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CONFRONTO TRA GRAZIA, FEDE E GIUSTIZIA (ultima parte)

emanuele sinese libertĂ  e persona Jun 06, 2025

di Emanuele Sinese

Il 19 maggio papa Leone XIV prende possesso della Basilica di San Paolo fuori le Mura.

Nell’omelia il Santo Padre mette in risalto tre elementi portanti dell’esperienza di fede cristiana: la grazia, la fede e la giustizia.

GIUSTIZIA
L’etimologia del termine “giustizia” deriva dal latino iustus e significa “giusto”. Secondo il modello greco romano, il concetto di giustizia è radicato nella realtà naturale, la quale garantisce coordinazione e armonia nei rapporti umani. Per i pitagorici la giustizia è l’armonia del cosmo espressa a livello simbolico dai numeri. La giustizia consta quindi nel moltiplicarsi dei numeri positivi maggiori di zero per se stessi.


Il modello di giustizia in Platone

Nel IV libro de “La Repubblica” Platone chiarisce il concetto di giustizia. Il filosofo afferma che la giustizia non si limita ai soli atti dell’uomo, ma piuttosto essa ha la funzione di regolare quanto il soggetto ha in sé. A livello sociale la giustizia si fonda sull’equa distribuzione dei benefici di una città ai suoi abitanti. Compito del governante, sottolinea Platone, non è la ricerca del potere, ma lo sviluppo comune e la tutela degli strati sociali più indigenti. La giustizia consta nel fare ciascuno il suo, quindi ognuno deve occupare la sua posizione. Dal punto di vista naturalista, la giustizia è l’equilibrio naturale a cui l’uomo deve appoggiarsi. Si evince che la giustizia da un versante è la virtù dell’ordine e dall’altro è consentire a ogni cittadino di svolgere il ruolo sociale che in riferimento alle sue capacità e conoscenze può effettuare.

Il paradigma di Aristotele
Aristotele riconosce che la giustizia è la virtù più importante per governare le Poleis. La politica, quale scienza pratica e parte dell’etica, deve garantire il benessere dei singoli cittadini. Sorge l’istanza su cosa sia l’etica. Dal punto di vista filosofico aristotelico essa è la riflessione sul comportamento dell’uomo e suoi valori che orientano le sue scelte. Fu infatti Aristotele ad introdurre
tale termine, quale sinonimo della morale, che è poi la casa dell’uomo; in quanto la facoltà del soggetto è la ragione incanalata verso il bene. La politica quindi aiuta e conduce l’uomo nella realizzazione della sua natura. La prima forma naturale del soggetto è l’incontro con l’altro, aperto alla costituzione della famiglia. La famiglia è l’istituzione fondante delle Poleis la cui politica ha il
compito di tutelare dalle numerose incursioni funeste. La politica quindi è l’utilizzo corretto della ragione, affinché si costituiscano condizioni comuni favorevoli.

Cosa intende quindi Aristotele per giustizia? L’uomo può compiere azioni corrette e scorrette, quindi anelare al bene, oppure al male. La virtù è quindi la disposizione dell’animo ad anelare al bene. Essa si suddivide in etica e dianoetica.
Virtù etiche: si acquisiscono mediante l’abitudine. Si pensi all’eroe. Chi è l’eroe? E’ colui che oltre a essere coraggioso è anche temerario. Il coraggio è una virtù che a sua volta si distingue in altre due virtù: paura e temerarietà. Ogni virtù, ivi la giustizia, è sottoposta all’egida della massima che è la prudenza, quale ausilio all’uomo nella comprensione di cosa sia il bene in determinato contesto o
situazione. La virtù etica vuole così essere di ausilio all’uomo, affinché contrasti i vizi e le passioni egocentriche.
Virtù dianoetiche: si acquisiscono mediante l’insegnamento. Esse necessitano di un maestro e un allievo. La giustizia per Aristotele è una virtù etica, essa rispetta il profilo dell’uguaglianza e risiede nella legge. L’uomo giusto è colui che sottomesso alla legge non compie ingiustizie. La giustizia è propria di chi rispetta le leggi. In divenire Aristotele chiosa che la giustizia si ramifica in differenti elementi: distributiva (uguaglianza tra i cittadini), commutativa (i rapporti tra i cittadini vengono regolati dai differenti contratti), rettificatrice (l’intervento dello Stato per riparare il torto subito).

La giustizia è quindi nei suoi accidenti sempre in correlazione alla legge. Il fine della legge è il bene, che non è il benessere. Il bene è l’azione massima, che dispiega le capacità dell’uomo. Il benessere è invece una condizione materiale ed economica. Il bene consente all’uomo di accedere alla felicità.
La giustizia nel modello filosofico moderno Bacone come Platone e Aristotele reputava la giustizia un prerequisito per la crescita, così come lo sviluppo della società. Una società corretta ed equa consente all’uomo di vivere in armonia e di
raggiungere gli obiettivi comuni. Per Bacone la giustizia è sempre correlata alla conoscenza, quindi essa è un prerequisito per lo sviluppo delle scienze il cui fine è il nobilitare l’uomo, mediante anche l’ausilio della giustizia.


L’accentuazione antropologica di Leibniz
Leibniz nei saggi di teodicea presenta e affronta uno dei temi principali della filosofica, così come della morale: se Dio esiste da dove proviene il male? Se Dio non esiste da dove proviene il bene? Leibniz sostiene che la risposta a tali istanze va cercata nella natura delle creature, dacché in essa si riflettono le verità eterne insite nell’intelletto, poste da Dio nell’uomo. Il male per Leibniz serve a far gustare il bene e può contribuire ad una perfezione maggiore di chi soffre. Per Leibniz solo con l’ausilio della ragione, che contraddistingue l’uomo dagli altri esseri animali, si giunge alla conoscenza della verità, allora del bene che Dio ha posto nell’uomo. Leibniz pur facendo un costante riferimento a Dio non lo reputa la Rivelazione. Egli infatti dimostra la sua esistenza mediante argomentazioni razionali, per esempio il filosofo afferma nell’ottica dell’ottimismo che il mondo, proprio perché creato da Dio, è il migliore dei mondi possibili e il male altro non è che la parte di un disegno più ampio di Dio per giungere alla massima perfezione. Dio è la causa prima che crea
il cosmo, divenendo però una garanzia morale e non la salvezza eterna.


La giustizia secondo il modello teologico
La giustizia è uno dei principali attributi divini. Essa è già indicata nei racconti veterotestamentari: Levitico (19, 36), Deuteronomio (25,1), Salmi (1,6) e Proverbi (8,20). La giustizia di Dio è correlata all’evento cristico. Essa è la grazia che libera e salva. La liberazione in tal frangente è spirituale, prima ancora che antropologica. Spirituale nel senso che l’uomo anzitempo necessita di essere
liberato dal peccato, quale attaccamento alla materia, che se occlusiva non correla le creature con il creatore.


Giustizia nella Torah: la vicenda di Giobbe
Giobbe è l’uomo perfetto nella giustizia. Egli era certamente trapassato dal peccato, in quanto creatura, ma la perfezione che lo contraddistingue fa capo al fatto che in ogni sua relazione ha adottato la giustizia divina. Quale insegnamento offre Giobbe? Egli è stato trascorso da ingenti prove e difficoltà, che non lo hanno però scisso da Dio e condotto a rinunciare alla fede. La sua vicenda pone e mette in luce la contraddizione tra la giustizia umana e la giustizia divina.

Giobbe indica all’uomo che la giustizia di Dio è grazia e amore. Codeste superano in circolarità ermeneutica con la virtù cardinale (giustizia) le aspettative umane, infatti la manifestazione si attua nella crocifissione del Figlio di Dio. Lui l’agnello senza macchia si è fatto peccato, perché noi non vivessimo più per il peccato, ma per la giustizia.


L’apporto di Sant’Agostino
Agostino ricorda che la giustizia è un concetto legato e correlato alla legge di Dio e all’amore. La giustizia non è una mera questione umana, ma una virtù che attribuisce a Dio quanto gli è dovuto. Quindi? A Dio si deve obbedienza e culto. L’obbedienza consta nell’ascolto. Ascolto della sua parola, quale alleanza sponsale con gli essenti. La parola poi assume vitalità nell’Eucaristia che è la
concorporatio cum Christo, ossia intima unione con Dio la quale mediante la fede in Cristo può divenire fraternità cristiana, che è evento anzitempo soprannaturale. Il culto cristiano non è un esecuzione ritualistica di preci, ma la gioia della festa. La festa cristiana, la domenica è il ristoro dell’anima, che scaturisce dall’incontro con il Risorto. E’ l’Eucaristia che rende giusto il credente, perché giustificato dalla grazia liberante. La grazia chiede al soggetto di essere però accolta, essa non si appoggia all’uomo rimanendo inerte, ma agisce se egli è propenso all’accettazione. Grazia e giustizia sono comparate, in quanto il fine primo ed ultimo è il Regno dei Cieli. La giustizia ha certamente una valenza antropologica, che però non deve cedere al primato autoreferenziale.

Essa deve anelare al soprannaturale, come cita Sant’Agostino nel De Civitate Dei distinguendo la città terrena corrotta dal peccato e dalla scissione, dalla città celeste quale sede della giustizia e della pace. Nelle parole di Sant’Agostino non vi è una doppia predestinazione, ma una costatazione storica e fattiva della condizione umana, che in relazione al libero arbitrio deciderà se convergere al
bene o perdersi nel male.


Giustizia secondo la Dottrina Sociale della Chiesa
La giustizia afferma il Compendio della Chiesa cattolica è la virtù cardinale che, in unione allo sviluppo integrale della persona, la conduce anche ad una corretta vita sociale. Al n° 201 chiosa:

La giustizia come virtù morale cardinale, inserendola nel contesto dello sviluppo integrale della persona e del cammino spirituale specifico del cristiano.

Il Magistero richiama quindi alle classiche forme di giustizia: commutativa, distributiva e legale. La giustizia sociale è si importante nella dimensione in cui sia sottoposta alla legge, essa concerne gli aspetti sociali, politici ed economici, con particolare attenzione alla risoluzione di tutti quei problemi che riguardano i singoli individui.

La giustizia è poi in circolarità con la carità, al n°206 sempre il Compendio della Chiesa cattolica redige:

La carità presuppone e trascende la giustizia: quest’ultima «deve trovare il suo completamento nella carità». Se la giustizia è «di per sé idonea ad “arbitrare” tra gli uomini nella reciproca ripartizione dei beni oggettivi secondo l’equa misura, l’amore invece, e soltanto l’amore (anche quell’amore benigno, che chiamiamo “misericordia”), è capace di restituire l’uomo a se stesso». Non si possono regolare i rapporti umani unicamente con la misura della giustizia: «L’esperienza del passato e del nostro tempo dimostra che la giustizia da sola non basta e che, anzi, può condurre alla negazione e all’annientamento di se stessa… È stata appunto l’esperienza storica che, fra l’altro, ha portato a formulare l’asserzione: summum ius, summa iniuria». La giustizia, infatti, «in ogni sfera dei rapporti interumani, deve subire, per così dire, una notevole “correzione” da parte di quell’amore, il quale – come proclama San Paolo – “è paziente” e “benigno” o, in altre parole, porta in sé i caratteri dell’amore misericordioso, tanto essenziali per il Vangelo e per il cristianesimo».


La carità è l’agape. E’ l’amore. La giustizia non può essere fine a se stessa, ma deve essere congiunta con l’amore. L’amore divino è relazione che corregge, rinvigorisce e con pazienza attende i mutamenti delle sue creature. L’amore di Dio come proclama San Paolo è paziente, benigno, sostanzialmente è misericordioso, quindi evangelico.


L’Eucaristia forma eccellente di giustizia
L’essenza dell’esperienza di fede cristiana consta nel nutrimento eucaristico. L’Eucaristia non è un esclusivo rito perpetrato, ma anche una forma di giustizia riparatrice e distributiva. Il pane e il vino, specie eucaristiche, divengono all’epiclesi segno di giustizia distributiva: essi infatti forniscono al
credente i principali e sostanziali elementi di vita. Si potrebbe in riferimento affermare “Sine dominico non possumus1. Senza il giorno in cui celebriamo il trionfo della giustizia sul male non possiamo. La giustizia consta nel riconoscere e affermare il diritto di dedicare il giorno di riposo a
Dio. Un cristiano per essere se stesso ha bisogno di questo costante nutrimento. L’Eucaristia è inoltre una forma di giustizia riparatrice, in quanto perdonati. Il perdono diviene operosità mediante il Sacramento della Riconciliazione, ove sperimentando ancora una volta la discesa dello Spirito Santo godiamo della misericordia e conseguentemente siamo chiamati a perdonare. Nella
celebrazione del divin sacrificio dobbiamo chiedere la grazia pneumatologica di saper perdonare, come Lui uomo giusto dalla croce ha compiuto. Il perdono è il presupposto per realizzare una fattiva ed effettiva giustizia sociale, che in nome del Sommo Bene favorisca il bene comune a diniego del male. La giustizia sociale deve essere sempre subordinata a Cristo quale logos vero ed effettivo. Se scissa da Lui si intercorre nel personalismo storico che considera Dio solo come
garante istituzionale, proprio come fece il filosofo francese Emmanuel Mounier negli anni Trenta del Novecento, il quale definì il cristianesimo la base per applicare i valori fondamentali dell’esistenza.

1 E’ la celebre frase pronunciata da uno dei 49 martiri di Abitina (odierna Tunisia), che aveva ospitato in casa sua quanti si erano ribellati al decreto dell’imperatore Diocleziano che proibiva la pratica del culto cristiano. Prima di essere giustiziato nel 304, interrogato sulla motivazione per la quale aveva disatteso l’editto imperiale, dichiarò: “Sine Dominico non possumus”, cioè “Non possiamo vivere senza la celebrazione domenicale”.

FONTE : Libertà e Persona

 

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