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La gioventù bruciata ha 70 anni

marcello veneziani May 17, 2025

di Marcello Veneziani

Settant’anni fa nacque il mito della gioventù bruciata che fu il modello a cui si ispirarono le generazioni ribelli degli anni sessanta e settanta. In principio fu un film, Gioventù bruciata, con James Dean; film di culto e di formazione, diventato modo di dire, divisa generazionale, modello di ribellione e conflitto generazionale.

Quel film vide la luce nel 1955 e il suo protagonista perse la luce nello stesso anno, nei giorni di settembre. Un film che parlava di angeli infelici e maledetti, dalla vita spericolata e breve, e così fu davvero per i tre protagonisti che morirono tutti e tre, giovani, con morti strane e violente: Natalie Wood, Sal Mineo e appunto James Dean.

Il film era stato girato da Ray con l’ossessione di interpretare la realtà ed Elia Kazan che lo dirigeva, chiedeva agli attori di identificarsi con i personaggi. Lo fecero fino in fondo, a prezzo della vita. Caso tragico di film che sconfina nell’esistenza dei protagonisti. Quel film, non eccezionale dal punto di vista artistico e cinematografico, diventò la bibbia di una generazione, anzi di più generazioni. Quella coetanea, alimentata da Elvis Presley e da Marlon Brando, protagonista di Fronte del Porto e dei giovani bruciati che ne seguirono; poi venne la generazione beat e il rock negli anni sessanta, a soffiare sul fuoco venne la guerra nel Vietnam e poi la rivolta nei campus e nelle università.

Ma col passare del tempo quel film ha assunto un altro sapore: ora che navighiamo tra famiglie sfasciate, coppie separate e figli allo sbando, quel film ne proponeva il ritratto con più di mezzo secolo d’anticipo. Quella gioventù sbandata e bruciata, in preda ad alcol, velocità, rock e droga, usciva da famiglie distrutte, da madri psicolabili e da padri infantili frustrati. Quel ritratto precorreva il mondo contemporaneo: naturalmente allora come ora, non tutti i giovani ebbero e hanno quella sorte: ma si tratta di un campione rappresentativo che porta all’eccesso una tendenza sociale e generazionale di fondo.

James Dean era bello e malinconico, con la faccia d’angelo e l’occhio inquieto, le labbra imbronciate che dicono senza parlare, jeans e maglione. Morì ragazzo con l’auto lanciata a folle velocità e così rimase il simbolo della trasgressione e della gioventù che non invecchia, dell’irrequietezza che si fa avventura, gioco estetico ed esistenziale, morte precoce e mito americano. La vita gli risparmiò la parabola di Marlon Brando, il suo corpo sfatto e obeso, la sua fuga in Polinesia per recuperare l’origine.

Live fast, die young: James Dean rispettò quel suo motto alla lettera, dalla velocità fino alla morte. E la sua canzone preferita, Nature boy diventò la colonna sonora dei suoi devoti. Dean è il simbolo dei figli di divorziati, lui che nutriva rancore verso i padri e soffriva la mancanza di una madre. Nella Valle dell’Eden interpretò il ruolo di figlio di puttana, non per modo di dire. Ma James Dean e il suo film rappresentano soprattutto un modello, il Ribelle.

Il titolo originale di Gioventù bruciata era infatti Ribelle senza una causa (Rebel without a cause). Un titolo che riassume bene il senso della ribellione negli anni seguenti: la ribellione come stile di vita senza scopo, il nichilismo e l’estetismo di fondo, il piacere assoluto dell’esperienza vitale e singolare.

I comunisti italiani stroncarono quel mito, non solo per antiamericanismo militante ma anche perché vedevano in lui tracce di superuomo, individualismo e decadenza. C’era un forte moralismo nei comunisti di una volta. Con toni da giornale conservatore la rivista comunista Nuova generazione condannava Dean e i beat in cui vedeva “un allucinante intrecciarsi di misticismo, evasione, jazz e marijuana. Il frutto ultimo e più esasperato di quello squallore e di quella paura d’affrontare la realtà, quel complesso infantile”. Sembra la critica ante litteram dei vecchi padri moralisti ai sessantottini e ai giovanilismi… “Vie nuove” di Pietro Longo stroncava Dean e invocava una tutela pedagogica su questi sbandati e sulla loro sindrome di Peter Pan. Qualche anno fa Stephen Gundle ricostruì la storia de “I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca”, con la critica del vecchio Pci moralista e conservatore ai ribelli e ai beat.

In effetti, il ribelle nasce da una costola anarchica e libertaria della cultura dannunziana e nietzscheana. Quattro anni prima del Rebel era uscito il Trattato del ribelle di Ernst Junger. E il Nichilista di Gottfried Benn, l’Autarca di Evola, l’Anarca dello stesso Junger, il Kurtz di Conrad e l’Avventuriero di Lawrence somigliano troppo ai film di Dean o ai libri di Kerouac, ai viaggi di Chatwin e ai testi di Ginsberg.Il ribelle è figlio di un romanticismo impazzito, debordato dalla letteratura nella filosofia attraverso tre modelli: l’Unico di Stirner, il Prometeo del giovane Marx e il Superuomo di Nietzsche.

Il ribelle porta sull’orlo delle sue estreme conseguenze l’Occidente che non crede in nulla eccetto che nella sua potenza e velocità; per incontrarsi alla fine con un vago desiderio d’Oriente, di pause mistiche, spezie ed erbe. Al ribelle però manca l’ultima ribellione: quella contro la prigionia nel proprio egocentrismo e nel proprio narcisismo, la convinzione che l’unico dio sia d’Io.

Di quello patì la generazione di James Dean ma anche di quello patiscono i ragazzi d’oggi in preda al delirio di viversi addosso e di considerare che il mondo nasca e finisca con loro. Quel mito ci aiuta capire l’oggi e i suoi precedenti, i ragazzi sbandati e le famiglie spappolate. James Dean fu il capostipite dei ragazzi d’oggi, morto ragazzo e di quel film che ne celebrò la nascita e insieme la scomparsa. Col ‘68 la ribellione diventò politica e sociale, collettiva e aggressiva; invece siamo tornati all’individualismo trasgressivo e autodistruttivo, al trionfo del privato e del narcisismo; al disagio di vivere e all’era della fragilità. La solitudine riprese il sopravvento sul collettivismo.

(Il Borghese, maggio, 2025)

FONTE : Marcello Veneziani

 

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