricostruzione della vita e dell’ambiente di Gesù «al di là della presentazione» che ne fa il Nuovo Testamento, e per tal motivo riscossero un notevole successo di critica e di pubblico. Finalmente qualcuno che parlava di Gesù ridimensionando e tenendo in conto secondario la versione fornita dai Vangeli, dagli Atti degli Apostoli e dalle epistole neotestamentarie.

A padre Nolan, evidentemente, l’interpretazione cattolica delle Sacre Scritture va stretta e, nei casi dubbi, a quel che hanno detto autori marginali e trascurabili come san Girolamo, sant’Agostino, san Giovanni Crisostomo e san Tommaso d’Aquino, preferisce quel che dicono i teologi dell’ultima generazione, quelli spuntati fuori a partire dal modernismo e divenuti fondamentali dopo il Concilio. Giusto, padre Nolan: cos’è questa fissazione di leggere la Bibbia secondo l’insegnamento dei Padri della Chiesa e dei grandi teologi di un tempo ormai lontano? La Chiesa, si sa, è in ritardo di almeno duecento anni rispetto al mondo moderno: bisogna farle recuperare il tempo perduto da generazioni di studiosi cattolici pavidi e oscurantisti, i quali – a differenza dei protestanti - con la modernità non volevano saperne di dialogare, col bel risultato di restare indietro nelle scienze bibliche, nelle ricerche più avanzate e soprattutto nella mentalità, che deve essere sempre più laica ed aperta. Basta con il cattolicesimo da sacrestia e con le vite di Gesù scritte con intenti banalmente devozionali e apologetici. Modernità ci vuole: il faut être absolument moderne, come esortava Arthur Rimbaud.

Quello che più colpisce, e disorienta, nel modo di porsi di fronte alle questioni storiche relative alla vita di Gesù, è il dare per scontata l’assunzione di una prospettiva radicalmente immanente, radicalmente umana, non solo da parte di chi le studia, ma anche da parte di Gesù stesso. Di qui l’idea che Gesù non sapesse bene da dove cominciare, anzi che nel cominciare ragionasse in tutto e per tutto come un comune essere umano, ad esempio calcolando che per convertire i pagani sarebbe stato necessario un tempo troppo lungo (salvo poi scoprire che forse le cose stavano in ben altra maniera) e che, insomma, la sua prospettiva non superasse in nulla quella di chiunque altro si fosse trovato nelle sue stesse condizioni. Evidentemente, in una tale prospettiva ci si può aspettare di tutto, anche che Gesù sbagliasse le sue previsioni e di conseguenza che il cristianesimo sia nato, come dire, un po’ per caso, sotto la duplice azione del rifiuto (inatteso) dei giudei e dell’adesione (anch’essa inattesa) dei gentili.

Comunque, poiché l’adozione della sola prospettiva umana per Gesù Cristo (una sorta di neo-arianesimo aggiornato e politicamente corretto) conduce inevitabilmente a siffatte conclusioni (quale uomo è esente da errori, dopotutto?), tanto vale spingere la cosa il più a fondo possibile, sino a capovolgere la prospettiva: dal punto di vista di padre Nolan, sono gli ebrei che avevano una smania eccesiva di fare proselitismo fra i pagani (ma quando mai? a noi ciò non risulta affatto) e Gesù, “da destra”, cioè da una posizione conservatrice, li rimproverava, perché non s’impegnavano abbastanza per recuperare le pecorelle smarrite d’Israele. Il che vuol dire mettere il Vangelo sottosopra e, ripetiamo, attribuire la nascita del cristianesimo a una serie di coincidenze inaspettate e, per Gesù stesso, imprevedibili.

Invece non è esistito un cristianesimo prima di Gesù, perché Gesù è l’oggetto del cristianesimo, il Messia, il Figlio del Dio vivente. Il Verbo in Lui si è incarnato per estendere a tutti gli uomini i benefici della Promessa. Gli ebrei (come popolo) lo hanno rifiutato e ciò ha semplificato, per così dire, il passaggio dall’antica Legge, quella del peccato, alla Nuova, quella della grazia. Ma Gesù lo sapeva: tutto sapeva da sempre, compreso il tradimento di Giuda, l’abbandono di Pietro e la propria morte sulla croce (che non fu la grande catastrofe, come la chiama padre Nolan, né il fallimento di Dio, come ha detto Bergoglio, ma il vertice necessario del suo piano di redenzione. Lo sapeva perché vero uomo e vero Dio, che non ha bisogno di prender lezioni di strategia da noi esseri umani.

 

 

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