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Il giorno del ricordo

Feb 10, 2022

di Lucia Comelli

 

“Il 10 febbraio di ogni anno[1] il nostro Paese celebra il Giorno del Ricordo, in memoria di tutte le vittime delle foibe e del forzato esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati italiani sullo sfondo della più complessa vicenda del confine orientale[2]. Come ha ricordato nel 2014 il Presidente del Senato, Pietro Grasso:

Questa giornata è dedicata alla memoria di migliaia di italiani dell’Istria, del Quarnaro e della Dalmazia [circa 350.000] che, al termine del secondo conflitto mondiale, subirono indicibili violenze trovando, in molti, una morte atroce nelle foibe del Carso. Quanti riuscirono a sfuggire allo sterminio furono costretti all’esilio. L’occupazione Jugoslava, che a Trieste durò quarantacinque giorni, fu causa non solo del fenomeno delle foibe ma anche delle deportazioni nei campi di concentramento jugoslavi di popolazioni inermi. In Istria, a Fiume e in Dalmazia, la repressione Jugoslava costrinse molte persone ad abbandonare le loro case. La popolazione italiana che apparteneva a quella regione fu quasi cancellata e di quell’orrore, per troppo tempo, non si è mantenuto il doveroso ricordo.

La legge che istituiva la ricorrenza era stata infatti approvata dal Parlamento e poi promulgata soltanto nel marzo del 2004, abbattendo un muro di silenzio che – soprattutto sulla vicenda delle foibe – era durato moltissimi anni.

In questo modo il Paese si era finalmente assunto la responsabilità – come disse nel suo discorso di commemorazione il 10 febbraio 2007 l’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano – di aver negato, o teso ad ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell’averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali  Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una “pulizia etnica.

Circa dieci anni prima del discorso di Napolitano, appena trasferita come insegnante di storia e filosofia a Cividale, mi ero ritrovata a parlare pubblicamente a colleghi e studenti della strage di Porzûs,[3] un eccidio strettamente collegato ai disegni espansionistici slavi. La richiesta mi era stata rivolta da Liana, brillante studentessa originaria delle Valli del Natisone, nonché rappresentante di istituto, per introdurre la visione dell’omonimo film del regista Renzo Martinelli. Si trattava una sfida difficile per me, che ero l’ultima arrivata, accresciuta dalla presenza di molti colleghi aderenti al Partito Democratico e a quello di Rifondazione Comunista, formazione politica cui peraltro era iscritta la stessa Liana (una scelta politica piuttosto frequente tra chi era di origine slovena come lei). Accolsi comunque la sfida e in qualche modo me la cavai abbastanza bene, studiando molti testi e soprattutto facendo riferimento, durante l’affollatissima assemblea, agli Atti del Processo di Lucca (1952), che ricostruivano in modo ampio e rigoroso il succedersi degli eventi, per concludersi con la condanna degli esecutori della strage[4].  

Fu in questo periodo che conobbi Marco Pirina, lo storico che per primo ha rotto il pluridecennale silenzio sulle foibe: alla tenacia con cui egli ha raccolto per anni migliaia di testimonianze e documenti sugli eccidi accaduti in queste terre (anche suo padre era stato assassinato dai partigiani sloveni) si deve l’inizio di un processo che ha portato al riconoscimento pubblico dell’esistenza stessa delle foibe (cavità carsiche che vennero usate per occultare i corpi di moltissime vittime)[5].

Per questa opera meritoria, Pirina fu naturalmente accusato da molti studiosi locali di formazione marxista di essere un fascista (per la sua militanza giovanile nel Fuan e perché a invitarlo a parlare nelle loro scuole erano per lo più studenti ‘di destra’, dato l’inesorabile ostracismo della Sinistra verso i dissenzienti), ma io lo sentii concludere un suo intervento in un liceo udinese dicendo che si era assunto il compito di dare voce a chi era stato costretto al silenzio, non per spirito di vendetta (aveva infatti perdonato agli assassini del padre), ma per un senso di giustizia e di pietà verso tante vittime innocenti e questa è semplicemente la posizione di un cristiano!

In compenso, anche a Cividale, insegnanti ‘progressisti’ continuavano a negare durante le lezioni l’esistenza stessa delle foibe, anche se quella di Basovizza era ormai da anni (cioè dal 1992) riconosciuta come Monumento Nazionale.

Nel 2008, quando ormai insegnavo al liceo classico della mia città, ebbi modo di ripensare alla tragedia degli esuli istriani, un’intera popolazione – abitante da secoli i territori che avevano fatto parte della Repubblica di Venezia – sradicata e dispersa, ascoltando l’esame di maturità del mio allievo, Matteo S. Questi iniziò l’esposizione della sua tesina (L’esilio e la nostalgia) leggendo il telegramma con cui il bisnonno paterno, di cui portava il nome, supplicava il governo di liquidargli al più presto la somma di 28 lire che aveva destinato ai profughi, perché: a 56 anni sono scappato con mia moglie e i 3 figli, portando con noi solo quello che siamo riusciti a tenere tra le mani.

Fu la prima e l’unica volta che uno studente mi parlò di questo dramma familiare: ho constatato negli anni un diffuso pudore tra i discendenti di profughi istriani a parlare di queste vicende, spesso sconosciute o travisate dal resto degli italiani.  Ha scritto Claudio Magris due giorni fa in un articolo sul Corriere:

Le genti che lasciarono la terra rossa istriana, portandosi dietro masserizie e ricordi, incontrano non solo disagi e difficoltà, ma pure incomprensione e ostilità. Nell’Italia di quegli anni la concorrenza è spesso dura anche per un pezzo di pane; c’è inoltre talora pure un rifiuto ideologico, l’idea che chi lasciava la Jugoslavia comunista di Tito era presumibilmente fascista o poco meno[6].

E Galli della Loggia:

Nel 1947 in tanti, accecati dall’ideologiaaccolsero quei profughi con disprezzo e dileggio trattandoli da venduti, da nemici del popolo[7] …

Ripensando alla storia di Matteo e ad altre vicende similari, scoperte a fatica tra persone che mi erano care, ho visitato tre anni fa con i miei studenti dell’ultimo anno alcuni luoghi, a Trieste e dintorni, che sono assurti a simbolo della violenza umana nella storia del Novecento, come la Risiera di S. Sabba, la Foiba di Basovizza e l’ex Campo Profughi di Padriciano. Ho sperato in questo modo di coltivare in me e in loro – assieme allo spirito critico – la virtù della compassione, un’attitudine alla comprensione e al perdono, che ritengo essenziale per tenere assieme un Paese come il nostro, lacerato ancor oggi da tanti contrasti, oltreché stremato dalle difficoltà economiche e da una serie innumerevole di norme soffocanti, discriminatorie e spesso insensate.  

 

 

Riferimenti:

[1] La data prescelta è la stessa in cui nel 1947 fu firmato a Parigi il Trattato di pace che assegnò alla Jugoslavia l’Istria e la maggior parte della Venezia Giulia, prima italiane.

[2] Certamente la discriminazione nei confronti della minoranza slava, iniziata già sotto i governi liberali e peggiorata durante il Fascismo, ha avuto il suo ruolo e la sua responsabilità in questo dramma di confine. Così come la sciagurata occupazione italiana della Slovenia (1941-1943).

[3] Anche la lotta armata di resistenza ebbe in Friuli, per collocazione geografica e particolare composizione etnica della regione, caratteri specifici ed originali. In Friuli operarono due grandi formazioni Partigiane: la Garibaldi di ispirazione comunista, e la Osoppo, nata dall’accordo tra DC e PdA, che raccolse tutte le forze non comuniste. Le mire territoriali del movimento di liberazione sloveno sul Friuli orientale, mire cui avevano aderito i capi delle formazioni garibaldine, provocarono, soprattutto verso la fine del conflitto, contrasti e momenti di forte tensione tra le stesse forze partigiane. In particolare nel febbraio del 1945 fu massacrato a Porzûs nel corso di una spedizione organizzata dai garibaldini, il comando della Brigata orientale della Osoppo, che più direttamente si era opposta alla slavizzazione forzata del territorio. Tra i partigiani trucidati c’era il comandante della Brigata est degli osovani, il capitano Francesco de Gregori (nome di battaglia Bolla), zio dell’omonimo cantautore e medaglia d’oro al valore militare in memoria.

 [4] Condanna ribadita dai processi successivi. Nel 1959 subentrò comunque per tutti gli imputati l’amnistia.

[5] Fondatore con la moglie del centro studi Silentes loquimur, Marco Pirina aveva cercato i luoghi in Jugoslavia in cui migliaia di vittime vennero massacrate, intervistando i vecchi dei luoghi – ultimi testimoni degli eventi –  e visionando i documenti di decine di archivi storici (come quello della Corte suprema di Belgrado): in questo modo ha realizzato un Registro delle vittime del confine orientale dal 1943 al ’47 (senza distinzione di appartenenza politica), in cui  ricostruisce l’identità e la fine di 7.000 persone scomparse. I loro nomi, documenti e fotografie occupano ben 4 volumi.

[6] Una voce dal lager di Tito. Il dramma istriano e la repressione jugoslava raccontati da Ligio Zanini, Corriere della Sera, 8 febbraio 2022, pp.32 – 33.

[7] E.G. della Loggia, L’esodo dei nostri fratelli. Italiani d’Istria e Dalmazia. Ivi, p.22.

fonte: https://www.sabinopaciolla.com/il-giorno-del-ricordo/

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