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Si può conoscere la realtà o soltanto la conoscenza?

francesco lamendola Aug 14, 2022

di Francesco Lamendola

Possiamo conoscere la realtà? Possiamo conoscere le cose, o dobbiamo ridurre drasticamente le nostre pretese, e limitarci a conoscere le cose come appaiono a noi? Oppure dobbiamo limitarle ancora di più, e accontentarci di capire in che modo funzionano gli organi e le funzioni del nostro conoscere?

Che la realtà sia perfettamente conoscibile, senza alcuna difficoltà, come si guarda sul fondo di un tratto di mare trasparente e poco profondo e se ne scorge ogni singolo ciottolo, ogni ramo di corallo, è una pretesa ingenua e smodata, poiché ad ogni passo l’esperienza quotidiana ci fa avvertiti che la nostra mente non è una macchina da presa, né le cose si lasciano catturare e riprodurre senza che un qualcosa, un quid inafferrabile, che tuttavia è la loro sostanza originaria, non faccia resistenza e vada in qualche modo perduto, irrimediabilmente, sottraendosi allo sguardo più minuzioso, alla più attenta osservazione. Questo nessuno lo nega e nessuno lo ha mai negato, neppure colui che abbia la più strenua fede nel realismo del nostro conoscere; nondimeno la domanda è: quanto delle cose in se stesse ci sfugge e quanto si lascia afferrare? O meglio, più che quanto, concetto rozzamente quantitativo, dovremmo chiedere: fino a che punto ci sfugge l’essenza delle cose? Fino al punto che quanto di esse ci è dato cogliere è non solamente un’immagine sfuocata ed imprecisa, ma addirittura un’altra cosa, in sostanza una creazione della nostra mente, un oggetto ormai del tutto slegato dall’originale onde l’abbiamo tratto? Fino al punto che sarebbe più giusto dire che noi non conosciamo affatto le cose in se stesse, ma piuttosto delle immagini mentali che poi non sono propriamente immagini, ma delle vere e proprie creazioni, tutte e solo nostre? Sicché, in definitiva, il conoscere non è un uscire dalla nostra mente, per attingere la realtà esterna, ma solo un aggirarsi all’interno di essa, al di fuori della quale nulla sappiamo e nulla in definitiva potremo mai aspirare a conoscere?

La differenza può sembrare sottile, ma c’è. Un conto è affermare che noi possiamo conoscere le cose in maniera approssimata e imperfetta, come quando si guarda in uno specchio opaco, e tuttavia si vedono gli oggetti, sia pure con una certa imprecisione; e un altro, ben diverso, è dire che noi non possiamo conoscere le cose per nulla, e che, di fatto, esse non sono altro dalla nostra mente, ma solo funzioni e processi della nostra attività mentale, sicché, a dire il vero, noi non possiamo conoscere altro da noi stessi.

Già Aristotele, il principe dei filosofi realisti, osservava (Fisica, IV, 14; traduzione di Antonio Russo, Laterza, 1973; in: Aristotele, I classici del pensiero, introduzione di Gabriele Giannantoni, Mondadori, 2008, vol. 1, p. 171):

Si potrebbe, però, dubitare se il tempo esista o meno senza l’esistenza dell’anima. Infatti, se non si ammette l’esistenza del numerante, è anche impossibile quella del numerabile, sicché, ovviamente, neppure il numero ci sarà. Numero, infatti, è ciò che è stato numerato o il numerabile. Ma se è vero che nella natura delle cose soltanto l’anima o l’intelletto che è nell’anima hanno la capacità di numerare, risulta impossibile l’esistenza del tempo senza quella dell’anima, a meno che non si consideri il tempo nella sua soggettività allo stesso modo che se, ad esempio, si ammettesse l’esistenza del movimento senza tener conto dell’anima. Ma il prima e il poi esistono in un movimento, e appunto essi, in quanto sono numerabili, costituiscono il tempo.

Il che, vorremmo dire, non costituisce neppure un vero ragionamento filosofico, ma una semplice constatazione di buon senso. Ma i cosiddetti filosofi moderni, sulla scia di Kant, si sono spinti molto, ma molto più in là: hanno negato che la cosa in sé sia conoscibile; hanno sostenuto che noi possiamo conoscere soltanto il fenomeno, la cosa come appare. E poi ne sono arrivati altri, ancora più conseguenti (c’è sempre un discepolo più conseguente del maestro) i quali sono arrivati a negare che possiamo conoscere altro che il conoscere stesso, staccato da qualsiasi contenuto, colto e analizzato in quanto pura attività mentale, inadeguata a dirci alcunché della realtà fuori di noi, ammesso che esista qualcosa del genere, ma solo ciò che costituisce il nostro universo mentale e la maniera in cui si organizzano le sue funzioni.

Sviluppando ulteriormente questa linea di pensiero alquanto folle (perché trascura il fatto, incontestabile, che il processo conoscitivo è innescato da qualcosa che effettivamente si trova al di fuori della mente, altrimenti non si metterebbe affatto in movimento, la mente restando sempre uguale a se stessa in uno stato di quiete) si sono sviluppate quasi tutte le filosofie moderne: l’idealismo, che rimanda a un’inafferrabile Idea originaria, della quale le cose che noi cogliamo sono solamente copie; l’empirismo e il sensismo, che affermano, sì, l’esistenza del mondo esterno, ma in compenso ipotizzano la mente come una tabula rasa e quindi non sanno spiegare come l’oggetto divenga tale per il soggetto, mentre, in base alle premesse, dovrebbe essere del tutto inesperibile e addirittura invisibile (come può l’occhio vedere la cosa, se il guardare si rivolge a ciò che non ha nulla a che fare con la mente?); lo strutturalismo, che presuppone una realtà fatta di strutture o complessi di funzioni al di fuori dei quali le cose sono del tutto incomprensibili; l’esistenzialismo, per il quale l’esistenza è il dato fondamentale, e tutto ciò che possiamo conoscere non è questa o quella cosa, questo o quel contenuto, ma l’esistenza in se stessa, inseparabile sia dalla mente che vuol conoscere, sia dagli oggetti conoscibili o conosciuti (per cui lo strutturalismo, come si vede, non è che una forma specifica di esistenzialismo); la logica formale e le varie filosofie del linguaggio, per cui non possiamo ambire alla conoscenza della realtà, ma solo a stabilire il grado di verità di un ragionamento o di un enunciato: l’ermeneutica di Gadamer, per cui la comprensione è determinata dalla pre-comprensione. E così via, di limitazione in limitazione, da un’auto-mortificazione all’altra, fino alla piena ammissione che i metafisici si son sempre ingannati e che del mondo non possiamo conoscere proprio nulla che vada oltre la punta del nostro naso, ma solo ciò che, dal criticismo kantiano in poi, è considerato conoscibile, vale a dire la nostra stessa attività mentale.

Gli storici della filosofia se ne sono dati per intesi e da un pezzo non pretendono più di fare la storia delle idee, ma si limitano a mostrare in che modo si organizzano i contenuti della mente, che poi i filosofi del passato, errando, hanno scambiato per forme di conoscenza effettiva delle cose, scambiando cioè per realtà quelli che erano i loro desideri, le loro speculazioni, e in definitiva la loro illusione di conoscere. Perciò, a rigore, la storia della filosofia è diventata la ricognizione “archeologica” di un sapere ingenuo e ingannevole, il cui valore conoscitivo è nullo quanto al reale, ma in compenso offre spunti di grande interesse per capire come funziona la mente e come essa organizza il suo presunto sapere. Su questa linea si collocano autori come Michel Foucault (1926-1984), specie con Le parole e le cose, del quale abbiamo già parlato, ma anche come Ernst Cassirer (1874-1945), che appartiene alla generazione precedente e ha visto e vissuto la belle époque, poi il nazismo, il comunismo ed entrambe la guerre mondiali, del quale ci accingiamo adesso a dire qualcosa.

Sarebbe difficile immaginare un tipo umano più lontano dall’eccentrico, vulcanico Foucault (e infatti, se gli avessero detto che era suo parente in senso intellettuale, si sarebbe assai stupito): professori universitari entrambi, ma quale differenza fra loro! Foucault, contestatore e padrino degli studenti in rivolta del ‘68; nemico del sistema, ma la cui carriera accademica è stata tutta all’interno di esso; anticonformista, ribelle e omosessuale dichiarato; Cassirer, ebreo di Breslavia, libero docente nelle università tedesche e poi, dal 1933, in Gran Bretagna, Svezia e infine negli Stati Uniti; verboso, prolisso, pedante, minuzioso e pignolo, quanto Foucault era lampeggiante d’intuizioni; insomma pesantemente borghese. Guardando il suo album fotografico c’è da chiedersi se sia masi stato giovane, o se anche a diciotto anni fosse serioso, accigliato e triste come a settanta, con quella fronte enorme e quel  cespuglio incredibile di capelli bianchi, simile a una monumentale parrucca o all’acconciatura cerimoniale d’un re polinesiano) quanto Foucault era giovanile, irrequieto, spregiudicato, rivoluzionario per vocazione e per scelta.

In entrambi, comunque, vi era la stessa convinzione di fondo: la storia della filosofia (che entrambi facevano partire, chissà perché, dal Rinascimento, ignorando sia l’antichità classica, sia la più che millenaria civiltà cristiana) non può essere altro che la ricostruzione di come i filosofi moderni hanno creduto di conoscere il mondo, mentre in realtà non facevano che costruire strutture conoscitive, logiche, formali, e spesso ragionamenti problematici, utilizzabili non per i loro contenuti di verità ma perché atti a rivelare il funzionamento della mente nel suo sforzo di organizzare il sapere. In questo senso, appare esemplare il Problema della conoscenza di Cassirer, con le sue migliaia di pagine noiose e meticolose, di qualunque capacità di sintesi e incapaci di trasmetterla più tenue scintilla d’entusiasmo, tanto ammirevoli nello scrupolo documentario che le anima quanto deludenti se qualcuno, leggendole, s’illudesse di capire dove l’autore voglia andare a parare. Una caratteristica, questa, della prolissità, della ripetitività e mancanza di sintesi originali, che accomuna Cassirer ad alcuni autori di casa nostra, non meno fluviali né meno noiosi, da Eco a Galimberti, passando per il troppo celebrato Guido De Ruggiero (ma quanti professori di filosofia nostrani sono stati scambiati per filosofi e celebrati, in regime di monopolio culturale, assai al di là dei loro meriti?).

Scrive Ernest Cassirer nella sua Storia della filosofia moderna (ma il titolo originale è alquanto diverso: Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, vale a dire Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza dell’età moderna, traduzione dal tedesco di Luciano Tosti, Roma, Newton Compton Editori, 1976,  vol. 1, pp. 37-38):

La mentalità ingenua si rappresenta il conoscere come  un processo in cui ci rechiamo a consapevolezza una realtà, riproducendola orinata e articolata  così come esisterebbe in sé. L’attività esplicata in questo dalla mente, resta limitata ad un atto di RIPETIZIONE: non si tratta che di ricopiare e far nostri, nei loro singoli tratti, dei contenuti che ci stanno dinnanzi nella loro compiuta compagine. Fra l’”essere” dell’oggetto e il modo in cui questo si rispecchia nella conoscenza, a questo livello della riflessione non sussistono né tensione né antitesi: i due momenti  sono distinguibili secondo non la natura, ma esclusivamente il GRADO. La scienza, che si pine il compito di cogliere e abbracciare fino in fondo le DIMENSIONI delle cose, è in grado di soddisfare solo a poco a poco tale esigenza. La sua evoluzione si compie per singoli passi successivi, nei quali a poco a poco essa s’impadronisce di tutta la molteplicità degli oggetti che le stanno dinanzi, elevandoli allo stato di rappresentazione. In questo la realtà viene pensata sempre come un’entità fissa, quiescente in se stessa, il cui perimetro basti ripercorrere interamente, perché la conoscenza sia in grado di chiarire e rendere rappresentabile in tutte le parti la realtà medesima.

Ma già gli esordi della contemplazione teoretica del mondo scossero al fede nella raggiungibilità, anzi nell’intrinseca possibilità della meta che questa concezione volgare pone al conoscere. Già con essi si fa subito evidente che, in ogni sapere concettuale, abbiamo a che fare non con una semplice riproduzione, bensì con una strutturazione e una intrinseca TRASFORMAZIONE del materiale che ci si offre dal di fuori. La conoscenza acquisisce tratti peculiari e specifici e giunge a una distinzione qualitativa e contrapposizione di se stessa al mondo degli oggetti. Anche se di fatto la visione ingenua di fondo può continuare a sortire i suoi effetti e a pretendere un suo predominio nell’ambito della teoria astratta, con l’inizio della scienza ha già perso indirettamente le sue radici. D’ora in poi il compito è mutato: esso consiste non nella descrizione imitativa, bensì nella SCELTA e nell’ARTICOLAZIONE critica che devono compiersi sulla molteplicità delle realtà percepibili. Le divergenti indicazioni della sensazione non sono più accolte  né giustapposte regolarmente, ma vengono interpretate e articolate in modo tale da scompaginarsi in una struttura complessiva unisona, sistematica. Non più semplicemente la cosa singola, bensì l’esigenza di coerenza intrinseca e d’intrinseca non contraddittorietà, avanzata dal pensiero, costituisce d’ora in poi il prototipo supremo sul quale commisurare la “verità” delle nostre rappresentazioni. In forza di tale esigenza, l’indistinto e uniforme “essere” della visione ingenua si scompone in settori separati, e viene a delinearsi una sfera dell’autentica, essenziale conoscenza, delimita dosi rispetto a quella circumferente dell’”apparire” e della mutevole opinione. d’ora in poi è l’INTELLIGENZA scientifica a fare delle condizioni e, ad un tempo, dei diritti della sua propria natura, la misura dell’ente. Sul fondamento e sulla giustificazione di diritti, sulle prime non ci s’interroga; in piena e spregiudicata sicurezza il pensiero dispone dei contenuti empirici, determina, attingendo a se medesimo, i criteri e le leggi secondo cui vanno plasmati.

Non di meno il pensiero non può irrigidirsi in questa prima autocertezza ingenua, per significativa e feconda che essa gli appaia. La critica a cui ha sottoposto l’immagine del mondo propria della visione immediata delle cose, racchiude, se compresa e condotta più a fondo, un urgente e difficile problema che investe il pensiero stesso. Se il conoscere non è più semplicemente la copia della concreta realtà sensibile, se è una forma originaria peculiare, che va imposta e sviluppata a poco a poco di fronte alla contraddittorietà e alle resistenze che oppongono le singole fattispecie della sensazione, ecco che si fa invalido il fondamento che si era dato in precedenza alla certezza delle nostre rappresentazioni. Quelle fattispecie, non possiamo più confrontarle immediatamente con i loro concreti “originali” esterni, ma dobbiamo bensì scoprire in esse medesime il contrassegno e la regola che conferiscono loro saldezza e necessità. Se il primo passo è consistito nel liquidare la certezza e stabilità apparenti degli oggetti di percezione, dando fondamento alla verità e stabilità dell’essere in un sistema di CONCETTI scientifici, ora e in prosieguo si dovrà riconoscere che nemmeno in questi concetti ci è offerto un possesso ultimo, inattaccabile e aproblematico. È solo in questa consapevolezza che si compie l’autoriflessione FILOSOFICA dello spirito. Se la scienza s’accontenta di dissolvere il multiforme mondo dei colori e dei suoni dell’universo degli atomi e dei movimenti atomici, conferendogli certezza e durata in unità e leggi costanti e definitive, il problema autenticamente filosofico nasce solo là dove anche questi protoelementi dell’essere siano intesi e interpretati come CREAZIONI DEL PENSIERO. (…)

Non è facile scegliere una citazione da Cassirer, perché le pagine fitte, fitte, del Problema della conoscenza formano una barriera pressoché inattaccabile; sono come un campo trincerato romano, costruito apposta per non offrire il più piccolo varco al di fuori di quelli, sorvegliatissimi, stabiliti dal costruttore stesso. E infatti non vi si trovano quasi dei punto e a capo, né paragrafi che sia agevole scorporare dal tutto: è una superficie continua che non offre alcun appiglio, paga di custodire gelosamente la propria auto-referenzialità. Nessuna sintesi, nessun riassunto, nessuna conclusione.

Pure, una cosa emerge abbastanza chiaramente: la misura dell’ente è determinata dall’intelligenza scientifica. Probabilmente è per questo che la ricognizione di Cassirer parte del Rinascimento: prima, a suo giudizio, non esisteva una scienza degna di questo nome; e se non vi è scienza, non può esservi nemmeno conoscenza. Anche la filosofia, dunque, è una scienza, o qualcosa di molto simile alla scienza, e da questa deve imparare come si  fa a conoscere: vale a dire, destrutturando gli oggetti e “liquidando” la loro apparente certezza e stabilità. La conoscenza non è più conoscenza di oggetti, ma di concetti: questo è il primo passo. Il secondo consiste nel comprendere che la conoscenza del mondo è in effetti un atto di auto-riflessione dello spirito. E si noti con quanta disinvoltura Cassirer parla dello “spirito” come del soggetto della riflessione: facendo rientrare tranquillamente dalla finestra ciò che aveva creduto di far uscire dalla porta, ossia un soggetto del conoscere che sia totalmente oggettivabile e la cui conoscenza sia realmente oggettiva e staccata da ogni traccia di soggettività. Da dove viene dunque codesto “spirito”; da dove viene codesto “pensiero”, che, hegelianamente, pare proprio anteporsi all’essere, e cosituirsi quale fondamento di ogni successiva operazione della mente? Di più: se il pensiero crea i proto-elementi dell’essere, come dice Cassirer, come possiamo noi riconoscergli lo statuto ontologico che ne faccia il garante della gnoseologia? Come si passa dalla psicologia dei proto-elementi all’ontologia del Pensiero e dello Spirito?

Sono domande scomode, per chi non fa altro che ripetere quanto fosse “ingenua” e “volgare” la visione positiva e realistica del conoscere. Ma poi, dopo tanta ingenuità e volgarità, arrivano i professori di filosofia, i Cassirer e i Foucault, i quali ci spiegano in bella maniera che il conoscere dei realisti era tutto uno scherzo; e meno male che ora ci sono loro, coi piedi ben piantati sulla terra.

 

 

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