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L’eutanasia punta anche ai malati mentali

eutanasia universitari per la vita Jun 03, 2023

FONTE : universitariperlavita.org

L’eutanasia è sempre un tema “caldo” a livello mediatico. L’ultimo sviluppo (o forse sarebbe meglio dire degenerazione) arriva dal Canada, dove si sta valutando la possibilità di rendere disponibile l’eutanasia per chi soffre di malattie psichiatriche. Una proposta che ha creato sconcerto tra i bioeticisti.

In un’analisi pubblicata sulla rivista Psyche, la psichiatra Marie Nicolini ha evidenziato alcuni dei punti critici legati alla questione. Va premesso che la posizione degli Universitari per la Vita è nettamente contro l’eutanasia, in qualsiasi forma venga proposta, perché lede in modo inaccettabile la dignità delle persone, rendendo di fatto il diritto alla vita puramente arbitrario e legato a una non meglio definita “qualità di vita”. L’articolo della dott.ssa Nicolini ha senz’altro il merito di fornire alcuni dettagli poco noti ai “non addetti ai lavori”, pur non prendendo una posizione netta contro la pratica dell’eutanasia nella sua interezza. Di seguito alcuni passaggi particolarmente significativi tratti dal suddetto articolo:

«Dove la morte assistita è legale, solitamente devono sussistere tre condizioni per rendere la persona idonea a richiederla:

  1. Deve essere in grado di prendere decisioni e la richiesta deve essere volontaria
  2. La sua sofferenza deve essere insopportabile, senza prospettive di miglioramento
  3. Le sue condizioni devono essere considerate irrimediabili o incurabili

[…] Prendiamo un esempio relativo alla condizione incurabile. Le linee guida sulla morte assistita olandesi e belghe affermano che le opzioni a disposizione dovrebbero essere valutate seguendo gli standard della “conoscenza medica attuale”. Ma quando si parla di malattie mentali, l’incurabilità è ambigua. Non ci sono segni oggettivi, test di laboratorio o analisi per aiutare i medici a stabilire se la malattia ha raggiunto un “punto di non ritorno”. E non esistono vie semplici per distinguere una malattia psichiatrica curabile da una incurabile.

In un’ampia review della ricerca scientifica riguardante la curabilità della depressione, io e i miei colleghi abbiamo visto che non esiste un riferimento oggettivo per l’incurabilità a cui i medici possano affidarsi. La definizione di “depressione resistente ai trattamenti” solitamente significa che ad un paziente sono state somministrate due terapie con antidepressivi che non sono state efficaci; non è un sintomo di “incurabilità”.

[…] Se un paziente ha avuto sintomi per molti anni e adesso fa richiesta per l’eutanasia, i medici non hanno un metodo oggettivo per valutare se la persona potrà guarire o no. Diversamente dalla cardiologia o dall’oncologia, gli psichiatri hanno pochi strumenti per prevedere come il paziente risponderà al trattamento».

Quindi, non solo l’eutanasia è un male intrinseco, per il quale non esiste giustificazione, ma per di più la pretesa di legittimarla con la presunta incurabilità del paziente è totalmente infondata, essendo impossibile avere una valutazione oggettiva in merito.

Questa nuova frontiera dell’eutanasia evidenzia inoltre come il concetto di “incurabilità” sia unicamente un paletto “di facciata” per accedere all’eutanasia, non solo per gravi malattie fisiche. Paletto che rischia adesso di cadere anche nei casi sin qui contemplati. Aprendo infatti al suicidio assistito per i malati mentali, veloce rischia di essere il passaggio all’approvazione di tali pratiche anche per i malati fisici non gravi, ma che vivono male questa loro malattia.

Proseguendo nell’articolo, viene citato uno studio dove «tutti i pazienti vennero giudicati incurabili […] Sorprendentemente, più di un quarto dei pazienti non aveva svolto nessuna psicoterapia, e un numero simile non è mai stato ospedalizzato. Risulta difficile a questo punto capire come una condizione possa essere considerata incurabile se un trattamento essenziale come la psicoterapia non è stato neppure preso in considerazione».A rincarare ulteriormente la dose giunge un altro articolo, che evidenzia come «nonostante le Commissioni avessero riscontrato un solo caso in cui i criteri di accuratezza sanciti dalla legge non erano stati rispettati, un paziente su 10 non aveva ricevuto alcun appoggio esterno da parte di uno psichiatra. In quasi un quarto dei casi, inoltre, i medici avevano espresso opinioni discordanti».

Un altro punto rilevante dello studio citato nell’articolo, riguarda l’alta percentuale di pazienti psichiatrici che, dopo aver fatto domanda per l’eutanasia, la ritirano dopo qualche mese. Questo evidenzia bene il fatto che il suicidio veniva visto come unica soluzione in un determinato momento, mentre col passare del tempo e con il miglioramento delle condizioni di salute mentale del paziente, c’è stato un ripensamento sulla questione. Già questo basterebbe a rendersi conto di come sia volatile la decisione di accedere a tali pratiche mortifere, soprattutto per malattie come la depressione (che spesso alterna picchi terribili di sconforto a momenti di tranquillità) oppure la schizofrenia, dove non può esserci certezza se la decisione di morire sia stata presa dalla persona nella sua unità o semplicemente dal prevalere momentaneo di una personalità malata.

Tra gli altri punti critici riportati nell’articolo di Psyche, viene sottolineato come sussistano anche dei problemi in merito alle linee guida per i medici che sono decisamente vaghe su come valutare i pazienti. Mancano, peraltro, definizioni universali sulle malattie mentali. Ma il cuore del problema sta a monte, e viene ben espresso sulla rivista online Psicologia Contemporanea (L. Dell’Osso, R. Dalle Luche, Fine Vita, n. 275, Suicidio assistito nelle malattie mentali: una proposta anacronistica, 20/09/2019):

«L’ideazione suicidaria e la volontà di morte di alcuni dei nostri pazienti, non solo esito di decorsi prolungati e di risultati terapeutici insoddisfacenti, non possono essere considerate una volontà, ma un sintomo: la morte volontaria diventa un pensiero attraente, una risoluzione per certi pazienti depressi gravi, dopo mesi o anni di malattia; ma questa soluzione, come si vede nei sopravvissuti ai tentati suicidi, è spesso una risoluzione momentanea, una fantasia di liberazione, piuttosto che una decisione consapevole; a noi psichiatri spetta con ogni mezzo di combatterla, non certo di assecondarla».

Il nodo della questione è proprio il concetto di cura del paziente, che non consiste nell’assecondare le sue tendenze disordinate (tanto più se si tratta di tendenze al suicidio) ma nel cercare di curare le persone e, se possibile, di guarirle. Questo è l’obiettivo della medicina, come ben espresso nel punto 1 della Samaritanus Bonus:

«La cura della vita è dunque la prima responsabilità che il medico sperimenta nell’incontro con il malato. Essa non è riducibile alla capacità di guarire l’ammalato, essendo il suo orizzonte antropologico e morale più ampio: anche quando la guarigione è impossibile o improbabile, l’accompagnamento medico-infermieristico (cura delle funzioni fisiologiche essenziali del corpo), psicologico e spirituale, è un dovere ineludibile, poiché l’opposto costituirebbe un disumano abbandono del malato».

 

 

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