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Onestà, lavoro e famiglia, tre pilastri da non perdere

franco arosio il timone samuele pinna Jun 09, 2025

di Samuele Pinna

Volevo incontrare chi si è occupato a livello dirigenziale della cosa pubblica, lavorando dietro le quinte pur rimanendo – sebbene in modo celato – sulla breccia degli eventi: «Il ruolo del manager in sanità – mi confida infatti il mio interlocutore – richiede una vita di duri sacrifici e di nascondimento». Sono a colloquio con il dottor Franco Arosio – monzese, classe 1934 – che ho conosciuto quando sono stato chiamato a collaborare con la Cattedra Marco Arosio di Alti Studi Medievali – da lui sostenuta –, insegnando presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum (APRA) di Roma. Le sue prime parole sono un inno di fede: «Credo nella Provvidenza e ne ho avuto segni tangibili durante la mia vita e che aiuta sempre ciascuno di noi».

Il suo curriculum vitae è di tutto rispetto: è stato impegnato quale Professore a contratto di Organizzazione aziendale presso il Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Milano Bicocca, dopo una carriera interamente dedicata alla gestione manageriale della Sanità, in ambito pubblico e privato, si è specializzato anche in bioetica presso l’APRA. Ha ricoperto l’incarico di Direttore Generale Amministrativo del “Carlo Besta” di Milano (1967-2001), dopo una carriera amministrativa presso l’Ospedale Maggiore (Cà Granda e Policlinico) dal 1957 al 1967; Direttore scientifico di progetti organizzati in collaborazione con il Ministero della Salute, il C.N.R. e la Regione Lombardia, ideatore e cofondatore e primo Vice Direttore vicario nel 1999 del CE.RI.S.MA.S. (Centro di Ricerca e Studi in Management Sanitario) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, autore di oltre trenta pubblicazioni nel settore del management sanitario. Cofondatore e Vice Presidente dell’IRRCS “Eugenio Medea” della Nostra Famiglia e dell’IRRCS “San Giovanni di Dio” di Brescia, e altro ancora. La sua esperienza biografica di amministratore pubblico rappresenta un paradigma luminoso di onestà e trasparenza: «Questo – mi viene confidato – non lo ritengo un merito, perché un amministratore pubblico è tenuto, proprio per il suo ruolo, ad assumere atti improntati a un’integrità assoluta». Mi vien da sottolineare che la sua è stata una vita interamente dedicata al lavoro nella gestione manageriale della Sanità pubblica: «Oso dire di più: “consacrata”! E in particolare in un istituto scientifico di elevato prestigio internazionale nel settore delle neuroscienze. Mi è difficile condensare, in poche parole, oltre quarant’anni di lavoro, la quasi totalità a livello dirigenziale, ma mi sono reso conto di come fosse fondamentale per la buona riuscita del mio compito la capacità di progettazione e di mediazione, continue battaglie per salvaguardare un patrimonio pubblico di scienza e ricerca, che dev’essere anche, allo stesso tempo, un luogo di assistenza, dove si cura non un cliente, ma l’uomo che soffre». Fermo il fluire delle parole espresse con vigore giovanile e incalzo, chiedendo di cosa oggi abbiamo bisogno: «Si deve riscoprire la necessità di un umanesimo consapevole, che guidi le scelte progettuali, anche delle amministrazioni e del management sanitari».

È innegabile il dover riconoscere a chi siede davanti a me – insignito nel 1999 dall’allora Presidente della Repubblica dell’onorificenza di Grande Ufficiale della Repubblica Italiana – di aver esercitato un’attività e una competenza manageriali sempre protese all’innovazione della Sanità milanese: «Quando dovetti condurre il “Carlo Besta”, mi trovai a dover gestire una istituzione caratterizzata da un’arretratezza gestionale e tecnologica che vedeva un profondo squilibrio tra settore amministrativo e sanitario e bisognosa di valorizzare la ricerca scientifica  In tanti anni di lavoro, giorno dopo giorno, sono riuscito a riportare il bilancio in attivo, aggiornare e informatizzare l’intera struttura tecnico-amministrativa e sanitaria, introdurre progetti pilota nei settori del sistema di gestione delle attività, tecnologie informatiche, etc., portando il “Besta” a conquistare, insieme con valenti professionisti di eccellenza, in condivisione con illuminati amministratori e strumentazione di avanguardia, una posizione di leadership non solo nel contesto della ricerca italiana, ma anche nel panorama internazionale delle neuroscienze».

Per una persona che è riuscita a raggiungere gli obiettivi prefissati, qual è l’aspetto di vita che ritiene vincente? «È quello della capacità di dedicarsi al lavoro con impegno costante e sacrificio totale. Ricordo il consiglio che mio padre mi diede, uomo saggio e capace. Il segreto del successo, nella esistenza di un uomo, può essere sintetizzato in tre parole: “lavoro, lavoro, lavoro”; faceva seguire a questi imperativi categorici l’esempio, che rendeva manifesta la teorizzazione del messaggio rivolto ai figli. Accanto a questo primo aspetto, si pone il valore ineludibile della famiglia: la famiglia dev’essere coesa e unita, centrale, sebbene in una prospettiva di sussidiarietà, nella costruzione dell’edificio complessivo della nazione italiana. Le mura fortificate che difendono la civitas sono composte da tanti mattoni corrispondenti a ogni singola unità familiare: se, nel mosaico formato dall’insieme delle famiglie, iniziano a collassare, sgretolandosi, troppi mattoni, alla fine sono le mura stesse a crollare. Di qui la necessità di politiche sociali a favore della famiglia, della maternità e del mondo del lavoro. Onestà, lavoro e famiglia: tre pilastri che devono rimanere a fondamento, anche nel futuro, della nostra società». Incalzo: intravvede dei pericoli all’orizzonte? «Vedo con grande preoccupazione sorgere richieste di omogeneizzazione culturale: non comprendo perché dovremmo rinunciare alla nostra tradizione storica e valoriale, per annullarci in un’indistinta mescolanza di religioni, culture, etc. Si tratta di una tentazione deleteria e fallimentare, propria di chi – per ingenuità o stupidità – disprezza se stesso e le proprie radici. Il nostro territorio è fiorito e vive nel benessere perché fondato su precisi valori, che possono essere identificati sul fondamento di ricerche storiche e sociologiche, dunque scientifiche, non certo devozionali: perché dovremmo rinunciare a quello che è il nostro principale vanto, per essere fagocitati nell’annullamento della nostra eredità culturale e storica? Mi pare un comportamento illogico, irresponsabile, al limite del cupio dissolvi, dell’autoannientamento».

Queste riflessioni mi fanno spostare l’attenzione sull’accesa questione di una forte immigrazione che proviene da popolazioni del sud del mondo. Chiedo conto a una persona che ama la sua terra (nel 2024 ha ottenuto la benemerenza “Premio Beato Talamoni” della Provincia di Monza e della Brianza): «Vorrei riportare una testimonianza – mi viene confidato –, un risultato importante per la Città di Monza, Mi riferisco alla mia idea, realizzata, di rendere “Il Duomo di Monza con la Regina Teodolinda testimone di un cultura di pace per l’Umanità”». Oltre alla sua città natia, il dottor Arosio si è speso anche per la Milano capitale della laboriosità intelligente (nel 1998 gli è stata consegnata la benemerenza civica “Ambrogino”): «è doveroso riscoprire e mantenere fermi i nostri valori, che hanno consentito, negli anni Sessanta, di integrare componenti culturali provenienti da altre immigrazioni di massa, dalle campagne del Veneto e del Meridione d’Italia. Quell’apporto fu determinante e vincente per lo sviluppo di Milano, proprio perché la città seppe accogliere e integrare etnie italiane di diversa cultura e tradizione. Così dovrebbe avvenire anche per questa ondata di immigrazione, che vede la complicanza della componente religiosa, diversa rispetto alle radici cristiane della nostra cultura».

L’accoglienza verso tutti non deve coincidere con il livellamento della propria identità, così da renderla indecifrabile. Solo dalla verità può nascere il rispetto reciproco tra i singoli e le nazioni: «Sì, perché senza la verità nascono le divisioni che portano all’odio». E l’odio su larga scala – aggiungo – si chiama guerra: «La guerra è sempre una rovina, una sciagura. È l’occasione per compiere efferatezze e crudeltà inenarrabili, diventa strumento di morte e distruzione, è la condizione nella quale viene resa legittima ogni sorta di violenza e negazione del diritto. L’uomo, che Pascal definisce “sospeso a mezzo fra l’angelo e la bestia”, nello scatenarsi degli eventi bellici nega la propria dignità creaturale, unico – tra gli esseri viventi – capace di contemplare il vero, il bene, il bello. Portato per natura a stabilire legami di solidarietà e collaborazione sociale, si abbassa a una condizione di ferocia più infima e abietta di quella che connota le lotte ferine tra belve. Costruire invece la pace, valore immutabile del diritto naturale dei popoli, deve essere un imperativo categorico universalmente riconosciuto. A tutti gli uomini di buona volontà spetta un compito immenso: ricomporre i rapporti di convivenza tra i singoli esseri umani, tra i cittadini e le comunità politiche dell’ecumene, nutrendo un profondo rispetto verso l’intera umanità. L’opera di educazione alla pace esige che tutti gli uomini, in particolare i governanti, estendano la loro mente e il loro cuore al di là dei confini della propria patria, deponendo ogni egoismo e ogni ambizione di supremazia. Abbiamo il dovere di spendere le nostre migliori energie per il rafforzamento di questo bene, la pace. Ma la pace rimane solo un vuoto suono di parole se non è fondata sulla verità, costruita secondo giustizia, posta in atto nella libertà».

Non posso esimermi dal domandare a un uomo carico di anni, esperienze e saggezza che cosa fare per costituire un mondo più giusto. «È necessario, nel contesto reso assai più complesso dalla globalizzazione dei mercati e dell’informazione, riuscire a mantenere in equilibrio due pilastri: la competenza e la carità, la gestione rigorosa del denaro e il valore della dignità dell’uomo in ogni scelta che ponga l’individuo al centro della propria considerazione, evitando, quindi, l’alienazione del profitto e il mito del super-uomo come metro per misurare i valori dell’esistenza e, al contempo, dissolvendo le fantasie dirompenti e violente di sogni ideologici, che – nel passato – si sono trasformati in incubi, per coloro che sono stati costretti a viverli nella prassi storica».

Mi accommiato da Franco Arosio, uomo dalla profonda fede, molto generoso, e che non si stanca di progettare iniziative capaci di trasformarsi in bene per tutti: «Non arrendersi mai – è il suo motto –, sempre avanti!».

FONTE : IL TIMONE

 

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