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La Parola di Dio, capolavoro di sapienza e dolcezza

francesco lamendola Dec 16, 2022

di Francesco Lamendola

La Rivelazione è la Parola che Dio rivolge agli uomini per farsi conoscere e per far conoscere loro la sua santa volontà: in altre parole, ciò che chiede loro di fare e ciò a cui chiede di attenersi, nell’attesa che giunga il tempo del suo Regno glorioso e definitivo.

È una parola ineffabile, una “parola” per modo di dire. Adoperiamo questo termine perché non ne esiste uno più adeguato; di fatto, perché vi sia comunicazione, è necessario che l’emittente e il ricevente parlino, o comunque conoscano, il medesimo linguaggio. Ma quale lingua in comune può esserci fra l’uomo e Dio, fra la creatura ed il suo Creatore, la cui perfezione supera qualsiasi cosa sia umanamente immaginabile?

E tuttavia, non bisogna scoraggiarsi troppo: Dio ha creato l’uomo a propria immagine e somiglianza; lo ha dotato di ragione e volontà; e dunque, come insegna san Tommaso d’Aquino, non solo gli ha posto in cuore il desiderio di conoscere il vero, ma gli ha anche conferito la possibilità di contemplarlo, e sia pure senza poterne penetrare interamente i più reconditi misteri. Sarebbe illogico e assurdo, e non degno della maestà divina, supporre che Dio, avendo creato l’uomo con il desiderio connaturato del vero, di fatto gli abbia reso impossibile contemplarlo; o, peggio ancora, che abbia voluto svelargli la Verità, ma in una maniera tale che a lui debba restare per sempre fatalmente incomprensibile.

Esiste quindi un rapporto ordinato e proporzionato fra la realtà creata e l’intelligibile: le facoltà dell’intelletto sono disposte in modo da poter afferrare il principio di realtà, partendo dalle percezioni sensibili. Ciò non significa che la mente “afferra” le cose; le cose sono quelle che sono, e non fanno parte della mente; la mente però può averne cognizione mediante il riconoscimento sensibile e, successivamente, mediante la concettualizzazione degli universali. Ciò significa che l’oggetto della conoscenza intellettuale non è propriamente l’oggetto materiale così come si presenta esternamente, ma così come viene “colto”, cioè come viene percepito e concettualizzato: pertanto è la mente che, in un certo senso, si adegua all’oggetto, e non l’oggetto che si adegua alla mente (come lo potrebbe? l’oggetto è passivo, la mente è attiva): l’espressione adaequatio rei et intellectus significa che la cosa e l’intelletto si “incontrano” in una sorta di punto mediano, su un “terreno neutro” che non appartiene né all’una, né all’altro.

Ebbene, la stessa cosa accade per la Rivelazione divina. La quale si articola in due fasi: ordinaria e straordinaria. La Rivelazione ordinaria è quella che si rivolge ai sensi e alla ragione naturale e guida quest’ultima all’intuizione, per analogia, delle verità eterne e invisibili. Quando san Paolo, in Rom, 1, 18-23, dichiara:

18 In realtà l'ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell'ingiustizia, 19 poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. 20 Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità; 21 essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. 22 Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti 23 e hanno cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili,

intende dire che la ragione naturale è capace, partendo da ciò che mostrano i sensi, di risalire all’idea di un Dio unico, spirituale, infinitamente buono e degno di essere amato e adorato: di risalire, cioè, come dicono i filosofi, dalle cause seconde alla causa prima. Ma la Rivelazione vera e completa è quella ch avviene per mezzo della grazia, che apre i cuori ad un modo nuovo di essere e che permette alla ragione naturale di venire attraversata miracolosamente da un raggio della verità soprannaturale. Ed è certo che, dopo che gli Apostoli furono personalmente guardati e chiamati da Gesù, la loro vita non fu più la stessa, anche se qualcosa dell’uomo vecchio continuò a sopravvivere in loro (si pensi alle meschine discussioni per sapere chi sarebbe stato seduto alla destra e chi alla sinistra del Risorto), almeno fino all’effusione dello Spirito Santo, con la Pentecoste. Nel caso di san Paolo, questi venne addirittura chiamato a viva forza, gettato giù di sella e reso cieco per alcuni giorni: si direbbe che la chiamata sia tanto più energica e radicale quanto più è delicato e importante il compito che Dio intende affidare, e quanto più a fondo e senza compromessi Egli vuol fare di noi un uomo nuovo.

Naturalmente, noi non possiamo udire fisicamente la parola di Dio, così come non possiamo materialmente vederlo, perché i nostri sensi non sono in grado di vedere un puro spirito, né la nostra ragione di udirne le precise parole. Siamo tuttavia in grado di afferrare che si tratta di un discorso di amore, fatto per il nostro bene, e di capirne quel tanto che basta a ritrarne l’essenziale. Nel corso dell’Antico Testamento, il Signore Iddio si è rivolto ai Patriarchi e ai Profeti, affinché questi trasmettessero i suoi messaggi a tutto il popolo, e ciò con una chiarezza mano a mano crescente, fino a proibire i sacrifici umani (vedi l’episodio di Abramo e Isacco) e l’adorazione degli idoli (vedi l’episodio del vitello d’oro). Invece nel Nuovo Testamento, che ricapitola e oltrepassa l’antica Legge, il Verbo incarnato, pur circondandosi di Apostoli ai quali rivela più cose che agli altri, si rivolge direttamente alle folle, comprese le donne, i fanciulli e gli stranieri, nonché i pubblici peccatori. E lo fa non soltanto con parole e con segni di potenza (esorcismi, guarigioni miracolose, la tempesta sedata) ma anche e soprattutto con l’esempio della Sua vita, con l’assoluta docilità al Volere divino e con la fedeltà ad esso fino alla morte sulla croce, rifiutando sino all’ultimo (come aveva fatto all’inizio della sua vita pubblica, tentato dal diavolo nel deserto) di venir meno alla sua missione: di barattare un vantaggio personale e materiale con ciò che il Padre gli ha comandato di fare, costi quello che costi, fino alla più dolorosa e oltraggiosa delle pubbliche esecuzioni, quella riservata ai peggiori criminali: e ciò sotto gli sguardi ironici e beffardi dei suoi implacabili nemici, gli scribi e i farisei.

Vogliamo qui citare una bella pagina di Paolo Glorieux tratta da un suo volume, oggi purtroppo quasi introvabile, come tanti, troppi testi della buona teologia pre-conciliare, lasciati a ricoprirsi di povere in qualche scaffale o, peggio, mandati al macero o venduti all’ingrosso a qualche robivecchi, ma che vanno ricordati con gratitudine perché su di essi è formata una generazione di seminaristi che poi ha costruito degnamente la propria vocazione sacerdotale, Introduzione allo studio del dogma, Alba, Edizioni Paoline, 1951, pp. 30-33):

Ogni parola di Dio è una CONFIDENZA perché procede da un atto di pura bontà. La Rivelazione è eminentemente gratuita. Sia che ci manifesti la natura di Dio sia che ci riveli i suoi disegni sul mondo, essa ha sempre qualcosa di Dio, dei suoi pensieri, delle sue intenzioni. «Come nessuno conosce gli intimi sentimenti dell’uomo, al di fuori dell’anima che abita nell’uomo stesso, così nessuno conosce le cose divine, all’infuori dello Spirito si Dio» (1 Cor 2,11). ogni parola che viene da Dio svela, rivela nel senso etimologico della parola. Con questa manifestazione Dio invita l’uomo alla sua comunione, ad entrare nei suoi pensieri, nella sua intimità. Perciò l’oggetto materiale della fede è radicalmente diverso dall’oggetto del ragionamento. Esso implica sempre il gesto personale e spontaneo (che la dimostrazione razionale non fornirà mai) di Dio, che si china per parlare. Vi è assai più che l’enunciazione di un giudizio, vi è un giudizio in quanto pronunciato da Dio.

La parola di Dio è VIVENTE. Vivente per la sua origine e per il suo scopo poiché viene da una persona vivente e amante. Non è una formula impersonale e algebrica o un enunciato scientifico, , ma è piena d’intenzioni salvifiche., ché Dio si rivolge, parlando, a uomini suoi figli per condurli a Sé. Non insegna loro come va il mondo, ma dove va, né intende soddisfare le loro vane curiosità, i loro futili capricci; ma cerca di orientare e permeare la loro vita. La parola di Dio, tutte le sue parole, sono gravide di conseguenze: manifestano il senso divino del mondo e ciò che Dio aspetta da noi.

La parola di Dio è PIENA DI MISTERO. Per quanto possa apparire limpida, confina sempre col mistero divino che essa racchiude in sé. Talvolta annuncia veri misteri, che l’intelligenza non pensò mai e che, anche rivelati, non è in grado di penetrare. Tuttavia, Tuttavia, poiché viene da Dio, di cui rivela pensieri e giudizi, ogni parola divina s’apre su profondità immense (Rom 9,33ss.). C’inganniamo quando crediamo di averla esaurita o ci sforziamo di ridurla a proporzioni umane. Il senso del mistero e del rispetto dev’esser sempre vivissimo; esso rende omaggio alla inesauribile pienezza ch’è nascosta in ogni intervento di Dio.

La parola di Dio è PERCETTIBILE. Malgrado la sua insondabile ricchezza, in quanto confidenza divina, essa si mette alla portata di tutti gli uomini, nel Vangelo come nell’Antico Testamento. Se non se ne può esaurire il contenuto se ne può almeno cogliere il senso. Il che vale anche per i profeti o per i mistici favoriti dalle più sublimi rivelazioni, come S. Paolo nel suo rapimento. Ciò che è detto o visto è nettamente percepito benché per la traduzione in linguaggio accessibile a tutti talvolta manchino le parole. Quando Do vuole che il messaggio sia trasmesso lo traduce in linguaggio umano, spesso assai umile, immaginoso, talora pieno di antropomorfismi,.Son concessioni fatte alla debolezza degli uditori e dei destinatari. Concessioni di forma, ma anche di sostanza che pur conserva tutta la sua purezza. Certo, nell’interpretazione di queste parole divine, appena siano mutate le circostanze in cui furono dette, bisognerà fare uno sforzo. Occorrerà tener conto del contesto storico, del genere letterario, ecc. è il destino di ogni parola che s’incarna nel tempo: ma nella sua sostanza la parola divina trascende il tempo.

La parola di Dio è AMABILE: è buona, dolce, amabile perché viene da una persona che ama, perché detta con intenzioni benefiche, perché ciò che essa annunzia merita di essere amato. Ma anche perché è capace di piacere., d’essere gustata, d’essere apprezzata dall’uomo. Ogni parola divina traduce qualcosa di Dio, dona un po’ il suo pensiero e il suo amore. L’uomo in tutto il suo essere è ordinato a Dio, fatto per lui, e quindi in qualche modo capace di lui. È impossibile, eccetto in caso di peccato, che questi due movimenti non si incontrino. La parola di Dio risponde si pensieri e ai pensieri più profondi dell’uomo, non gli è eterogenea, estranea, inassimilabile. Ben presentata lo soddisfa e gli torna amabile. Il metodo o l’apologetica d’immanenza, quando sia scevro delle deformazioni o degli abusi impostigli dal modernismo, richiama questa realtà d’ordine ontologico e psicologico. E ricorda al sacerdote la cura estrema che deve avere per degnamente presentare la parola divina che gli è affidata.

La parola di Dio è DEGNA DI FEDE; La testimonianza del Signore è fedele (Salmo 18,8). Questa parola del Salmo va presa in tutte le sue accezioni: degna di fede e stabile, fedele alle sue promesse. Dio può annunciare verità, formulare giudizi, fare promesse o anche minacce, in ogni caso la sua parola si impone e non si può né discutere né mettere in dubbio. È eminentemente vera poiché proviene da colui che sa, che vede, che fa la verità. Ogni ragionamento, ad pretesa evidenza deve cedere dinanzi ad un’affermazione divina autentica, e la testimonianza di Dio dev’essere ricevuta per se stessa. Non abbisogna di garanzie come quelle che si esigono da un testimonio umano suscettibile d’inganno. «Se accettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di dio è superiore» (1 Giov 5,9). La parola di Dio fa autorità e la certezza che conferisce è di un ordine unico. Lo stesso è delle sue promesse che impegnano la sua veracità e la sua potenza ambedue ugualmente sicure. Un impegno preso da Dio e manifestato è la cosa più stabile che si possa pensare: «il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» (Mt 24,35). La fede di un Abramo «Che sperò contro ogni umana speranza» (Rom 4,18) è nelle logica di questa dottrina. La parola di Dio è la roccia sulla quale si può costruire e per essa si può rischiare la vita (Giob. 13,15). Al di sopra delle impressioni, dei ragionamenti, delle vicende, la parola divina è, nella corrente fluttuante della vita, il solo punto di riferimento sicuro e fermo (Salmo 118, 115). Essa è luce, certezza e pace.

Ed è con questo spirito che bisogna accostarsi alla Rivelazione divina, non solo nella lettura delle Sacre Scritture, ma anche nella preghiera e nelle assidua meditazione dei misteri divini, quali ad esempio ci vengono proposti dl Santo Rosario o nella estatica contemplazione di un’immagine sacra.

I teologi d’indirizzo  modernista, attraverso la “scoperta” del metodo storico-critico,  e in ritardo, come sempre, sul loro discutibile modello, il protestantesimo liberale, si divertono e si sbizzarriscono a sezionare, tagliuzzare, scorporare, ricomporre, e naturalmente allegorizzare, i testi, secondo una serie di tecniche e di schemi che ormai utilizzano con la disinvoltura di autentici prestigiatori. Hanno scoperto che nella letteratura biblica vi sono dei sotto-generi, i quali si servono volentieri di espressioni formulari pressoché costanti, e ne deducono che tutto ciò che è contenuto nei quattro Vangeli canonici deve essere passato al pettine implacabile delle loro verifiche filologiche. E la loro ottusità li spinge a regolarsi come se non fossimo più in presenza di quattro racconti vivi, scritti per convincere da uomini che si erano profondamente convinti, e che perciò non usavano la minima astuzia letteraria, al punto la lasciare intatte apparenti contraddizioni di un certo peso (l’Ascensione avvenne in Galilea o in Giudea?), ma di una congerie di racconti “mitici”, di carattere edificante ma immaginoso, staccati e giustapposti, che è facilissimo smontare, una volta che ne sia stata compresa la “chiave” redazionale  che siano stati debitamente collocati in un generico contesto di attese messianiche.

In tal modo viene a mancare la condizione fondamentale affinché la Parola divina possa trasformarsi in Rivelazione: l’umiltà e l’ascolto devoto da parte dell’uomo.

 

 

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