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rachele sagramoso rachelesagramosomaternamente Nov 23, 2023

di Rachele Sagramoso

Ci risiamo. Uno dei miei figli non sta bene a scuola. 

Ci risiamo. Uno dei miei figli ha trovato un'insegnante che non si sa relazionare con lui. 

Non penso sia colpa dell'insegnante. So per certo che non è colpa dei uno dei miei figli. La colpa sta nel fatto che non è automatico che due persone, semplicemente, si trovino. La colpa è da ricercarsi nel fatto che, molto banalmente, io ho dei figli che sono incapaci di andare d'accordo con tutti, di adattarsi alle situazioni, di socializzare sempre. Perché? Perche sono, banalmente, dei dissidenti. 
Eh, cosa volete, i miei genitori mi fecero vedere questo film https://www.youtube.com/watch?v=uDNYmFF7kEk e da allora, vedo le cose da un altro punto di vista. 

E per imparare a vedere le cose da un altro punto di vista, la strada è stata quella di essere sempre colei che stava zitta sino a che qualcuno, veramente interessato, non si mostrava curioso nei confronti di una personale opinione. In quel momento io dicevo la mia, anche se si fosse trattato di rispondere «No» alla domanda «Sei d'accordo con...». Lo facevo a bassa voce, arrossendo, sbagliando le parole e magari non sapendo fornire bene l'origine dei miei pensieri. Tuttavia a scuola, alle medie, la professoressa Abbate, di Italiano (che leggeva i miei temi), mi soprannominò "La pensatrice indipendente". Ciò non significa che fossi popolare, anzi: ero considerata bruttina dalla popolazione maschile, ero timida fino alla sofferenza e nessuna compagna (a parte le sfigatelle come me) mi invitava mai ad uscire. Se ci fossero stati i social, sicuramente le mie compagne mi avrebbero cyberbullizzato per bene. Però avevo una madre che empatizzava molto con me, e ciò mi bastò tanto dal continuare e ampliare la mia dissidenza. Sempre con educazione (essere ribelli e cafoni non serve a nulla, sia chiaro), con 'buona creanza', ma mai retrocedendo. E la professoressa Vannini, delle scuole magistrali, lo aveva capito perfettamente, quando, tollerando ampiamente i miei voli pindarici grandemente fuori tema, durante i componimenti su Dante, Petrarca o Leopardi, ci schiaffavo dentro Withman, Blake, Baudelaire eccetera... La prof aveva capito che io dovevo scrivere il mio punto di vista e, correggendomi la forma ma mai la sostanza, mi ha avviato al piacere della scrittura (colpa sua, quindi, se ammorbo i miei lettori).

I miei figli hanno sempre avuto il diritto di dissentire sul loro adattamento agli estranei. 

Non ho mai considerato possibile (o meglio, l'ho fatto alcune volte, sbagliando e chiedendo scusa ripetutamente per aver ascoltato altri rispetto a loro) il fatto che fossero coercizzati nel condividere la loro vita con chi - magari a fin di bene (ma dovremmo aprire tutto un capitolo su cosa vuole dire "a fin di bene") - usava la sua forza fisica e psichica, per fargli fare qualcosa, tipo stare a scuola. Le educatrici dei nidi alle quali ho affidato i miei figli, sono state dolci, risolute, disponibili all'ascolto dei loro bisogni fisiologici (il contatto è il più importante) e mi hanno sempre convinto ad affidare loro i miei piccoli perché, se pur glieli porgessi da tenere in braccio, cercavano subito lo sguardo del piccolo, gli parlavano e, soprattutto, non lo stringevano, facendoci salutare con affetto.  

Chi crede che il contrario di autoritarismo sia lassismo, ha le idee molto confuse. E purtroppo tante insegnanti della scuola dell'infanzia soffrono proprio di quel disturbo, chiamato 'ignoranza', che suppone che un bambino debba essere "abituato a...". In realtà, se ci pensiamo bene, è il medesimo disturbo di chi crede che i bambini imparino a dormire e che questa acquisizione sia necessaria per l'autonomia. Insomma, una confusione semantica non indifferente. 


Abituare un bambino a stare con un estraneo, che piano piano deve conquistare la sua fiducia affinché il bambino si senta accolto tanto dal manifestare tutte le sue emozioni (anche quelle di rabbia, ad esempio, che tanti adulti non accettano assolutamente, soprattutto dai bambini), non è una relazione che si può imporre. Credere che sia normale che un bambino di circa tre anni debba essere preso dall'insegnante, perché purtroppo si sa che ci sono bambini viziati e mammoni, potrebbe avere delle conseguenze.

Il verbo "amare" in pedagogia è un verbo difettivo, ovvero non può essere coniugato con il modo imperativo - dice il prof. Giuseppe Fioravanti. E con 'amare', il verbo 'studiare' e 'leggere'. Non c'è nulla di più stupido che dire a una persona «Studia!», «Leggi!» o, ancora di più, «Ama!». Si impara a leggere perché qualcuno ci legge delle favole, si impara a studiare poiché qualcuno ci incuriosice - spiega sempre il Professore - e si impara ad amare perché qualcuno conquista la nostra fiducia, specifico io.


La coercizione fisica che un nutrito di adulti suppone che sia normale interazione con i bambini, sottende e dimostra il fatto che gli adulti hanno dei diritti sui bambini. Il che potrebbe essere un problema. Quando? Semplice: quando una bambina diventata adolescente potrebbe essere portata a pensare che sia normale concedere il proprio corpo a un individuo violento, ad esempio (effettuo un esempio abbastanza infraintendibile). 

Un'altra cosa che potrebbe essere creduta normale da una giovane donna adulta, potrebbe essere quella di essere portata a reprimere le proprie emozioni e le proprie percezioni, per non deludere quello che adesso si chiama partner. Come? 

È molto semplice: subendo una relazione di cosiddetto "amore condizionato". Ovvero avendo un genitore che si dimostra felice solo e soltanto se quel figlio porta bei voti, per esempio. Essere amati condizionatamente è un grosso problema del quale parla anche il prof. Franco Nembrini: acquisire l'informazione che sia necessario mostrare una performance, per ricevere attenzione e, soprattutto, amore, potrebbe davvero portare a modellare una persona insicura e perfezionista, costantemente concentrata su di sé ed incapace di vedere (sentire, empatizzare) con l'altro. Ovvero l'altro da me non esiste, o esiste solo in mia funzione (si chiama narcisismo, afferma la prof.Vittoria Maioli Sanese).

Quando ho avuto insegnanti dei miei figli autorevoli (Susanna, Barbara...) io ho visto i miei figli più tosti (scassapalle DOC) ed esigenti essere accolti con amore infinito, ma fermezza. Ho visto Cigols aiutato, occhi negli occhi, a dissipare le sue paure di essere abbandonato da me, ho visto il Piccinaccolo rispondere alla maestra rispetto ai suoi bisogni. E Cigols e il Piccinaccolo sono fioriti, maturati nelle loro sicurezze, rasserenati. E questo non l'ho visto solo in insegnanti della scuola dell'infanzia, ma anche alle elementari, quando Cigols (giunto da quattro anni di sofferenza) aveva scatti di rabbia enorme verso i compagni che magari facevano prese in giro molto blande o battute sciocche (roba che lo avrebbe fatto sorridere). Una maestra, Tiziana, lo allontanava con sé, rapportandocisi, occhi negli occhi e Cigols tornava a casa dicendo che finalmente c'era un adulto del quale fidarsi che magari lo sgridava pure, ma lo faceva dandogli motivazioni attente e logiche. Sgridate che lui riteneva giuste e accettava.


Quando io ero piccola, la risposta che più sentivo era "no". Da cosa lo so? Dal fatto che coi miei figli ho l'istinto, quasi sempre, di dire di no pure io. Quello che viviamo da piccoli s'imprime in modo molto forte, nel nostro cuore, e se va bene riusciamo a liberacene non proponendo il medesimo modello ai nostri figli, ma se va male riusciamo persino a giustificare le sberle ricevute "a fin di bene" oppure riproponiamo in modo del tutto passivo quei modelli vissuti. E lì succedono tragedie. Tantoché io ho dovuto fermarmi in modo durissimo, perché avevo capito che la strada era sbagliata (quella che avevo accumulato come esperienza personale di figlia), ma non sapevo come fare. Per esempio ho scelto di non aiutare i miei figli dislessici a fare i compiti (gli altri non ne hanno bisogno e li fanno da soli): da discalculica ero abituata a sentire solo urli e soprattutto ad avere sempre l'adulto accanto per i compiti, quindi ho scelto di essere proprio in un'altra stanza in quelle occasioni, e per i figli con i quali perdevo la pazienza, ho scelto di pagare delle ripetizioni. Ho accettato il mio limite. Ho scelto di emanciparmi dal dolore accumulato.


Il dire di "no" è un motto che sento costantemente, ma che viene applicato malissimo. Di solito si tende a supporre che il "no" vada dato soprattutto ai piccoli, così almeno imparano. In realtà imparano proprio a dire di "no", quindi l'intenzione è buona, il metodo e il tempo del tutto sbagliati. Infatti in questo modo, ai bambini piccoli (che avrebbero bisogno di un "no" e nove "sì") vengono tarpate le ali, quando poi piccoli non lo sono più (ossia quando dovrebbero sapere senza chiedere cosa il genitore ritiene essere "no" e cosa è "sì"), allora si concede tutto. Il genitore, dicendo di "no" a un bambino piccolo, nega la loro relazione. 

Perché? Perché non si ha tempo. Per fare prima si usano i premi e le punizioni, esercitando un comportamentismo acquisito paragonando gli esseri umani con gli animali (i cani di Pavlov, le oche di Lorenz, eccetera) e tentando di plasmare a un modo di vedere la realtà con sguardo adultocentrico, anche i bambini. 

Il tempo è un fattore determinante. Anche sullo scapaccione. Che può capitare, non dovrebbe, ma capita. E spesso capita a fine giornata, con la stanchezza estrema. E subito dopo dovrebbe essere lo stimolo al chiedere scusa, al chiarirsi. Il figlio perdona il genitore stanco che s'incavola. Il figlio non perdona il genitore assente (mentalmente e fisicamente). Lo perdona se però c'è il tempo anche per avere un genitore che sta bene, che è sereno, che gioca e scherza. Ecco perché i grandi fautori del "è meglio un tempo qualitativamente, che quantitativamente migliore" sbagliano: perché è anche la quantità di tempo che il genitore che passa coi figli ad essere importante. Invece, purtroppo, di tempo ce n'è poco. Il bambino deve adattarsi nel più breve tempo possibile a stare solo, a gestirsi da solo le emozioni, a convivere con le proprie paure, senza mai mostrare nulla che non soddisfi il genitore. E quest'ultimo non può permettere che il proprio figlio soffra, poiché se questo accade vuole dire che il mondo non è inclusivo, che il genitore stesso sbaglia e le frustrazioni non sono tollerate (anche il genitore deve dimostrare una performance-genitoriale). Il genitore pensa sempre e solo a sé, alle proprie sensazioni... e il figlio deve adeguarsi. Facendolo percorre due strade, entrambe pericolose: c'è chi acquisisce il messaggio che nulla di sé è importante, c'è chi acquisisce il messaggio che tutto quello che riguarda sé è l'unica cosa importante.

Torniamo al dissenso.

Quando ho frequentato l'università sono stata subito bollata come qualcuno a cui "tagliare le gambe" (parole non mie) e tutto partì dal fatto che ero lì già da adulta, non ero una neodiplomata da forgiare a piacimento. La frequenza del mio corso universitario "uccise" diverse mie colleghe: sole, spaventate e non appoggiate, si ritirarono. Quando invece giunsi io, forte, già madre e con un pessimo carattere, si cercò di effettuare una gambizzazione psichica, che non riuscì. Non riuscì neppure quando venne proposta la bocciatura dopo la discussione della mia tesi. La medesima situazione fu vissuta da un'altra mia collega: anch'ella madre, molto competente... Si tentò di affossarla, di sopprimere ogni suo sprazzo di vita. 
Perché io e lei resistemmo? La risposta è banale quanto non ovvia. Perché non eravamo sole. Ognuna con il proprio marito, con i propri genitori, con la propria famiglia, persino coi figli, era distrutta dall'oppressione quasi in un tentativo di essere incenerita dal punto di vista spirituale. Ma come le fenici, noi siamo risorte, ben consce del fatto che noi siamo ottime ostetriche. La famiglia deve esserci, per ogni membro: solo in questo modo ognuno si fa forte del non essere solo e abbandonato. E la famiglia deve potere amare ogni membro al di là della sua "funzione" e della sua "funzionalità". La famiglia non deve esserci per evitare fatiche e frustrazioni, ma deve esserci in quanto è famiglia, in quanto quel membro è importante senza mai dimostrare nulla.

Ecco io vorrei che i miei figli avessero questo dissenso. Quello di cui ho tentato di spiegare qui i presupposti. Nessuno nasce con lo spirito critico, con la voglia di sentirsi in diritto di non uniformarsi, con l'intenzione di non farsi mai sottomettere, se non gli si dice, fin da quando è piccolo: «Sei preziosissimo, talmente prezioso che mi stai insegnando tantissime cose, talmente meraviglioso che ti accolgo sempre, anche quando piangi, anche quando mi metti in difficoltà, anche quando non mi rendi felice».

Questo è lo spirito critico che desidero per i miei figli, che sono persone che dovranno rispettare gli gli altri sapendo che in ognuno vi è una dignità in quanto creatura di Dio. Quello che desidero per loro è che si alzino in piedi sul banco, per vedere sempre le cose da angolazioni diverse non temendo mai di perdere l'amore di chi sta loro a cuore. Ecco perché ho dato sempre ascolto alle loro emozioni, ai loro bisogni, al loro sguardo sulla vita. A volte mi è riuscito, altre meno. Sbagliando, inciampando, ma sapendo che non ci sono corsi contro il bullismo che tengono: il compito è della famiglia.

FONTE : Canale Telegram Rachele Sagramoso MaternaMente 

 

 

 

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