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Il suicidio assistito e il mito dell’autonomia

corrispondenza romana fabio fuiano universitari per la vita Aug 18, 2023

di: Universitari per la Vita

È notizia dell’8 agosto scorso che una ASL della regione Friuli Venezia Giulia, ha fornito ad una donna di 55 anni di nome “Anna” (nome fittizio datole dall’Associazione Luca Coscioni) il farmaco per procedere col cosiddetto “suicidio assistito”. Prima di lei, il 23 luglio scorso, in Veneto, lo stesso farmaco venne somministrato ad una donna malata oncologica di 78 anni, soprannominata “Gloria” dalla medesima associazione. Ciò è stato possibile a causa della sentenza n. 242/2019 della Corte Costituzionale che ha reso lecita l’agevolazione al suicidio a determinate condizioni, a seguito del processo contro Marco Cappato per aver accompagnato il Dj Fabiano Antoniani in Svizzera per morire. Questa preoccupante, seppur prevedibile, escalation di casi, deve portare il mondo cattolico e pro-life a riflettere su cosa ha innescato questo vortice di morte. Risulta quindi utile riflettere sul concetto di “autonomia”, portato avanti dai radicali per le proprie battaglie a favore di eutanasia e suicidio assistito, così da evidenziarne le origini e le insanabili contraddizioni.

Ci faremo aiutare in questo dal prof. Mario Palmaro, autore del libro Eutanasia, diritto o delitto? Il conflitto tra i principi di autonomia e di indisponibilità della vita umana (Giappichelli, 2012) che, al capitolo VI (pp. 73 e ss.), parla proprio del concetto di autonomia, propedeutico ad eutanasia e suicidio assistito.

Tale concetto è legato all’idea di “uomo” che si è declinata in modi diversi a seconda delle epoche. Basti pensare che nella tradizione classica pre-cristiana vigeva la convinzione della schiavitù “per essenza” di alcuni uomini, passando poi per la tradizione dell’Occidente latino dove la schiavitù era un semplice istituto, fino ad arrivare alla Tradizione cristiana, nella quale si giunse al riconoscimento della persona come sostanza individuale di natura razionale, secondo la classica definizione di Severino Boezio, ripresa in seguito da san Tommaso d’Aquino.

Con quest’ultimo si affinò, afferma Palmaro, «la consapevolezza dell’essere umano come soggetto morale, cioè, come responsabile di atti compiuti liberamente, con l’intenzione di raggiungere un certo fine, attraverso un determinato mezzo (atti umani). Il presupposto è il libero arbitrio che non è disgiunto dalla relazione con la verità e il bene: veramente libero è chi sceglie il bene e fugge il male».

L’uomo è, perciò, perfettamente libero, ma non per questo “autonomo” (dal termine “auto-nomos”), artefice cioè della legge, misura di sé e delle sue scelte morali. Nel Medioevo questo concetto era ben chiaro e il sistema giuridico concepiva l’autonomia del singolo in relazione ad una forte idea di comunità: non c’era contrapposizione tra libertà individuale ed autorità, ma questa era una condizione che definiva gli spazi di quella. Nel ‘300 tale equilibrio inizia a sfaldarsi, in quanto il sovrano carica su di sé la funzione legislativa, gettando le basi per lo stato assoluto. Fu così che tra il ‘600 e il ‘700, emerse la rivendicazione di un’autonomia del cittadino contro il potere statuale e di conseguenza il concetto di autonomia iniziò a prendere corpo sul piano giuridico e politico come strumento di resistenza nei confronti di un’autorità percepita come potenzialmente pericolosa e invadente.

Successivamente, si fa sempre più strada l’idea che la forza prenda progressivamente il posto della verità, come fonte che legittima l’esercizio del potere: nasce con Thomas Hobbes (1588-1679) l’idea che auctoritas, non veritas, facit legem. Si va verso l’Illuminismo, l’individualismo e l’ugualitarismo.

Nella società contemporanea il concetto di autonomia costituisce ormai un “pregiudizio favorevole” riassumibile nella formula: «il soggetto è padrone delle sue scelte, di tutte le sue scelte e nessuno potrà o dovrà interferire con questo potere invincibile».

Tale assioma, afferma il prof. Palmaro, «nasce da una concezione irrimediabilmente relativista della riflessione morale, che muove dall’asserita impossibilità per la ragione umana di stabilire che cosa sia buono e che cosa sia cattivo, che cosa sia giusto e che cosa sia iniquo. Ed è perfettamente coerente con tali (discutibili e discusse) premesse che lo stesso sistema giuridico assuma come soluzione tecnico-convenzionale l’intronizzazione del singolo». Pertanto, il singolo si sostituisce allo Stato nell’esercizio della sovranità, sancendo lui cosa è lecito o illecito, soprattutto in questioni controverse.

Siamo arrivati purtroppo al punto in cui, nell’agone mediatico, l’onere della prova è a carico di chi vuol dimostrare l’esistenza di un limite all’autodeterminazione di un soggetto consapevole.

Si deve ammettere, continua Palmaro, «che il principio di autonomia si è progressivamente affermato nella società contemporanea fino a presentarsi come vera e propria attuazione dello stato di diritto. La facoltà di autodeterminazione del soggetto, declinata attraverso la norma giuridica, è interpretata come attuazione dei cosiddetti “diritti civili”».

Da qui scaturisce perciò un dibattito in cui di principio ha ragione solo chi difende l’“autonomia”.

Tale paradigma viene utilizzato, fra le altre cose, per legittimare eutanasia e suicidio assistito: studiosi e mass media definiscono tali atti come «applicazione inconfutabile del principio di autonomia, poiché invocano il diritto di ogni persona a decidere quando e come morire».

Ma è proprio qui che il concetto di autonomia subisce la sua più cocente sconfitta, perché il soggetto che vuole esercitare un tale potere su se stesso, in realtà finisce per consegnarlo tragicamente ad un soggetto terzo. Consideriamo, infatti, le quattro possibilità in cui ci possiamo trovare:

  1. O il soggetto chiede eutanasia/suicidio assistito ma in base al principio di indisponibilità della vita né medici né Stato soddisfano la richiesta;
  2. O il soggetto, con un potere illimitato, chiede eutanasia/suicidio assistito per cui medico e Stato si trovano costretti a soddisfare qualunque richiesta venga posta (in tal caso anche di una persona sana). Questa però non è, in generale la posizione sostenuta dai radicali (che reclamano un controllo da parte dello Stato);
  3. O il soggetto fa tale richiesta e viene soddisfatto solo quando Stato e medico hanno stabilito che esso rispetta i requisiti necessari per poterla soddisfare. Questa è la configurazione “normale” dell’istanza eutanasica.

Si noti, afferma Palmaro, che qui «l’elemento decisivo per la realizzazione dell’eutanasia non è più la volontà del paziente – che pure è condizione imprescindibile – ma il giudizio di un soggetto terzo sulla condizione oggettiva del richiedente. Dunque, il fondamento dell’eutanasia su richiesta non è il principio di autonomia, bensì il principio di “qualità della vita”, cioè un giudizio inevitabilmente convenzionale ed arbitrario da parte della società sul valore della vita umana in certe condizioni».

Ecco dunque l’esito paradossale: il principio di autonomia nasce come affermazione dell’individuo contro la volontà arbitraria del potere pubblico e si ritrova, alla fine, proprio in balia di tale potere, essendosi privato del baluardo dell’indisponibilità della vita.

Come visto quindi in nessun caso contemplabile si può parlare davvero di “autonomia del paziente”.

Per l’uomo medievale, l’idea che il soggetto fosse libero nelle sue azioni, e dunque responsabile, andava di pari passo con una concezione oggettiva della morale, per cui non subiva una deriva verso l’autodeterminazione, intesa come “facoltà di fare ciò che si vuole”. Osserva giustamente Palmaro come «è singolare, invece, che l’uomo post-moderno sia spesso prigioniero di una serie di convinzioni che lo costringono a negare il libero arbitrio, e che contemporaneamente egli sostenga apoditticamente un’idea assoluta di autonomia e di autodeterminazione».

Il prof. Palmaro ricorda infatti come tale negazione sia stata operata nella modernità da Karl Marx (1818-1883) con l’idea di alienazione e di sovrastrutture, da Sigmund Freud (1856-1939) con l’idea di subconscio e dominio delle pulsioni e da Wilhelm Reich (1897-1957) con l’idea di sessualità totalizzante. La conclusione è paradossale e illogica: da un lato, l’uomo non è un essere ontologicamente libero; dall’altro deve agire “come se” fosse sganciato da qualunque riferimento normativo (morale, culturale, razionale, giuridico). Contraddizioni di un “pensiero” che, svincolandosi da Dio, ha finito per auto-dissolversi, fino all’auto-distruzione dell’individuo col suicidio.

Fabio Fuiano

Fonte: CR

 

 

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