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Tribunale di Sassari: “prognosi di illegittimità costituzionale” dell’obbligo vaccinale

obbligo vaccinale sabino paciolla Jun 17, 2022

di Sabino Paciolla

Vi abbiamo parlato la settimana scorsa dell’ennesima sentenza di un Tribunale del Lavoro, quello di Sassari a favore di un sanitario sospeso e ordinantene l’immediato reintegro che, insieme alle precedenti, stanno suggerendo gli Ordini di evitare ulteriori sospensioni, quanto meno a soli 90 giorni dal tampone positivo, dei sanitari non vaccinati e guariti dal Covid.

Trascriviamo qui alcuni passaggi significativi della sentenza che, oltre a revocare retroattivamente gli effetti della sospensione e a imporre il pagamento degli arretrati alla dipendente ingiustamente sospesa, pongono in dubbio la ragionevolezza e la costituzionalità dell’obbligo stesso.

In particolare sono interessanti i punti F e G del dispositivo giuridico:

“Ciò che, allora, nel presente giudizio può farsi è effettuare una prognosi circa l’esito del giudizio di costituzionalità che, nell’ambito del merito della controversia, dovesse introdursi.

  

F) Ad avviso dello scrivente, la prognosi è nel senso dell’illegittimità costituzionale per le ragioni di seguito esposte.

Secondo la giurisprudenza costituzionale, il diritto alla salute sub specie diritto all’autodeterminazione terapeutica, può trovare limitazione solo nei casi in cui sia necessario tutelare l’interesse della collettività, poiché, in caso contrario, ogni persona è libera di decidere se sottoporsi o meno a trattamenti sanitari, anche a costo di conseguenze letali.

In materia di vaccinazioni obbligatorie, esiste un indirizzo costante del giudice delle leggi, in base al quale l’art.32 Cost. postula il necessario contemperamento del diritto alla salute della singola persona (anche nel suo contenuto di libertà di cura) con il consistente e reciproco diritto delle altre persone di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art.32 Cost. a varie condizioni, tra cui quella che il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato dì salute degli altri. (…)

Nel caso di specie, l’art.4bis enuncia chiaramente lo scopo della norma, laddove recita che “al

fine di tutelare la salute  pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza…” è imposto l’obbligo vaccinale a determinati soggetti. La vaccinazione in questione, pertanto, è imposta al lavoratore non a tutela della salute propria  ma di quella altrui (in particolare, quelle delle persone “fragili” della struttura, in gergo “ospiti”.)

Orbene, nonostante sia evidentemente legittimo lo scopo cui il legislatore tende, sussistono fondati motivi per dubitare circa la ragionevolezza dello strumento prescelto.

Attingendo a circostanze che possono essere ormai considerate notorie, infatti, può affermarsi che la vaccinazione non elide il rischio di contrarre il virus SARS-CoV-2, né, tanto meno, di trasmetterlo a soggetti terzi con cui si entri in contatto.

In tal senso depongono tutti i report dell’Istituto Superiore della Sanità, che rilevano una efficacia limitata dei diversi tipi di vaccini  che peraltro cala nel corso di un beve lasso di tempo, rispetto al rischio di contrarre la malattia. A titolo di esempio, si consideri il report dell’ISS del 6.4.2022, nel quale è dato atto che l’efficacia del vaccino rispetto al rischio di contrarre il virus ,nella variante omicron ormai dominante, è pari al 47% entro 90 giorni dal completamente dcl ciclo vaccinale, 39% tra i 91 e i 120 giorni, e 47% oltre 120 giorni dal completamento del ciclo vaccinale.

 Lo stesso Ministero della Salute, del resto ,ha qualificato come notizia tassativamente falsa l’affermazione secondo cui “Se ho fatto il vaccino contro Sars-CoV-2 e anche il richiamo con la terza dose non posso ammalarmi di Covid-19 e non posso trasmettere l’infezione agli altri”.

In sintesi, il mero fatto che un lavoratore si sia sottoposto al vaccino, non garantisce, di abbattere il rischio in modo prossimo alla certezza, che egli non contragga il virus e che quindi, recandosi sul luogo di lavoro, non infetti le persone con cui ivi viene a contatto, nella specie gli ospiti della struttura sanitaria.

Al contrario, allo stato, l’unico strumento che consenta di perseguire davvero lo scopo indicato dal legislatore, cioè evitare che un professionista sanitario contagi pazienti, è quello di avere la alta probabilità che egli non sia a sua volta infetto. Alta probabilità che, come visto, non viene data dal vaccino.

Tale risultato, invece, è possibile garantirlo col c.d. tampone molecolare o antigenico da eseguire in laboratorio o antigenico rapido di ultima generazione), cioè col test diagnostico volto a rilevare l’infezione incorso.

Soltanto questo ultimo strumento ,infatti, consente d’escludere,  sebbene per un periodo di tempo limitato(due o tre giorni),con probabilità affatto elevata, superiore al 90%,che un soggetto sia  portatore del virus e ,quindi,allo stesso tempo possa trasmetterlo agli altri.  (…)

In altri termini, le norme in questione sembrano violare l’art.3 Cost., poiché, allo scopo di evitare la diffusione del virus, impongono ai lavoratori un obbligo inutile e gravemente pregiudizievole del suo diritto all’autodeterminazione terapeutica ex art.32 Cost., nonché del suo dritto al lavoro ex art.4c35 Cost., prevedendo la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione in caso di inadempimento dell’obbligo vaccinale: obbligo che non si pone in necessaria correlazione con la finalità di evitare il contagio e di tutelare la salute dei terzi, vale a dire la salute pubblica. Sembra quindi doversi concludere che il bilanciamento tra i diritti costituzionali coinvolti, sia stato operato dal legislatore, che pure gode di ampia discrezionalità, in maniera manifestamente irragionevole rispetto alla finalità.

 

G) Deve dirsi, infine, che pare sussistere anche il periculum in mora.

La ricorrente ha allegato 1’impossibilità di provvedere al proprio sostentamento in assenza dell’unico reddito di cui può usufruire, cioè quello derivante dall’attività lavorativa, anche a fronte della circostanza che ha contratto due distinti finanziamenti, (…).

Così allegato il pericolo, si rileva che lo stesso sussiste, posto che il diritto al lavoro e alla retribuzione attiene alle esigenze primarie di sopravvivenza della persona, oltre che all’espressione della sua personalità.

Anche sotto questo profilo, pertanto, deve ritenersi che il ricorso sia fondato.”

 

Le valutazioni del giudice di Sassari si sommano a quelle della Corte della Giustizia Amministrativa della Sicilia e rinforzano i pareri amicus curiae presentati da diverse associazioni (alcune le potete leggere qui, qui qui).

(articolo firmato)

 

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