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L’etica di Giordano Bruno alle radici della odierna

francesco lamendola Jul 22, 2022

di Francesco Lamendola

C’è un aspetto del pensiero di Giordano Bruno che colpisce particolarmente l’immaginazione dei suoi ammiratori: l’etica; e specialmente la morale degli eroici furori. Non c’è studente o studentessa di liceo che non se ne innamorino; né professore o libro di testo che non ne traggano materia per confezionare l’immagine più simpatica, ribellistica, generosa e giovanilistica dell’ormai beatificato campione del libro pensiero. La sua tragica fine è diventata, grazie alla massoneria e alla cultura massonica oggi imperante, il simbolo della lotta della ragione contro  l’oscurantismo clericale e la superstizione.

Una inquadratura utile per iniziare la nostra riflessione ci è fornita dal classico manuale di Nicola Abbagnano e Giovanni Fornero Il “nuovo” Protagonisti e testi della filosofia, Paravia, 2007, vol. 2A, Dall’Umanesimo all’empirismo, pp. 47-48):

Nella sua infinità, la natura rappresenta al tempo stesso il movente, il tema e lo scopo ultimo della speculazione bruniana, che in essa, infatti, pone  il termine finale della conoscenza e della vita. Il simbolo di ciò è il MITO DI ATTEONE, esposto in “Degli eroici furori”. Atteone, che giunge a contemplare Diana nuda e viene trasformato  in cervo, diventando preda anziché cacciatore, , è la metafora dell’anima umana, la quale, andando in cerca della natura e giunta finalmente a vederla, diventa essa stessa natura.

Per Bruno il grado più alto della speculazione filosofica non è dunque l’estasi mistica di Plotino, cioè un congiungimento con Dio che sia oblio del mondo spazio-temporale, ma la visione magica dell’unità della natura e della sua vita inesauribile. Per questo il filosofo è il “furioso”, l’assetato di infinito e l’ebbro di Dio, che, andando al di là  di ogni limite, con uno sforzo “eroico” (da “éros”) e appassionato, raggiunge una sorta di sovraumana immedesimazione con il processo cosmico attraverso il quale l’universo si dispiega nelle cose e le cose si risolvono nell’universo.

In altre parole, l’”eroico furore” è la traduzione naturalistica del concetto platonico di amore (che Bruno assume dal platonismo rinascimentale e dalla letteratura amorosa del Cinquecento), in quanto mostra come l’uomo “arso d’amore”, ma non pago dell’amore carnale con la donna e della contemplazione della bellezza, vada in cerca dell’infinito, che solo può appagare le sue brame, innalzandolo al di sopra dei “bassi furori” che lo tengono incatenato alle cose finite e generando una sorta di sposalizio e di suprema  copula d’amore tra lui e la natura.

Ora, questo identificarsi dell’uomo con la natura, questo suo farsi natura – in cui egli, pur non annullando il suo libero volere, sperimenta anche il grado più alto di libertà che gli sia concesso: l’accettazione della necessità delle cose e del destino del Tutto -, sebbene trovi il proprio culmine nella contemplazione del filosofo, riguarda anche il campo pratico e morale. Negli abbozzi di etica contenuti ne “Lo spaccio della bestia trionfante”, in “Degli eroici furori” e nella “Cabala del cavallo Pegasèo”; Bruno, sdegnando ogni morale ascetica e misticheggiante, come ogni vita “ociosa e voluptaria”, si dichiara a favore di una morale attivistica che esalta i valori della fatica, dell’ingegnosità e del lavoro umano. Ne “Lo spaccio” Bruno critica il mito dell’età dell’oro, cioè di un’epoca felice in cui al’uomo era dato il necessario per la vita, ed esalta il lavoro come attività che assoggetta la materia all’intelligenza e fonda l’unicità della nostra specie. Infatti – nota il filosofo nella “Cabala”, l’uomo, la mosca e il serpente sono tutte creature naturali, e se il primo si distingue concretamente dagli altri due è per opera delle mani e dell’ingegno, attraverso cui (vedi il tema rinascimentale dell’uomo-fabbro) egli conquista a se medesimo la propria condizione nel mondo, conscio che l’artefice reale della redenzione dell’uomo non è il Cristo, ma l’individuo con la sua fatica e il suo sudore.

Qualche studioso, soprattutto nel passato, ha visto una specie di contrasto tra l’etica della contemplazione filosofica e l’etica del lavoro e dell’impegno, ritenendo che esse finiscano per escludersi a vicenda. In realtà la reciproca implicanza di queste due morali è fortissima, poiché Bruno stesso nello “Spaccio” vuole che l’uomo «non contempli senza azione e non operi senza contemplazione», persuaso che l’individuo, proprio nel momento in cui giunge a identificarsi con la natura, deve sentirsi impegnato a realizzare in sé lo slancio della vita, continuando a suo modo l’opera creatrice della natura. In altre parole, per Bruno LA CONTEMPLAZIONE DI DIO NON È FINE A SE STESSA, poiché rappresenta un INCENTIVO A “FARE” COME DIO, ossia a realizzarsi come creatività ed energia produttrice, dando luogo ad «altre nature, altri corsi, altri ordini».

Tutto questo discorso bruniano, nonostante la sua apertura alle virtù “civili” e al mondo del lavoro, reca un’impronta aristocratica, in quanto il filosofo ritiene che solo a pochi sia dato congiungersi con la natura, attraversando i vari gradi d’amore. Se da un lato questa impostazione sembra temperata da un desiderio mai sopito di coinvolgere masse più numerose di individui nello “slancio eroico” verso la conquista della verità e il raggiungimento di una vita operosa, o addirittura sembra superata dall’intuizione di un nuovo destino dell’umanità, liberata per opera della ragione da vizi e superstizioni, dall’altro lato essa appare ribadita dalla convinzione bruniana della spaccatura dell’umanità in due schiere: i pochi cui è dato di accedere alla filosofia e di guidarsi secondo ragione e il gregge dei “rozzi popoli” che devono essere diretti dai preti delle varie Chiese. Pur all’interno di questi limiti, l’etica di Bruno manifesta intuizioni geniali e “moderne”, debitamente sottolineate dalla critica recente.

Che dire di questa pagina di prosa? È sostanzialmente oggettiva nel sintetizzare gli aspetti fondamentali dell’etica bruniana; un po’ meno nel trarne le necessarie conclusioni. A noi sembra chiaro che l’etica di Giordano Bruno è al tempo stesso velleitaria e confusa. Velleitaria perché confusa, essendo protesa verso delle mete, e in base a dei presupposti, che la ragione non sa chiarire adeguatamente, né le une, né gli altri. E che voler fare di Bruno un pensatore etico è ingiustificato ed illogico: perché tutto si può dire del suo pensiero, tranne che vi sia un’adeguata chiarificazione dei suoi stessi principi, i quali sono più che altro delle intuizioni a volte geniali, ma sempre confuse, estemporanee e slegate; né che vi si possa ravvisare una forte e coerente disposizione etica, se etica è la capacità di tradurre in termini razionali una precisa volontà di bene, non di questo o quel bene ma il bene oggettivo, il bene in sé.

Il punto più alto della vita morale dell’individuo è, per Bruno, l’estasi mistica del sapiente che riconosce l’infinità e l’unità fondamentale della natura, della quale sente di far parte e alla quale si abbandona con una sorta di furore panico, come il platonico si abbandona al richiamo di eros per salire, di gradino in gradino, fino alla contemplazione dell’Idea. Contemplazione che però, in Bruno, è anche azione, che si traduce in una vita operosa e si esprime nei valori della fatica e del lavoro: inatteso salto mortale dalla sfera del Logos a quella della Praxis, che ha tuttavia qualcosa di sforzato e di poco persuasivo. Nonostante gli Autori sopra citati ci spieghino che la critica più recente (gran bella cosa, la critica, e soprattutto garanzia di obiettività e disinteresse: sempre pronta a suonare la fanfara per gli dèi che regnano nell’ora presente) ha chiarito e superato le perplessità della critica di un tempo, mostrando anzi che l’etica della contemplazione e l’etica dell’impegno sono, nel pensiero di Bruno, due facce della stessa medaglia, poiché la seconda è diretta espressione e conseguenza della prima, in quanto l’uomo, proprio nel momento in cui giunge a identificarsi con la natura, deve sentirsi impegnato a realizzare in sé lo slancio della vita, continuando a suo modo l’opera creatrice della natura, cioè a fare come se fosse Dio, realizzandosi come creatività ed energia produttrice.

Pertanto l’etica di Bruno è per metà neoplatonica e per metà nietzschiana ante litteram: un misto di contemplazione trascendentale (o forse di misticismo decadentista e panismo dannunziano) e di volontà di potenza, espressa nella forma dell’eroico furore. Parlando in generale, ci sembra che si debba diffidare di tutti gli intellettuali, e a maggior ragione dei pensatori, i quali ci vengono a parlare di furori, siano essi eroici o non eroici. Il concetto di furore non s’addice alla buona filosofia (e neppure alla buona letteratura, se è per questo) ma ha piuttosto a che fare con un romanticismo di bassa lega, che attinge a qualche confusa reminiscenza dello Sturm un Drang. Vengono in mente gli astratti furori della Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini: diciamo che hanno, quantomeno, qualcosa di velleitario. Chi non sa tradurre in azione razionale il proprio pensiero, parla di furori e si dice in preda al furore: il che ne fa una via di mezzo fra il malato di mente e l’invasato di qualche oscura divinità, come i coribanti dell’antica Grecia. Qualcuno s’immagina Aristotele o san Tommaso d’Aquino in preda al furore, e sia pure ad un eroico furore? No, perché quando i pensieri sono chiari non c’è alcun bisogno di montare in furore o di farsi possedere da qualche ispirazione dionisiaca. E poi, perché il furore dovrebbe essere eroico? Perché, risponde Bruno, consiste nella contemplazione sublime del divino, e dunque per distinguerlo dal basso furore che è evidentemente la concupiscenza nei confronti di qualche bene contingente e imperfetto. Ma il divino, per lui, è la natura stessa (perciò una forma di panteismo) della quale l’uomo è parte; dunque l’uomo è divino; e il furore di cui parla è auto-esaltazione ed auto-inebriamento dell’uomo che, fondendosi col Tutto, scopre di essere Dio egli stesso.

Davvero si può definire “eroico” tutto ciò? Non è piuttosto una forma di delirio o di pazzia auto-alimentata? Non anticipa semmai il Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello? E non anticipa anche altre cose, non troppo simpatiche né piacevoli, che stanno accadendo ai nostri giorni, sotto i nostri occhi e malgrado la nostra volontà: ossia la suadente e insistente esortazione di chi ci governa a rinunciare a tutto, ad ogni forma di proprietà (compreso il lavoro e il risparmio) e ad ogni forma di libertà (compresa quella di uscir di casa o andare al bar con gli amici) in cambio di quella che viene presentata come forma suprema di felicità? Non avrai nulla e sarai felice, ci dicono le sirene del potere globalista, ripetute da cento microfoni e da cento amplificatori, affinché ci entrino bene in testa. L’accostamento non è casuale: Bruno è un pensatore rivoluzionario, e anche i signori del globalismo lo sono. Noi siamo abituati ad associare l’idea di rivoluzione all’idea di popolo, ma è un errore di prospettiva: così ci hanno insegnato per nascondere il vero significato, e soprattutto i veri protagonisti, delle rivoluzioni. La rivoluzione consiste in un progetto di rottura radicale con la tradizione: e una simile idea non nasce mai dal popolo; il popolo, istintivamente, è tradizionalista. Questo è il grande segreto, che i progressisti non dichiarano mai: il primo e vero obiettivo di ogni rivoluzione è quindi annientare la resistenza popolare al disegno di distruzione della tradizione. Ecco perché la “santa” ghigliottina ha tagliato più teste di contadini, di artigiani e piccoli commercianti che di pezzi grossi, fossero aristocratici o alto-borghesi; ed ecco perché le “purghe” staliniane hanno eliminato milioni di lavoratori e di piccoli agricoltori, nonché di membri del Partito comunista.

Giordano Bruno appartiene alla razza dei progressisti e dei rivoluzionari. Odia e disprezza la gente semplice e i modi di pensare comuni, specie se legati alla tradizione. Nella Cabala e nello Spaccio vomita tutto il suo veleno contro i cristiani e il cristianesimo, con un disprezzo che non si troverà neppure ne L’Anticristo di Nietzsche. È un impaziente, un confuso e un velleitario: non sa nulla di scienza né ha la minima attitudine al pensiero scientifico, ma abbraccia entusiasticamente il modello copernicano, coniugandolo in maniera contraddittoria con l’idea dell’infinità dell’universo, solo per poter aggredire la cittadella della tradizione, ossia il cattolicesimo. Frate rinnegato, in lui c’è tutto il risentimento dell’apostata verso la propria antica fede. Uomo del Rinascimento, non solo preferisce la magia alla vera scienza, ma nutre un’istintiva antipatia per la gente comune che si guadagna duramente la vita col sudore della fronte, anche se a parole la mette al centro della sua etica, lui che non ha mai lavorato in vita sua e che verrà denunciato da un nobile veneziano al quale aveva promesso d’insegnare l‘arte della memoria, ma poi non l’aveva fatto, pur facendosi pagare le sue mancate lezioni. Insomma è convinto, come tutti i rivoluzionari, che i pochi sapienti devono guidare i molti ignoranti; e che bisogna distruggere i tutti i vecchi modi di pensare (rifare ‘e cervelli, dirà Galilei nel Dialogo sopra i due massimi sistemi) e tutte le istituzioni che le custodiscono, a cominciare dalla Chiesa cattolica. Oppure si devono lasciare i rozzi popoli alla mercé delle varie chiese, che servono per questo. Non sappiamo se in lui ci fosse anche l’idea, tipicamente moderna, di costruire appositamente le nuove chiese a ciò destinate: gli Stati, i partiti, le istituzioni scientifiche

 

 

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